Review of Freemasonry Made by Freemasons for Freemasons
The Review of Freemasonry made by Freemasons for Free Masons
History Literature Music Art Architecture Documents Rituals Symbolism Philosophy
Rivista di Massoneria - Revue de Franc-Maçonnerie - Revista de Masonerìa - Revista de Maçonaria
Make Home Page Make this Website Your Start Page Print this page Print this Page Send Masonic PostcardSend Masonic E-Card

rebis
Alessandro E.M. Pisani

SCRITTI ALCHEMICI E CURIOSI

Labirinto - L'identità di Dedalo
rebis
PHANTASIA & CURIOSITAS
NOTE INTRODUTTIVE ALLA RICERCA ALCHEMICA
ALCHIMIA
L' UOVO E LA GALLINA.....DEI FILOSOFI, NATURALMENTE!
LABIRINTO - L'IDENTITA' DI DEDALO
IL LIBRO NELL' ALAMBICCO
L' ALAMBICCO NEL LIBRO
LA FRITTATA ALCHEMICA
Repertorio alchemico, cabalistico, magico e “curioso” Repertorio.pdf.zip 2.230 Kb


labirinto - dedalo

L'IDENTITA' DI DEDALO

            Un titolo che suggerisce una chiave di lettura.

 

            Un titolo che, per la rilevante presenza della d, rimanda, ridestando il simbolismo di antichi alfabeti, al nodo simbolico della porta, dell'apertura tra due diverse realtà: daleth in ebraico vale per "porta", il greco allude ai genitali femminili.

 

            Un titolo che suggerisce una chiave che potrebbe aiutare ad aprire una porta.

 

            Finché un percorso segue un andamento rettilineo, non ci si trova in un labirinto... a meno che non si tratti di labirinto di dimensioni ben superiori a quelle che si possono abbracciare: un labirinto cosmico che contiene miriadi di minuscole masse in movimento... quasi cercassero una via di fuga dall'apparentemente illimitato contenitore nero, e su una di queste masse, una delle più piccole, presuntuose forme di vita che non riescono a capacitarsi della propria inettitudine nell'individuare i limiti dell'illimitato, nell'immaginare dove e quando si collochi un punto di svolta, il bivio verso cui, lo sentono, il cosmo sta inesorabilmente procedendo. Altre forme di vita, apparentemente indistinguibili dalle prime, a fatica riescono a percepire il movimento di ciò che a loro è più vicino e con sicurezza escludono movimenti di ordine diverso: quella montagna, lì è sempre stata e sempre sarà, e quel braccio di mare e questa regione stessa. Per costoro, chi si attarda a contemplare un cielo non ha evidentemente nulla di meglio da fare, contrariamente a loro che procedono con sicurezza all'interno di una realtà che qualcuno, non si sa se per malignità o perché qualcuno ne ha travisato il senso delle parole, avrebbe detto essere stata creata per soddisfare i loro bisogni. Tutti sanno - o almeno: tutti dovrebbero sapere - quanto vi sia di falso nella verità trasmessa da questa affermazione. Se ciò avviene, se il vero può tramutarsi in falso con la stessa facilità con cui si rivolta un guanto, se ciò avviene è perché si è dimenticata l'identità - sempre che sia possibile fissarla! - di chi avrebbe fatto simile asserzione. Si è detto che il messaggio proviene dalla più remota antichità e che forse i molteplici passaggi di bocca in bocca avrebbero potuto storpiarlo; è più verosimile però che la lettera sia rimasta fedele e che sia stata invece la massa delle più umili forme di vita a piegare il messaggio alla propria inettitudine e ai propri intenti: il povero impazzisce al pensiero che un suo fratello sia diventato nobile e potente e preferisce allora immaginare, innanzitutto, che non su tratti di un suo vero fratello e, in secondo luogo, che siano intervenute forze superiori a determinare la penosa "ingiustizia". In tutto questo vi è del vero. E' inevitabile perciò che i più miseri, venuti a conoscenza di qualcuno che avrebbe creato cieli, terre, astri, piante, animali..., abbiano pensato che costui appartenesse a realtà affatto diversa dalla loro. E anche in questo vi è la medesima porzione di verità. Sfugge loro l'identità di questa straordinaria figura e, per essere sicuri che questa identità sempre sfugga, a beneficio di tutti i miseri presenti e a venire, inventano le religioni, quelle trasformazioni di antichi racconti scritti nel silenzio le quali, pur dicendo il vero, tanti sforzi dedicano a occultare e a falsificare.

 

            Con la sicurezza che il mondo sia stato creato a loro beneficio, che gli animali debbano loro obbedienza - ma lo sanno che cosa sono in realtà gli animali? -, che la terra gratifichi con abbondanti frutti le loro fatiche  - ma hanno idea di che cosa sia la terra?- procedono con un cammino a loro avviso rettilineo. E lo è, nei limiti in cui, nel mondo, una linea può essere retta: inevitabilmente schiacciata da ciò che è più forte, più pesante. Ecco perché qualcuno parla della necessità di rettificare, operazione che certo non consiste nel permanere nell'illusione di andare diritti semplicemente facendo sì che ogni passo segua scrupolosamente l'altro, ma che è fatta di mutamenti anche bruschi della propria traiettoria, è fatta di bivi di fronte ai quali, imperiosa, si pone la scelta. Ecco perché, accanto alla volontà, deve trovare posto con non minore forza l'attenzione, quella capacità che, dice Simone Weil, portata all'estremo "somiglia a un'incoscienza... quando si fa moltissima attenzione a una cosa non si ha tempo di saperlo...". Una caduta d'attenzione, o addirittura la sua mancanza, portano allo sviamento: che è infatti il divertimento se non un volgere altrove i propri passi? Non si entra nei labirinti per divertimento, nei labirinti non ci si diverte... solo una ferma attenzione può evitare la diversione, l'allontanamento dal necessario processo di rettificazione. Per rettificare bisogna percorrere un tragitto articolatissimo. Per rettificare si deve entrare in ciò che è più pesante (V.I.T.R.I.O.L.), in quell'elemento che è condizione necessaria per l'esistenza stessa del labirinto.

 

            Quando ci si trova dinanzi a un bivio, si ha la certezza di essere in una porzione di labirinto. Si potrebbe anche dire che i bivi sono segnali di vita, di vita creata e non di mero abbandono a più forte corrente. Trovarsi di fronte a bivio implica la capacità di percepirlo e, dunque, di crearlo, di creare le condizioni necessarie e sufficienti perché, nell'indistinto, nell'impossibilità di scelta che segue all'indifferenza, emergano qualificazioni.

 

            Il labirinto del mondo - quello, lo si ricordi!, in cui la prima volta non si entra di propria volontà e che, proprio per questo motivo, richiede che volontariamente vi si rientri - il labirinto del mondo spesso non consente al visitatore di arrivare a un compimento... quale che sia: ucciso dal Minotauro o vittorioso al centro. Molteplici i motivi. Rilevante è forse il fatto che altri labirinti, più piccoli, l'uno incastonato sull'altro, si aprono all'interno del grande labirinto, invitando il visitatore a percorrerli e a raggiungerne i rispettivi centri. Avviene così che una volontà, pur senza essere incorsa in fatali errori, gradatamente si estingua, assorbita nella dimensionalità frattale di questi labirinti l'uno sull'altro incastonati. E' il divagare, il perdere la via. E' la perdita di concentrazione, del centro, o almeno dell'intuizione di dove questo sia. Se la volontà non viene sbocconcellata da inutili cammini, si presenta, fatale, il bivio dinanzi al quale non si possono volgere indietro i passi, bivio che determinerà tutto il restante percorso.

 

            E' l'incrocio in cui Edipo, in fuga dal proprio destino, incontra il padre Laio e, a punizione della propria fuga, subirà le note conseguenze: non si entra nei labirinti per fuggire! Questo ce lo ricorda anche J.L. Borges: Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto [...] Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l'universo già lo è ("Abenjacàn il Bojari ucciso nel suo labirinto"). E infatti, sempre nello stesso racconto, viene a delinearsi, come immagine di cui il mutar della luce attesti la presenza, viene a delinearsi la figura del labirinto in quanto rete, in quanto ragnatela che attira per distruggere.

           

            E' a un bivio che nel famoso quadro di  Poussin, sulla scorta della tradizione classica, viene collocato Ercole.

           

            A un incrocio si svolgeva il tryambaka, rito consistente nell'offerta di tre torte di riso al temibile Rudra affinché questi risparmiasse dalle sue frecce i discendenti, nati e non nati, del sacrificatore (Satapatha Brâhmana 2.6.2.3).

 

            Ancora, e soprattutto, è Ecate con il suo triplice corpo, con i suoi tre visi, a presiedere i bivi, punti d'incontro dei tre mondi di cui è signora: il cielo, la terra e gli inferi.

 

            La scelta che l'incrocio impone non è quella che la faciloneria e il moralismo di un certo pensiero vedrebbe identificato tra bene e male. Nel costruire non esiste bene e male, quanto piuttosto ciò che è corretto, adeguato e ciò che non lo è. Andare da una parte o dall'altra non significa optare per il bene o per il male, bensì compiere un'operazione che può accrescere o ridurre gli squilibri, può portare crescita o diminuzione, può portare a perdersi o a ritrovarsi.

 

            Il labirinto è lo schema e la cifra di tutti i possibili percorsi, l'uno dall'altro diverso in funzione del rispettivo punto di partenza all'interno di spazio dalla plurima dimensionalità.

 

            A semplificazione di un ammaestramento il labirinto viene spesso concepito con una configurazione simmetrica: a un corridoio che volge a destra ne seguirà uno che volge a sinistra, a due curve in una direzione faranno seguito altre due curve in direzione opposta... ed è osservando la pianta di uno di questi labirinti simmetrici che può venire in mente l'importanza di certe opposizioni complementari in cui ogni parte conserva e custodisce il seme dell'altra. Fondamentale e paradigmatica l'opposizione tra destra e sinistra: il dominio del maschile e quello del femminile.

 

            In un tracciato che non rivela apertamente una direttrice che punti immediatamente al centro ma che prevede solo svolte a destra e a sinistra, l'equilibrio, il raggiungimento di uno di quei centri che pone nelle condizioni adeguate per elevarsi ad altro centro, da un chakra all'altro, l'equilibrio può essere ottenuto effettuando il necessario numero di svolte a destra e a sinistra, numero che non è mai uguale per i due sensi essendo diversa l'individuale posizione di partenza di ognuno, essendo diversi, cioè, i disequilibri che ognuno deve fronteggiare e, gradatamente, ridurre. Tali disequilibri, prima che individuali, appartengono all'uomo come collettività, come frutto dell'antropogenesi, in generale, e di una specifica cultura, in particolare. Il predominio assoluto della mano destra, dell'emisfero sinistro, della parola, del pensiero discorsivo-razionale, la dicono lunga su quale sia il tipo di svolta che l'individuo deve subito effettuare nella prospettiva di un futuro equilibrio. Non a caso molti cammini iniziatici prevedono, nei loro stadi iniziali, la pratica del silenzio, quel silenzio interiore che permette d'intendere "voci" sì soffocate ma non per questo inattive. L'ipersviluppo dell'emisfero sinistro rispetto al destro, il maggior peso attribuito all'analisi rispetto alla sintesi, all'intelligenza (binah) rispetto alla saggezza (hochma), la mascolinizzazione di capacità femminili - e cioè l'uso dell'intelligenza per la conquista del mondo esterno - sono i mezzi e i segni dell'affermarsi di quella parte dell'uomo in opposizione a ciò che è scuro, pesante e, in apparenza, autosufficiente. Se non fosse stato per questa  paura, i maschi non si sarebbero stretti gli uni agli altri e ciò che oggi si chiama cultura avrebbe senz'altro avuto tratti ben differenti. Creando uno strumento più potente delle proprie capacità di dominarlo, il maschio rovesciò il rapporto che apparentemente lo vedeva in svantaggio nei confronti della femmina e, proprio in forza di tale incapacità, si trovò e si trova trascinato da un vortice che sempre più lo allontana dalla terra, dal profondo, dal pesante. Ma non solo e non tanto il maschio e la femmina furono e sono coinvolti da questo singolare processo, quanto e soprattutto il maschile e il femminile: da qui una progressiva androginizzazione della donna e un'attenuazione, nel maschio, dei tratti più tipicamente virili, ormai quasi affatto ridondanti. La conclusione, una conclusione, però non sarà mai la ricomparsa dell'androgino bensì, preoccupantemente, quella di individui sprovvisti delle caratteristiche salienti delle due polarità, per quanto efebici e squilibrati... come può essere chi possieda un organo mentale enorme e minuscoli cuore e piedi.

 

            Ci si è dimenticati di un lato... e così con ostinazione e maniacalità si è cercato di percorrere tutti i corridoi di una metà del labirinto cerebrale, ma quello che lì si è trovato, privo di spinte controlaterali, quanto più ci si è anche dimenticati che questo labirinto superficiale nasconde altri  labirinti, più profondi, più antichi, quelli connessi ai ritmi fondamentali, alle pulsioni primarie. Per percorrere con successo il labirinto è necessario, si dice, un filo... ma, si potrebbe anche dire, quell'inestricabile labirinto che è il cervello umano era, all'inizio della sua filogenesi, una sorta di filo, un tubo neurale, che gradatamente incominciò ad avvilupparsi su se stesso in un modo sempre più complesso, fino ad assumere la conformazione oggi nota. Così avviluppato e molteplicemente a se stesso interconnesso il discendente dell'antico tubo neurale non può  certo essere restituito alla sua linearità, né ve ne sarebbe bisogno ché troppo verrebbe perso in simile, fantastica, operazione. Le proprietà di un labirinto non sono quelle di un rettilineo della stessa lunghezza di tutti i tracciati che esso custodisce! Il problema non è allora quello di districare un'inestricabile matassa bensì quello di individuare le vie d'accesso più opportune, i corridoi più larghi, agevoli, meno appesantiti e insidiosi per l'aggiunta di recenti artifici. Queste vie d'accesso, questi corridoi, sono quelli che da più tempo sono percorsi, quelli situati nei più intimi recessi dell'encefalo e le cui chiavi sono da sempre in possesso dell'uomo, talmente da sempre da dimenticarsene... e al punto di permettersi e permettere alterazioni potenzialmente letali: per queste vie, per questi corridoi, passano i ritmi fondamentali del cuore e della respirazione, dell'alternarsi del giorno e della notte, degli aromi della passione e della paura, delle posizioni e del direzionamento del corpo... e via via, per modulazioni successive, ai più semplici ritmi musicali, a semplici melodie e a figure di danza.

 

            Affrontando il labirinto da queste, più antiche, vie può risultare possibile intuire la scansione dei ritmi fondamentali anche quando questi siano frazionati fino all'esasperazione, quando le melodie inseguano, intrecciandosi e rincorrendosi, i più involuti arabeschi, quando i colori esplodano in policrome nubi puntiformi e gli aromi siano coperti dalla grigia cappa dell'indifferenza.

 

            Più chiaro, a questo punto, l'insegnamento di tante tradizioni, sia che queste incitino a far salire un serpente che si inanelli attorno a una colonna centrale fino a raggiungere la sommità del capo, sia che vedano nel corpo e nei suoi organi proiezioni delle sefiroth, sia che gli influssi siano invece quegli degli astri: tutto concorda ad affermare l'equazione tra ciò che sta in basso e ciò che sta in alto, tra microcosmo e macrocosmo, tra uomo e cosmo.  Ma se il cosmo è un labirinto, lo stesso sarà anche l'uomo e pari sarà il compito di trovarne il centro... un centro nascosto, però, di cui ben pochi sono a conoscenza e che ancora in meno riescono a raggiungere. Il labirinto, infatti, costituisce e rappresenta le difficoltà che si incontrano nel corso del lungo viaggio iniziatico, in modo non diverso - anzi: in patente analogia - dal mandala. Entrambi, mandala e labirinto, sono circondati da una cintura periferica che impedisce l'accesso ai non qualificati, mentre con le prove e le difficoltà che serbano al loro interno ottengono un'efficace selezione e preparazione dei candidati.

 

            Pur nella relativa libertà che gli è concessa, chi medita su un mandala sa che prima di avvicinarsi al centro dovrà incontrare tutte le forze che abitano e costituiscono l'affascinante psicocosmogramma, comprese quelle che, vuoi per il contesto culturale vuoi per la sua storia individuale, sono state rimosse. In modo non diverso, chi entra nel labirinto sa che la strada da percorrere è una e una sola, lunga e con inevitabili prove da superare o a cui soccombere. E come chi entra nel labirinto avrà bisogno di un aiuto supplementare - un filo, una spada o un raggio di luce - così chi entra nel mandala riceverà un aiuto superiore; dice infatti il maestro, recidendo la benda che copre gli occhi del discepolo: "OM  DIVYEN  DRIYâN UDGMâTAYA SVAHA (Om, dischiudi i sensi divini, Svaha)" Nâropâ Kâlacakra. Paramârthasamgrahanâmasekkoddeshatîkâ  P273b La necessità di una più fine intuizione è infatti dovuta al costante rischio di commettere, una volta entrati nel recinto sacro, errori nell'immediato privi di evidenti conseguenze ma a lungo termine capaci di provocare i più grandi e difficilmente correggibili cambiamenti. La nostra stessa civiltà è, si potrebbe dire, figlia di uno di questo errori. Il riferimento è all'uccisione del Minotauro da parte di Teseo. La cultura occidentale, con la sua particolare declinazione, ha sempre considerato il Minotauro come un pericoloso mostro e la sua morte, di conseguenza, come una liberazione - di per se stessa e per il tributo che l'esistenza del  Minotauro esigeva. In realtà egli - figlio di Pasifae e del toro di Poseidone e vivente sotto il regno di Minosse, figlio di Zeus - rappresentava un importante punto di equilibrio tra polarità opposte. La Creta di Minosse segna il passaggio dalla ginecocrazia al patriarcato, e dunque anche quello da una spiritualità interiore, vissuta nella carne, a una spiritualità più cerebrale. Il Minotauro è una sorta di guardiano di quella soglia che può essere varcata solo dall'uomo compiuto, dall'uomo che ha ottenuto la vittoria, che ha superato il triangolo inferiore di Yesod (il fondamento) - Hod (la gloria) - Netsah (la vittoria, appunto).  Il tributo dei sette e sette giovani che Atene doveva elargire al Minotauro, rappresenterebbe dunque la parziale e graduale compensazione da parte di questa città/civiltà, ormai passata sotto il regime patriarcale di Zeus, nei confronti delle più antiche, e ora abbandonate, forze ctonio-matriarcali. Il cammino era già tracciato, si trattava in effetti di fare in modo che gli squilibri e i contraccolpi fossero il più possibile ridotti. A un tratto irrompe, non richiesto, Teseo che, come un ragazzino smanioso di ottenere qualcosa, travolge e uccide quello che in effetti era solo un guardiano, uno che contribuiva a garantire una crescita ordinata. Se non fosse esistito un simile Teseo - ma analoghe considerazioni si possono fare anche per Prometeo - il passaggio da un tipo di civiltà all'altro avrebbe goduto di quella gradualità che evita l'esposizione a futuri contraccolpi. Con il suo prematuro gesto Teseo ha provocato un repentino passaggio da un mondo che ancora godeva dell'unione che il femminile riesce a stimolare a un mondo fondato sulla maschile separazione. Da un punto di vista neurologico un emisfero, quello sinistro, diventa del tutto dominante sull'altro. Dal punto di vista del diritto viene fondato, come osserva Bachofen, "il diritto paterno spirituale della potenza luminosa, celeste. Nell'Attica avrà prosecuzione e compimento ciò che era iniziato a Creta. 'Nulla senza Teseo', dice la massima che ci è riferita da Plutarco (Teseo 29.3)" Das Mutterrecht I.127 . "Nulla senza Teseo", certo, nulla o per lo meno solo parte delle lacerazioni e degli squilibri che caratterizzano l'essere umano da che ha deciso che la vittoria può essere ottenuta in qualunque modo, al limite anche uccidendo il guardiano della soglia. La civiltà greca di tipo olimpico e quella cristiana che su questa si è innestata hanno trasformato in eroe un personaggio che con il suo gesto diede un serio colpo all'efficacia di un rituale capace di avvicinare l'uomo a quell'integrità persa con il fatto stesso di essere divenuto uomo. Operazione non da tutti praticabile, anzi da pochi, da pochissimi: nel labirinto infatti si entra solo per un preciso atto di volontà.

 

            Diverso il caso dei sette e sette fanciulli ateniesi, che rappresentano  le concessioni e i sacrifici necessari allorché si passi da un tipo di regime all'altro.  Chi, invece, entra nel labirinto di propria volontà, sa di andare incontro a morte certa, di andare incontro a una morte: per costui il problema sarà quello di passare attraverso uno stato di morte e tornare alla vita. Questo passaggio può avvenire durante la vita terrena - entrando in un labirinto o in un mandala - oppure al termine di questa stessa. Robert Graves ci riferisce che gli spiriti dei re dell'Irlanda pagana si sarebbero trasferiti nel Castello a Spirale, dal quale alcuni avrebbero poi potuto ritornare (nella poesia di Gwion Preiddeu Annwm si dice che "solo sette tornarono da Caer Sidi"). Dice ancora Graves che "in Gran Bretagna la tradizione del Castello a Spirale sopravvive nella danza pasquale del labirinto eseguita nei villaggi rurali: i labirinti vengono chiamati Troy Town in Inghilterra e Caer-droia in Galles. Tali danze furono così chiamate  probabilmente dai Romani, che conoscevano il 'gioco di Troia', una danza labirintica dell'Asia Minore eseguita dai giovani patrizi di Roma nei primi anni dell'Impero in memoria della loro origine troiana... La danza del labirinto sembra essere giunta in Britannia dal Mediterraneo orientale con gli invasori neolitici del III millennio a.C." La Dea Bianca p. 127

 

            Mettendo insieme i diversi elementi - 1) castello a spirale (= labirinto) dove vanno 2) i re (= individui dotati di particolari attitudini) dopo la morte e da cui alcuni possono tornare, 3) le danze labirintiche nel periodo pasquale, 4) il riferimento a Troia (che ritroviamo al centro di alcuni labirinti a mosaico in alternativa a Gerusalemme) - mettendo insiemi i vari elementi si arriva alla conclusione che il labirinto rappresenta un chiaro invito a passarvi attraverso, a passare dalla luce alle tenebre, dalla vita alla morte e poi, se qualificati, a uscirne. Chi non vi riesce non verrà certo smembrato dal Minotauro, ma rimarrà nel labirinto, nel labirinto della sua individualità e del mondo in cui vive, nel labirinto da cui, entrando nel labirinto, aveva cercato di uscire. Chi non entra, volontariamente, nel labirinto e non sa uscirne, in realtà è sempre stato e sempre sarà all'interno del più angusto dei labirinti.

 

            Entrare nel labirinto significa, lo sappiamo, entrare nella Terra, Terra di cui siamo fatti,  TSO . terra da cui proveniamo e a cui ritorneremo.     TSO terra" è "forza", è STO, la forza che lì è nascosta... e infatti come valore gematriaco  TSO (=  45) corrisponde a KU, "nascondere". Forse per un caso, più probabilmente per intima necessità, il greco cqwn   "terra" rimanderebbe, secondo la più recente indagine etimologica, all'accadico KATAMU che, parimenti, significherebbe "ciò che è coperto, nascosto" e all'ebraico hâtam "nascondere, celare". La terra in cui si penetra entrando nel labirinto nasconde dunque qualcosa; ma la terra, considerata nel suo aspetto del gr. gh, rivelerebbe con il suo stesso nome ciò che essa nasconde, ciò che essa è: dalla stessa radice, infatti, deriverebbero gh "terra", gunh"donna" e gua "terreno arativo, grembo materno" (cfr. Bachofen I.148; Sofocle Antigone v. 569), nonché, strettamente connesso a gh, gaia per il quale si è supposta come origine una contaminazione tra gh e aia "terra" (omonimo di "nonna") e maia "donna vecchia". Ciò che la terra nasconde e ciò che la terra è si identifica dunque nel femminile, quella metà di cui il maschile si è in parte servito per le sue più grandi conquiste e di cui, per l'altra parte, ha provveduto a occultare l'attività. E' chiaro che, parlando di femminile e di maschile, solo indirettamente si fa riferimento al loro concretizzarsi, con variabili proporzioni, nella donna e nell'uomo concreti. Femminile e maschile devono piuttosto essere intesi sulla scorta del "diagramma della realtà ultima", il T'ai-chi T'u del taoismo, quella condizione di dinamico equilibrio tra due insiemi di forze complementari, ognuno dei quali contiene il seme, il germe, dell'altro. Per quanto diverse siano le cose che l'uomo e la donna cercano nell'esperienza del labirinto, ed eventualmente trovano, ciò che conta è che sia l'uomo che la donna hanno bisogno di compiere tale esperienza poiché entrambi, figli della Terra, hanno rinnegato e dimenticato la Madre.

 

            Anche mettendo da parte l'ipotesi etimologica che lega gh, gunh e gua e considerando quella che vede in tali voci lessicali la derivazione di antiche forme semitiche, tra loro slegate, le conclusioni non cambiano. gh avrebbe la sua antichissima base nel sumerico GA "dimora",gunh nell'accadico GINA e starebbe a indicare colei che vive nella casa legittimamente e stabilmente (cfr. Semerano Le origini della cultura europea. v. II Dizionari etimologici). Entrambe le parole farebbero dunque riferimento, seppure per aspetti parzialmente diversi, a due condizioni di vita prototipiche per molte civiltà, dimenticando le quali ci si espone inevitabilmente ai più seri contraccolpi. Funzione dell'uomo, ma anche condizione per un suo perfetto equilibrio, è quella di fare da tramite tra terra e cielo; si dice nell' I-ching: "Cielo e terra vengono a contatto, e  tutte le cose si generano e acquistano forma" p. II, sez. II, cap. V, § 13 . Una continua e intensa opera di persuasione ha fatto sì che sempre più questi si staccasse dalla Terra e si illudesse di poterla dimenticare: emblematica la fine di Icaro che, non a caso, cercava di fuggire dal labirinto! Terribile e improvviso il riavvicinarsi di Icaro alla Terra, il suo ricongiungersi con essa; per tutti gli altri, di solito, più graduale.

 

            Un'etimologia vuole che il greco gerwn "vecchio", graus  "vecchia" e il tedesco Greis siano legati alla radice  "terra". Dice Plutarco: "In tutt'altro modo ci si comporta con gli anziani, i quali hanno ormai perduto gli umori loro peculiari, come sembra indicare il nome stesso con cui li si designa. Vengono detti gerontes non tanto perché desiderano riaccostarsi alla terra gh , quanto piuttosto perché, in base alla loro costituzione, sono diventati 'naturali' o vicini alla terra." Quaestiones conviviales III.3; cit. in  Bachofen  I.149 . Con la vecchiaia, allora, con il graduale avvicinarsi dell'arco di vita individuale (BìOS BIòS) al grande corso della vita (zwh), l'essere umano gradatamente stempererebbe quegli squilibri e quelle disarmonie che la sua storia  particolare e quella dell'uomo in generale hanno indotto. E' però un riavvicinamento mesto all'equilibrio, è un prostrarsi deboli e disperati a quella potenza da cui si è sempre distolto lo sguardo, quasi vergognandosene. Prima, con gli occhi rivolti in alto, a contemplare il terso cielo diurno; ora, con gli occhi rivolti verso una terra di giorno in giorno più nera e più vicina. Prima, tesi nell'impossibile intento di fissare gli occhi al sole e quasi smarriti, di notte, di fronte al pianeta che costantemente ricorda una possibile e necessaria conjunctio; ora, troppo affaticati per poter levare gli occhi al cielo e sempre più impauriti per poter godere del dolce irrorare della luna... solo capaci di percepire l'alternarsi di notte e giorno, di luna e sole... il ritmo di un pendolo in progressivo accelerarsi. E, riavvicinandosi alla terra, a questa gradatamente si restituisce quell'acqua con cui si era stati impastati, fino a divenire, per usare la definizione di Plutarco, degli alibantes, dei "senza linfa" *.*  Ecco l'uomo tornato  al suo primo elemento, quello adombrato dal mito di Deucalione e Pirra quando questi, sfuggiti al diluvio provocato da Zeus, ricevettero da un oracolo il consiglio di gettare alle loro spalle le ossa della madre; capirono che si trattava delle pietre della terra: le pietre lanciate da Deucalione si trasformarono in uomini, quelle lanciate da Pirra in donne.  Pietra in greco è laos - forma più antica di laas - e laos vale per "popolo", nell' Odissea "uomini, gente". Un'etimologia vuole che il labirinto non debba il suo nome a labrus, l'ascia bipenne, bensì proprio a laos "pietra". Altri ****  vedono la parola labyrinqos  legato all'etrusco THAURA "sepolcro", al licio LABRA "ipogeo", permettendo quindi un richiamo all'isoglossa greco-armena che si riporta a *DHMBH,  da cui il greco qaptw  "seppellire, sotterrare" (legami anche con laura "passaggio stretto" e laureion montagna dell'Attica conosciuta per le sue miniere d'argento). Sulla base di queste indicazioni etimologiche e delle trame intessute dai racconti mitici, se ne evince che l'uomo, nato dalle ossa della Terra, dai sassi che Deucalione e Pirra hanno gettato dietro le proprie spalle, alla Terra deve tornare per poter rinascere più completo, più conforme alla sua ideale funzione di intermediario tra Terra e Cielo. Il viaggio nel labirinto, nella Terra, attraverso un percorso lungo, tortuoso a tratti scoraggiante, costituisce allora il necessario preliminare alla radicale trasformazione che avviene nella camera centrale, nella caverna, in quel luogo in cui le più terrificanti forze possono materializzarsi o dove una principessa attende di essere risvegliata, un re di essere guarito. Ecco allora che il labirinto, con tutti i suoi tremendi guardiani e le incertezze e i rischi che implica, ecco che perde gran parte delle connotazioni negative addossategli dalla civiltà vincente e rivela il suo vero volto: quello di filtro nei confronti di chi, non provvisto delle adeguate qualificazioni, cerchi di raggiungerne il centro o di chi possa trovarsi troppo in fretta esposto alla sconvolgente esperienza della caverna.

 

            Prima ancora, però, di un filtro, di un cammino preparatorio a radicale trasformazione, il labirinto è avvertimento e suggerimento: la sola vista di un labirinto tracciato su due dimensioni anticipa la possibilità di un passaggio a tempo e spazi diversi... con quello che ne può conseguire. Da qui l'uso di graffiti labirintici sulle pareti o all'entrata di grotte, di luoghi deputati all'espletamento di particolari rituali. Tra le testimonianze più famose, quella di Virgilio in apertura del libro VI dell'Eneide:

 

                        Iam subeunt Triviae lucos atque aurea tecta.

                        ...

                        In foribus letum Androgeo ...

                        hic labor ille domus et inextricabilis error;

                        magnum reginae sed enim miseratus amorem

                        Daedalus ispe dolos tectis ambagesque resolvit,

                        caeca regens filo vestigia. ...

                        Eneide VI, 13-30 **

 

dove il labirinto effigiato sui battenti è anticipato da un'esperienza che chiunque giunga fin lì deve compiere: salire attraverso il bosco di Trivia, e cioè di Ecate, la Signora dei tre mondi, arrivando in presenza della quale è sempre necessario operare una scelta... come avviene infatti per entrare nel labirinto e una volta che si sia all'interno di questo.

 

            L'esperienza di Enea nel tempio di Apollo, a cui fa da prologo l'effigie del  labirinto, è introduttiva e preparatoria, come si addice a ogni "labirinto" che si rispetti. Qui, nel tempio, Enea riceve per bocca della veggente le informazioni necessarie per entrare e uscire dal Tartaro:

 

                        Quod si tantus amor menti, si tanta cupido

                        bis Stygios inuere lacus, bis nigra videre

                        tartara et insana iuvat indulgere labori,

                        accipe quae peragenda prius. Latet arbore opaca

                        auerus et foliis et lento vimine ramus,

                        Iunoni infernae dictus sacer; hunc tegit omnis

                        lacus et obscuris claudunt convallibus umbrae.

                        Sed non ante datus telluris operta subire,

                        auricomus quam quis decerpserit arbore fetus;

                        hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus

                        instituit; prima avolso non deficit alter

                        aureus et simili frondescit virga metallo.

                        Ergo alte vestigia oculis et rite repertum

                        carpe manu; namque ipse volens facilisque sequetur,

                        si te fata vocant; aliter non viribus ullis

                        vincere nec duro poteris convellere ferro.

                        ibid. vv. 133-148 *[iv]

 

            Come Teseo ha bisogno del filo - e cioè della spada, della folgore, del fuoco solare - per avere ragione delle insidie del labirinto, così Enea ha bisogno del ramo d'oro per entrare e uscire dal Tartaro. Il ramo d'oro - emergente dal sostrato celtico della cultura del padano Virgilio - in altri contesti sarebbe stato il vischio, l'acacia o la palma... tutti simboli di un tipo particolare di vita che trionfa su un tipo particolare di morte, una morte che va con coscienza affrontata e superata... è il sole che entra nelle tenebre della notte per tornare diverso, il giorno dopo... è il maschile che penetra nel femminile per dare vita all'uomo nuovo, all'unione dei due complementari.

 

            Detto che il viaggio nel labirinto non è fine a se stesso, bensì è volto a condurre a una caverna, al centro, e detto anche che la sola immagine del labirinto fa adombrare la possibilità di un passaggio a tempo e spazi diversi, e chiarito che nel seno della Terra è bene portare il seme che germinando darà un nuovo frutto, spontanei sorgono gli interrogativi sulla localizzazione del tempo e dello spazio a cui grazie al labirinto, si perverrebbe. Si sa che si tratta di tempo e spazi sacri ai quali il labirinto, nella sua funzione di temenos, fa da tutela nei confronti dell'esterno, ma c'è qualcosa di più. Ancora una volta, è un'ulteriore ipotesi etimologica a fornire uno stimolante suggerimento. Si sostiene Semeraro II.1.158 che la parola labyrinqos  richiama l'accadico LABIRûTE- LABERûTE "antichi", detto di  re e di antiche costruzioni: da LABIRTU - LABiRU ("antico"), LABIRUTU ("antichità"), LABIRTU ("tempi passati"). Lo stesso studioso, prendendo in considerazione l'equivalente etrusco TRUIA, fa notare come questa forma derivi dalla base corrispondente ad accadico TâRU "girare", "andare e tornare", e suggerisce che laburinqos , per suggestioni foniche antiche, fu sentito come accadico LABû-IRTU ("le circonvoluzioni del seno" : LABû "muovere in cerchio" e IRTU "seno", IRRû "intestini"). Per motivi diversi la parola laburintos sarebbe allora venuta a condensare riferimenti a più aspetti: a un antico passato; a un movimento circolare, o meglio a ripetuti cambiamenti di direzione finalizzati a "disorientare" chi li compie e a facilitare quindi il suo passaggio a diversa dimensione; a un luogo situato all'interno: del proprio corpo - come gli intestini e le circonvoluzioni cerebrali - oppure della terra. Il labirinto allora, sia che lo si percorra fisicamente sia che ci si confronti a una sua proiezione bidimensionale, indica la necessità di compiere un viaggio nell'interiora terrae durante il quale i convenzionali sistemi di "orientamento" saranno (dovranno essere) sospesi[v]  e al termine del quale ci si troverà trasportati nella più remota delle antichità, là dove risiedono gli "Antichi", nel mitico tempo in cui regnava l'equilibrio tra destra e sinistra: per esprimerci in termini cabalistici, è in questa camera centrale che può avvenire la congiunzione tra Malkhut e Yesod e dunque ripristinarsi il legame con  Tiphereth, cuore che accoglie e distribuisce i riflessi delle sefiroth superiori.

 

            Grazie all'ipotesi etimologica che lega laburinqos  all'accadico LABIRûTE "antichi" (detto di re e palazzi) è possibile cogliere un'interessante analogia con la  tradizione mistica ebraica degli Hekhalot. Nella letteratura degli Hekhalot - che tradisce sincretismi con paganesimo, cristianesimo e gnosticismo - si narra di esperienze magico-mistiche consistenti in viaggi celesti attraverso sette palazzi (gli Hekhalot, appunto) fino ad arrivare, eventualmente, alla visione del trono di Gloria, alla contemplazione dello Shiur Komah, la "misura della statura" divina. Anche in questo tipo di esperienza il viaggio è scandito da prove imposte da guardiani intenti non solo a preservare la santità dei luoghi ma anche a preservare l'integrità di chi compie simili esperienze: è noto il racconto talmudico dei quattro sapienti che compirono l'ascesa, uno dei quali morì, un altro impazzì, il terzo divenne eretico e il solo rabbi Akiva poté tornare in pace. Analogamente al Ramo d'Oro che Enea dovette presentare al guardiano dell'oltretomba per potere attraversarlo e sopravvivere, il mistico ebreo, oltre a compiere un'opportuna preparazione rituale, deve conoscere tutta una serie di nomi e formule ed essere in possesso di speciali sigilli da presentare al guardiano posto alla porta di ogni Hekhal. Grazie alla visita di questi palazzi e alla visione ultima - in modo non diverso da quello che varrebbe per labirinti e mandala - si dovrebbe pervenire al ridestarsi delle antiche conoscenze perdute, quelle riguardanti i misteri della creazione e dell'interdipendenza di tutte le cose e cioè, in ultimo, al ripristinarsi della propria integrità. Dicono al proposito i Grandi Hekhaloth di promettere  la rivelazione "dei misteri e dei meravigliosi segreti della trama su cui posa la perfezione del mondo e il suo corso, e la catena del cielo e della terra, con la quale tutte le ali dell'universo e le ali delle altitudini celesti sono legate, cucite insieme, avvinte, interdipendenti." Scholem  Le grandi correnti della mistica ebraica II.10 Se tale è la natura dei Palazzi, immediato sorge il riferimento a quei centri di forza gerarchicamente disposti e interrelati che sono le sefirot. Sette i Palazzi, sette le sefirot prima di giungere in prossimità di quel limite invalicabile costituito dalle tre sefirot supreme: Binah, Chochma e Keter (o imma, abba, Arik Anpin, e cioè la "madre", il "padre" e il "volto lungo" ossia il "Dio paziente"), prima di arrivare alla sefirah nascosta, da`at  la "conoscenza" che accoglie e distribuisce l'equilibrata sintesi delle emanazioni supreme. Anche per quello che concerne le sefiroth, come dice con i consueti ammiccamenti il Sefer Yetsirah, non ci si trova di fronte a un mero succedersi di stadi, bensì si tratta di legarle l'una all'altra, di andare da una all'altra grazie ai ventidue sentieri che le uniscono, di osservare e goderne le meraviglie... così come avviene al visitatore che passi dall'una all'altra delle sale che compongono i regali e - è il caso di dirlo! -labirintici Palazzi. Per uno di quei sospetti "casi" - così frequenti  in ambiti di questo tipo - un'immagine viene a soccorrere quelle che potrebbero essere solo analogie poste dal pensiero. Si tratta di un diagramma - tratto dal Pardes Rimmonim di Moses Cordovero, Cracovia 1592 - in cui le lettere iniziali del nome di ogni sefirah sono disposte in modo tale che ognuna inglobi tutte quelle a lei inferiori in modo tale da produrre, come immagine complessiva, la pianta di un labirinto. La "restaurazione", il tikkun,  a cui il cabalista dovrebbe partecipare, può allora essere vista come un cammino da una sefirah all'altra, tra una sefirah e l'altra, con inevitabili arresti, ritorni sul proprio cammino, vicoli ciechi, passaggi troppo arditi per essere affrontati, ripetizioni di uno stesso tragitto... come in un labirinto... quel labirinto che è il mondo, specchio ingigantito dell'uomo. E' dall'uomo infatti, dalle sue labirintiche viscere e circonvoluzioni cerebrali che da direzioni opposte vanno a congiungersi nella caverna del cuore, è da qui che inizia il viaggio nel labirinto.

 

            In un'opera giovanile - Laborintus - Edoardo Sanguineti così ne chiosa il titolo:

                                                Titulus       est

                                                    laborintus

                                                quasi laborem

                                                habens    intus[vi]

    

Qui non vi è nulla di etimologico, nessuna relazione necessaria; chiosatura e nome chiosato possono essere accostati esclusivamente grazie alle loro affinità fonetiche. Ancora una volta, però, ciò che dal caso è reso possibile ammicca alla necessità del vero. Il viaggio nel labirinto è sforzo interiore, è sforzo possente perché implica il riconoscimento e il superamento di eventi talmente antichi e possenti da non poter essere abbracciati dalla mente bensì, al termine del viaggio, solo dal cuore. Adottando il titolo Laborintus Sanguineti sicuramente pensava anche al famoso  personaggio di Joyce - Stephen Dedalus - che in apertura dell'Ulisse indica con chiarezza la natura stravolgente dell'evento:

 

"...Thalatta! Thalatta! E' la nostra grande dolce madre. Vieni a vedere.

Stephen si alzò e si accostò al parapetto. Appoggiatosi abbassò lo sguardo sull'acqua ...

- La madre nostra possente! disse Buck Mulligan -

Girò bruscamente i grigi occhi indagatori dal mare al viso di Stephen.

- La zia pensa che tu abbia ucciso tua madre, disse -

Per questo non vuole che io abbia a che fare con te -

- Qualcuno l'ha uccisa, disse Stephen con mestizia."

  J. Joyce Ulisse p. I

 

Dedalo, proveniente dalla già patriarcale Atene, fu colui che giunto a Creta contribuì all'occultamento dell'ultimo segno dell'antico potere della Madre: costruì il labirinto nel quale venne imprigionato quello che, nella civiltà di Creta in fase di transizione, era già percepito come mostruoso. Costruendo il labirinto Dedalo pose i presupposti dell'operazione che l'altro ateniese, Teseo, porterà a Termine: l'uccisione del "mostro" che, a parziale compensazione del suo imprigionamento, doveva ricevere l'annuo tributo sacrificale dalla solare e apollinea Atene. Significativo è anche il nome stesso, Dedalo: da sempre si è soffermata l'attenzione sul fatto che     significhi  "abile costruttore", in ovvia e immediata rispondenza alle numerose e inconsuete opere che al mitico costruttore vennero attribuite. Più utile è sapere che si riferisce sì a una raffinata tecnica di costruzione e che questa, per la precisione, è l'antica arte della fusione in bronzo con la tecnica della cera perduta: ,  allora, dal sumero  dè-dal    "fiamma".  Chi ha elaborato l'inganno per sottomettere il magnifico toro bianco al desiderio di Pasifae e che poi, per volontà di Minosse, costruirà il definitivo luogo di custodia per il figlio nato dall'unione tra Pasifae e il toro, costui dunque possiede già nel proprio nome un riferimento preciso a una razionalità maschile sempre intenta a sottomettere la natura, fino al punto di costruire aspetti artificiali della natura stessa, e altrettanto preciso è il riferimento al fuoco - sumero dè-dal - , al principio maschile del solve che penetra la terra e, in funzione del tenore del fuoco, scioglie determinati elementi e pone nelle condizioni appropriate per volute trasformazioni. Il mitico costruttore resta però imprigionato dalla sua costruzione, dalla terra... e dalla terra riuscirà a fuggire sfruttando al meglio ciò che da questa è più staccato: la razionalità e l'aria. Riuscirà a fuggirne anche l'altro eroe solare, Teseo, uccidendone però il guardiano e portando nelle tenebre l'ausilio del raggio solare. Non si può dire che né Dedalo né Stephen Dedalus abbiano ucciso la Madre, hanno solo posto le condizioni favorevoli perché ciò avvenisse. "Poteva, doveva andare diversamente", questo esprime la mestizia di Stephen Dedalus quando dice a chi lo accusa "Qualcuno l'ha uccisa". Ma a lui controbatte Buck Mulligan:

 

"Ti potevi inginocchiare ...    porca miseria ...   Sono iperboreo quanto te  sottolineatura aggiunta, nda ... C'è qualcosa di sinistro in te..."

 

Iperboreo anch'egli, ma di nome, in realtà, Màlachi[vii]... Màlachi Mùlligan... nome che evoca il greco , "molle, morbido, tenero" e la forma ebraica malkhut, con i suoi nessi simbolici con la Terra. L'iperboreo Màlachi-Buck Mùlligan ancora sente il legami con la Madre e pensa che la sua morte, forse, si poteva evitare o almeno, nell'ineluttabilità, di fronte a essa ci si doveva inchinare, inginocchiare... Diversa la condizione dell'iperboreo ormai completamente ateniesizzato, di Stephen Dedalus, certo rammaricato per la morte della Madre ma ormai influenzato da un pensiero conformato dal linguaggio, quasi paralizzato, poi, dal linguaggio scritto... perché, altrimenti, avrebbe conservato quella "curiosità da far vedere"? ...il telegramma, malamente trascritto da un operatore, e che avrebbe immediatamente annunciato la morte della madre se, invece che "Mother dying come home father", non vi fosse stato scritto "Nother dying come home father"[viii]. Stephen Dedalus è, come il suo mitico predecessore, imprigionato nel labirinto che egli stesso ha costruito: in questo caso un labirinto di parole, il labirinto del linguaggio, del pensiero che dal linguaggio viene modulato... modellato... limitato. L'imminente morte della madre non deve essere annunciata da un messaggio preciso, privo di ambiguità... deve essere sentita con quegli organi a cui il linguaggio mai potrà dare espressione. Ecco perché Màlachi-Buck Mulligan dice a Dedalus che, almeno, avrebbe potuto inginocchiarsi e cioè riavvicinarsi, seppur tardivamente, alla Terra per cercare di recuperare almeno una piccola parte di quello che si è abbandonato a una lenta agonia. Potrebbe essere questa piccola parte il germe all'origine di futuri equilibri. Il tutto non senza sforzo: quel labor-intus a cui fece riferimento Edoardo Sanguineti pensando, forse, alle vicende degli antichi e moderni Dedalo.

 

            Sforzo conoscitivo, sforzo di trasformazione che, necessariamente, arriverà all'arresto. E' dunque prima di questo momento che si dovranno varcare le porte che aprono l'accesso a più ampia dimensionalità. Un labirinto, allora, è lo spazio in cui possono incontrarsi finito e infinito, il luogo generato dalla finitezza della clessidra e dall'infinitezza del cerchio. La clessidra, quel minuscolo arco ( ò ì )  dell'infinito cerchio che torna incessantemente su se stesso, dell'onda che ritmicamente, senza sosta, torna a frangersi sulla battigia riassimilando, nel suo moto circolare, la goccia illusasi per un attimo infinitesimale di un'esistenza autonoma. La clessidra, che scandisce un veloce ritmo sovrapposto a quella pausa, per l'uomo infinita, tra l'espirare e l'inspirare del macrocosmo. La clessidra, al cui interno è un labirinto... come nella poesia di Dylan Thomas fatta a foggia di clessidra:

                                                            And we have come

                                                                  to  know  all

                                                                        Places

                                                                        Ways

                                                                        Mazes

                                                            Quarters and Graves

                                                            Of   the  endless   fall

 

            Nell'arco di tempo scandito dalla clessidra della vita ci si può abbandonare al flusso della caduta senza fine o cercare quella via traversa che conduce al centro, quel centro in cui tutto si unifica e che, appunto per questo, viene a collocarsi nell'infinito, nel senza tempo. Esperienza che, misurata dal di fuori, può essere definita nei termini di qualche istante ma che, per il suo essere fuori da tempo e spazi ordinari, viene a fissare un polo prima sconosciuto: il mondo si dilata e tuttavia più di prima viene compreso, le dimensioni note vengono a essere altrimenti disposte e, tuttavia, risulta più facile trovare un senso.

 

            Nel dire che è la via traversa a condurre al centro si coglie uno degli aspetti distintivi del labirinto, si coglie cioè uno degli aspetti distintivi del mondo, ciò che, al mondo, è vero. Riecheggiano le parole inquietanti del nano di Così parlò Zarathustra:

 

"Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo." "La visione e l'enigma"

 

            Zarathustra però pensa ad altro; il suo pensiero è più alto, lui stesso ha portato in alto il nano, accovacciato sulle sue spalle, e questi, con le sue parole, dimostra di non aver goduto di simile elevazione. Per questo motivo Zarathustra va in collera e lo chiama spirito di gravità... sebbene entrambi abbiano ragione: Zarathustra nella prospettiva di un superamento dell'uomo avvinto da condizionamenti e squilibri, il nano in quella di chi tale superamento non ha ancora compiuto né, forse, se lo propone. Zarathustra parla di due eternità, una davanti a noi e l'altra dietro di noi, le quali dopo aver compiuto due lunghi semicerchi sbattono l'una contro l'altra sotto la porta carraia dell'attimo. Il nome si riferisce al modesto arco ( ì ò ) che ciascuno di noi percorre. E non si può partire  che da questo arco, con le sue verità ricurve e i suoi bivi, tentando di trovare quella via traversa che da questo emancipi. Senza la decisa volontà di trovare tale via, perenne sarà il girovagare in angusti labirinti, costanti le ansie a ogni nuovo bivio, appaganti, persino, gli enigmi che popolano la penombra dei luoghi angusti. Ecco allora Zarathustra, colui che vuole raggiungere il centro e uscire dall'angusto labirinto, scagliarsi contro chi si accontenta di simile girovagare:

 

"... a voi, ebbri di enigmi e lieti alla luce del crepuscolo, a voi, le cui anime suoni di flauto inducono a perdersi in baratri labirintici:

- giacché voi non volete con mano codarda seguir tentoni un filo; e dove siete in grado di indovinare vi è in odio il dedurre - " in apertura de "La visione e l'enigma"

 

Ecco che a Zarathustra, in pieno mare, viene alla mente il labirinto e il filo, il raggio di luce che porterà al superamento dell'uomo, ma gli compare anche, poco dopo, un "ragno che indugia strisciando al chiaro di luna", il ragno che secerne il filo, che tesse la tela, quel labirinto da cui si resta imprigionati. Si evidenzia qui la duplicità simbolica del labirinto: spazio in cui si incontrano finito e infinito e, per l'altro verso, prigione fatale. Come duplice è il simbolismo sotteso alla figura della Signora del Labirinto: da un lato l'Arianna che cede alle lusinghe del maschile e aiuta Teseo a riuscire nella sua impresa, dall'altro lato l'Arianna che, per affinità fonetiche, richiama l' , il ragno, l'animale che, come indica il nome stesso (dall'ebraico ârag "tessere", "intrecciare", ereg "tessuto"), senza sosta costruisce affascinanti trappole da cui difficilmente l'imprigionato riesce a uscire. La duplicità di Arianna è peraltro palesata dal suo ruolo in seno al racconto mitico, lei figlia di Pasifae ("colei che illumina tutto"), nipote di Perseide (appellativo della dea lunare) e dunque legata alle antiche primigenie, forze del femminile, e figlia di Minosse, figlio di Zeus, il Minosse che pur spostando l'ago della bilancia in favore del maschile ancora sapeva garantire un certo equilibrio tra le forze complementari, è proprio lei, Arianna, Signora del Labirinto e ragno, a consentire l'irrompere incontrollato del maschile concedendo tutto il suo aiuto, concedendo se stessa, a Teseo.

 

            Di simili figure emblematiche, punti di passaggio tra una fase e l'altra dell'antropogenesi, la mitologia è ricca. Si pensi a Ipermnestra, figlia di Danao, sola tra le cinquanta sorelle a risparmiare il marito Linceo (o Lirceo) e dunque, come nota Bachofen, a "preparare il trionfo del diritto paterno" I.235 . Ma il suo gesto, isolato e anomalo rispetto al comportamento delle sue amazzoniche sorelle, avrà tutta la sua rilevanza nelle generazioni a venire. Da Ipermnestra discenderanno infatti Perseo ed Eracle - di Perseo pronipote - coloro che forse più di tutti contribuirono a suggellare il predominio del maschile sul femminile.

 

            Il modo per uscire da un labirinto è, si è detto, quello di trovare la via traversa che conduce al centro. Lì aspettano le prove più dure, nelle immediate vicinanze è in attesa il ragno che ha elaborato l'ardita architettura, che secernendo e intrecciando fili di luce ha costruito, nell'oscurità, una molteplicità di vie, una sola delle quali però porta nel luogo in cui può avvenire una radicale trasformazione. Le vie del labirinto sono tracciate, certo, ...ma non in una maniera definitiva... si modificano e se ne costruiscono porzioni con il fatto stesso di percorrerle, facilitando o complicando il compito di chi vi trova all'interno. Tornano alla mente i versi di Antonio Machado:

 

                                    Caminante, son tus

                                    huellas

                                    el camino, nada mas;

                                    caminante, non hai

                                    camino,

                                    se hace camino al andar

                                    ...

                                    Caminante, no hai

                                    camino,

                                    sino estelas en la mar.[ix]

 

Come scie sul mare... su un mare notturno, e che dunque ancor più legano i sensi di chi vi è di fronte ma che, per il fatto di essere tracciate sull'elemento acqueo, sono sensibili alle minime perturbazioni... il vento, una corrente, i nostri e gli altrui movimenti. E con le perturbazioni avvengono i mutamenti di rotta, si costruisce qualcosa che non potrà essere distrutto ma, eventualmente, solo superato. Di questo occorre avere precisa consapevolezza perché, come già si è detto, non si fugge in un labirinto, non ci si nasconde in un labirinto. Eppure questa tentazione fa adepti, soprattutto fra le persone meno banali, fra chi pensa di avere le capacità, pure a costo di gravi sacrifici, di ingannare i misteriosi guardiani. Emblematica è la vicenda rappresentata ne I fisici di Dürrenmatt: tre scienziati, per sfuggire a una situazione che giudicano insostenibile, si fanno scambiare per pazzi e dunque rinchiudere in un manicomio - una figura del mondo - ... dove, in cambio di una limitazione della loro libertà personale, potranno, imperterriti e indisturbati, continuare a elaborare le loro teorie. Questa loro consapevolezza e questa loro volontà, questa contrapposizione di valori tra il loro piccolo mondo e il mondo esterno, vengono sintetizzate da tre semplici battute in successione:

 

NEWTON -       Pazzi, ma saggi.

EINSTEIN -     Prigionieri, ma liberi.

MÖBIUS  -      Fisici, ma innocenti.

 

Tutto porta a credere che il loro espediente abbia avuto successo, che sia possibile fuggire nel labirinto, che sia possibile nascondervisi. I segni di un possibile rovesciamento sono però già ravvisabili in una battuta pronunciata, poco dopo, da Möbius: "Ciò che si è pensato una volta non può più essere annullato." e cioè, come si diceva, ciò che è stato creato non può essere distrutto, solo superato. Nel finale avviene, improvviso, il rovesciamento: i loro piani, la loro fuga, tutto era stato illusorio... erano stati ingannati da una volontà più potente e complessa, da un meccanismo di cui mai avrebbero immaginato le articolazioni. Per usare le parole di Dürrenmatt, il mondo appare come un labirinto, "un luogo perfettamente organizzato, ma così complesso che la sua organizzazione è indecifrabile."

 

            Oltre, però, a ciò che i protagonisti dicono, sono estremamente significativi i loro referenti reali e, in tema di labirinti, uno in particolare: Möbius, il matematico tedesco August Ferdinand Möbius che nella prima metà del XIX secolo elaborò, in termini matematici, una figura che per tanti aspetti potrebbe essere considerata come una moderna variante del labirinto, solo più perversa. La figura è conosciuta come "nastro di Möbius": un nastro unito alle due estremità dopo aver procurato una mezza torsione, si da ottenere un anello senza fine in cui interno ed esterno diventano affatto indistinguibili, una superficie, cioè, situata oltre il piano proiettivo reale, una figura non orientabile in cui si verifica il dissolversi dell'opposizione interno-esterno. Chi percorra idealmente una simile superficie ben presto, come in un labirinto, si trova completamente disorientato e ogni sua convinzione immediatamente rovesciata. Come in un labirinto si è detto, o come in un mondo di cui si cerchi con ostinazione di cogliere la cifra usando sempre e solo la stessa chiave di lettura, un mondo "così complesso che la sua organizzazione è indecifrabile". E' bene essere consapevoli, però, che la complessità del mondo, ciò che lo rende indecifrabile, è assimilabile a quello scarto che sempre renderà impossibile ad Achille di raggiungere la tartaruga. Lo scarto è introdotto da quello a cui accenna il Möbius de I fisici: "Ciò che si è pensato una volta non può più essere annullato". E' l'uomo stesso con il suo indefesso tentativo di far rientrare tutto all'interno della sua ragione, delle sue categorie, delle sue maschili separazioni, a produrre galassie di residui ognuno dei quali è un ulteriore punto di svolta che condurrà alla produzione di altre galassie, di altri infiniti labirinti percorsi da uomini pervicaci come le formiche sul nastro di Möbius della xilografia di Escher. Möbius può allora essere visto come artefice del tipo più terribile di labirinto, il labirinto senza speranza, il labirinto senza centro, il labirinto in cui non si sa come si è entrati ma da cui non si potrà uscire se non durante momentanee, fugaci, illusioni. Il labirinto che forse più di tutti caratterizza la condizione dell'uomo moderno.

 

            Quando si è all'interno di simili labirinti, che permettono - ma in effetti impongono - un peregrinare indefinito, infinito, senza svolte, senza bivi di fronte ai quali arrestarsi, bensì solo lievi inclinazioni e dolci curve, quando si è in un simile labirinto una sensazione di libertà colpisce i più deboli, colpisce i più. Ciò avviene non quando la libertà è negata ma quando non se ne lascia neppure intravedere la possibilità. Nell'apparente mancanza di restrizioni esterne il sé ulteriormente si disgrega e si attenua, fino a sparire completamente, la volontà di raggiungere quella caverna in cui dare inizio alla reintegrazione. Sempre meno il maschile avverte la necessità dell'unione con il femminile e il femminile stesso si mascolinizza, lotta e ottiene successi usando le armi del suo complementare, dà l'impressione di recuperare ciò di cui ha subito privazione, quando invece non fa che segnare le vittorie del Signore del Labirinto Senza Fine e Senza Centro.

 

            Condizione tipica dell'uomo moderno, condizione di cui si può cogliere una testimonianza emblematica nella tragedia Pentesilea di Heinrich von Kleist allorché la protagonista, l'amazzone Pentesilea, si batte a duello con Achille, l'uomo che ama, e trafittolo al collo con un dardo gli si slancia addosso azzannandolo a una mammella:

 

                        Voltolandosi, Achille, nella effusa

                        porpora del suo sangue, ecco le sfiora

                        la gota e grida: "Ahimè! Che fai? Che fai?

                        Pentesilea, dolce mia donna, Achille,

                        Achille io sono! E' questa, o amore, dimmi!,

                        la festa delle rose?". Una famelica

                        leonessa ruggente (che per i piani

                        bianchi di neve in caccia errando, cerchi

                        preda per satollarsi) allo straziante

                        grido dell'infelice, avrebbe, certo,

                        contenute le sue brame. Ma la belva

                        ecco, dal corpo sanguinoso, via

                        scinge strappa la fulgida armatura,

                        denuda il petto, e nelle bianche carni,

                        cui la cagne, ringhiando, ecco, s'avventano

                        per azzannarle a gara - anch'ella a gara

                        con Dirce e Oxo, a fondo i denti infigge.

                        Labbra intrise di sangue e rosse mani,

                        ella m'apparve ...

                        H. von Kleist Pentesilea sc. XXIII

 

Ecco un Achille, quasi femmineo, trafitto a morte e mutilato a una mammella da un'amazzone, la quale non più avvertendo la necessità del complementare conta solo sulla sua capacità di sopraffazione, con il fine ultimo di eliminare ogni differenza: l'Achille mutilato come grottesco analogo di un'Amazzone.

 

            La sensibilità di Kleist lo aveva probabilmente reso consapevole che l'umanità era entrata in un terribile labirinto, un labirinto senza centro, e con Pentesilea ne traccia le conseguenze ultime. Due decenni dopo la stesura di Pentesilea l'intuizione di Möbius darà vita all'esplicitazione matematica di una delle forme archetipiche di un simile labirinto.

 

            Il vero orrore, allora, non è quello della prova del labirinto, dell'essere confrontati a ripetute scelte, l'una più drammatica dell'altra, non è superare i guardiani e rimanere incerti, fino all'ultimo istante, sull'esito... se se ne potrà uscire oppure no. Il vero orrore è tutto l'opposto: è la mancanza di scelte possibili, di prove, è l'indifferenziato, l'uguale che risulta da una casuale mescolanza... sono le larghe curve e i lievi pendii, è il non sapere se si sia dentro oppure fuori. Riecheggiano le tremende considerazioni di Joseph Cartaphilus - o chi per esso - nell'Aleph di Borges:

 

            "All'impressione di enorme antichità altre si aggiunsero: quella dell'interminabile, quella dell'atroce, quella di una complessità insensata. Avevo percorso un labirinto, ma la nitida città degli Immortali mi impaurì e ripugnò. Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l'architettura mancava di ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sbocco, l'alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s'apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate e la balaustra all'ingiù. Altre aereamente aderenti al fianco d'un muro monumentale, morivano senza giungere ad alcun luogo, nelle tenebre superiori delle cupole. ... Quella fondazione fu l'ultimo simbolo cui accondiscesero gli Immortali; essa segna una tappa nella quale, giudicando vana ogni impresa, essi stabilirono di vivere nel pensiero, nella pura speculazione." J.L. Borges L'aleph "L'immortale"

 

            Queste parole evidenziano, come meglio non si potrebbe, una prima, imprescindibile, necessità... quella di sapere, di avere una pur lontana intuizione dell'esistenza di un centro. Entrando in un labirinto non si sa se questi possegga o meno un centro: non se ne possiede la mappa, né, se la si possedesse, ciò sarebbe di qualche vantaggio. Solo si possono vedere due segmenti più o meno lunghi di strada, davanti e dietro. Camminando in un labirinto, camminando  in un mondo, ci si può rendere talora conto che, almeno in parte, l'artefice del labirinto è proprio colui che lo percorre. Quando tale consapevolezza si manifesta è allora più facile capire che l'esistenza stessa di un centro parzialmente dipende dalle proprie attitudini e disposizioni. Pur importante, questa comprensione è però insufficiente: occorre arrivare a "sentire" che, da qualche parte, un centro esiste, un centro "chiama", seppure con distorsioni e ambigui echeggiamenti, un centro attrae e respinge al tempo stesso. Chiaramente insufficienti i sensi ordinari e, forse ancor di più, un pensiero che ritaglia e giustappone. L'udito deve affinarsi e tornare a percepire armoniche da lungo tempo inascoltate. Ciò non è possibile, però, se le armoniche non possono espandersi negli opportuni spazi. Un meandro, un labirinto - lo si sa - può, a seconda della sua conformazione, modulare i suoni nei modi più diversi: smorzarli o amplificarli, del tutto o solo in certe sue componenti. Chi percorre un labirinto, se vuole che nascoste armoniche possano porgergli un suggerimento, dovrà allora ripristinare gli opportuni spazi, rimuovere millenari detriti, dovrà riscoprire silenzi in cui anche l'eco più lontana imponga la sua presenza e aiuti a contrastare il labirintico disorientamento. E' solo nel silenzio che queste eco possono suggerire l'esistenza di una camera centrale. E' solo nel silenzio che la camera centrale può manifestare la sua forma, prima solo potenziale.

 

            I labirinti non sono silenziosi: lo scalpiccio del singolo visitatore si fraziona, si moltiplica, si sovrappone a se stesso fino a riprodurre il passaggio di un lungo corteo, ora all'inseguimento, ora in fuga; un refolo, infiltratosi attraverso chissà quale crepa, assume i connotati ora di tenebroso strumento a fiato, ora di voci che chiamano da lontano; i rumori di assestamento delle volte si inseguono con irregolarità e, per l'asincronia che subito si genera col ritmo del respiro, si ingigantiscono... e terrorizzano. Né vale turarsi le orecchie con la cera, né cercare pause nel vino meloso, né in quello puro: il silenzio non è assenza di suoni o loro ottundimento. Il silenzio è rimozione di sedimenti, è uno dei risultati della rimozione di sedimenti. Chiara perciò la sua connessione con quello svelamento che consente di cogliere ciò che veramente conta, ciò che è. Operazioni apparentemente incomprensibili, aliene, ma che, pur in ambiti diversi, ben conoscono tutti coloro che si sono avvicinati all'essenza del loro operare. Un chitarrista, John Scofield, interrogato a proposito del suo fraseggio, ricchissimo di "note non suonate", risponde: "... il mio stile si è indirizzato verso questo desiderio di suonare il meno possibile, ma ottenendo il miglior risultato. Non c'è bisogno di suonare tutte le note di un tema, basta suonare quelle giuste: le altre si intuiscono, sono comunque nell'aria e si percepiscono con altri sensi che non sono l'udito." Certo, la comprensione di quando certe note possono non essere suonate, o addirittura di quando non debbano esser suonate, non è immediata... molteplici tentativi saranno necessari, l'individuazione del centro - o meglio, l'intuizione della sua esistenza e della sua approssimativa ubicazione - avverrà dopo prove e fallimenti. Comprensibile, d'altronde, che i sedimenti non vengano eliminati d'un colpo solo: troppo importante il compito, troppo elevato il rischio di abbattere pilastri che reggono irrinunciabili chiavi di volta. Ecco che le parole di un filosofo di transizione tradiscono le tracce di un'antica consapevolezza:

 

            "...arrivammo infine all'arte reale e stavamo esaminando se fosse questa a produrre la beatitudine ì . Ma allora, come se fossimo caduti in un labirinto, nel momento in cui pensavamo già di toccare la fine, noi ci ritrovammo, per così dire, dopo aver fatto il giro, all'inizio della nostra ricerca e progrediti poco più di quanto lo fossimo all'inizio." Platone Eutidemo 291b

 

            Un lavoro lungo, da condurre, soprattutto nelle fasi iniziali, con un regime moderato di fuoco, una retorta distillatio in cui a ogni ciclo viene separata una parte di sedimenti. Operare col pellicano e aggirarsi nel labirinto rivelano quindi la loro fondamentale identità funzionale. Operazioni preliminari ma necessaria, in grado di pregiudicare tutte le fasi successive del lavoro. Operazioni sotto il segno del solve, che preludono alla congiunzione tra malkuth e yesod e, grazie a ciò, al riversarsi degli influssi di tipheret. Dopo molti giri, dopo molti cicli, ci si ritrova, come il Socrate dell'Eutidemo, quasi  al punto di inizio, ma guai se i primi cambiamenti non avvenissero per gradi quasi impercettibili: la fine sarebbe quella di Icaro, che troppo confidò negli artificiosi mezzi di salita. Solo dopo che un lento solve ha operato su sedimenti, indurimenti, incrostazioni, può risuonare, irradiandosi da un punto misterioso, un maestoso accordo di armoniche che si riverberano per tutti i corridoi del labirinto, trasformandolo.      Operazioni che, pur sotto il segno del solve, a ogni passo, a ogni passo danno il loro contributo al coagula finale, a ogni passo ridanno motilità a corde da tempo rese mute. Della loro esistenza ne deve pur essere rimasto un lontano, confuso e distorto ricordo, se ancora vitali sono i miti di una primordiale beatitudine e se, un po' in tutte le culture, si è voluto identificare la causa del doloroso cambiamento. Si è forse intuito che, in tale cambiamento, il femminile fosse in qualche modo coinvolto, ma da vittima si è preferito trasformarlo in colpevole, arrivando poi a personificarlo nella donna. Ecco allora Esiodo, ormai dimentico degli antichi equilibri, ormai sordo al suono di tante armoniche, dire:

 

            "Fino ad allora viveva sulla terra, lontana dai mali, la stirpe mortale, senza la sfibrante fatica e senza il morbo crudele che trae gli uomini alla morte: rapidamente, infatti, invecchiano gli uomini nel dolore. Ma la donna, levando di sua mano il grande coperchio dell'orcio, disperse i mali preparando agli uomini affanni luttuosi." Esiodo Le opere e i giorni

 

            Non è andata così: i mali hanno semplicemente occupato quello spazio che l'essere umano interpose tra sé e la Terra, tra sé e la Madre. Attutita e talvolta annullata la forza del coagula, hanno prevalso dispersione e disunione... sempre più l'uomo si è allontanato dalla Terra e sempre meno il conoscere ha significato unione, essere-uno, essere e sempre più si è assimilato a un complesso rimando di riflesso tra specchietti ora concavi  e ora convessi. Significativamente Omero chiama gli uomini , termine che qualcuno (Burckhardt, in Joël K. Geschichte der antiken Philosophie v. I, Tübingen, 1921) vede legato a "divido" e alla radice ' - "vedere", venendo dunque a significare "che guardano le parti", "che tutto analizzano, distinguono, riducono a conoscenza razionale". Non meno significativamente, però, un'interpretazione opposta dà al termine il significato di "oscura stirpe", legandolo all'accadico ERêBU, ERêPU "tramontare, divenire nero" e all'accadico MER-, MAR'U "essere umano, membro di una comunità, discendente, figlio", avvicinando tale espressione a quella dell'antico babilonese dell'epica SALMAT QAQQADI "le teste nere" e cioè senza l'aureola divina (cfr. Semeraro II.1 p. 180-1). Perché oltre alle parti l'uomo riesca a rivedere l'intero, perché gradatamente aure di diversi colori tornino  a segnare i contorni delle sue figure, è necessario entrare e uscire dal labirinto, da tutti i labirinti che si sarà in grado di creare. E' un percorso che ritorna sempre su se stesso, curvo come la verità, circolare come l'ammaestramento dato dalla coscienza:

 

            "Che cosa dice la tua coscienza?  Devi divenire quello che tu sei." Nietzsche La gaia scienza    § 270

laburinqos

 

§          Il labirinto è una via che costituisce e conduce a un mistero non a un problema. Il mistero, però, non può essere risolto; opportunamente vissuto, può dissolversi... testimonianza di passaggio a diverso piano.

 

§          Una funzione del labirinto è quella di disorientare: necessaria preparazione per chiunque voglia, un giorno, avvicinarsi all'Oriente. Tale necessità consegue ai falsi orientamenti in cui ognuno, consapevolmente o no, vive.

 

§          Una funzione del labirinto è perciò quella di indurre il vuoto. Dire vuoto, però,  è  dire morte, e infatti profondissime sono le connessioni tra labirinto e morte, vuoi per il suo carattere ipogeico, vuoi per il destino a cui va incontro chi vi entra.

 

§            Attraverso il labirinto, alla morte e a una forma di liberazione. Quale che sia il risultato, è evidente che i meandri esercitano una duplice funzione, come osserva Guenon, e cioè quella di impedire al male di entrare nel sacro recinto e al bene di uscirne e disperdersi. I dolori, il male, che possono essere inflitti a chi penetra nel labirinto, non sono il segno del male, dell'avversità che lì alberga, bensì della compensazione, della nemesi, che senza scampo deve colpire affinché possa aprirsi un varco verso un diverso stato.

 

§          Non è certo un caso che il labirinto sia luogo - uno dei luoghi - della nemesi: il labirinto è una foresta sotterranea, un nemus, un luogo separato in cui avviene la divisione tra ciò che è proprio degli dèi e ciò che resta all'uomo. Chi non ha attribuito a una divinità quanto dovuto, con grande difficoltà entra nella foresta perché sa - a ragione - che lì ne subirà gli attacchi. Con difficoltà ancora più grande entrerà in una foresta sotterranea, irrazionalmente temendo più il dio adorno di collane di teschi che uno degli dei celesti. Sbaglia. Ma questo lo scoprirà solo all'ultima svolta, quando incontrerà una sorridente divinità olimpica pronta a scorticarlo.

 

§          Pur potendo concretizzarsi in una variegatissima tipologia - in effetti priva di limiti superiori - il labirinto ama esser visto in forme simmetriche. Cifra delle operazioni complementari che bisogna compiere per arrivare a una sintesi, l'andare ora a sinistra, ora a destra; cifra di una necessaria insistenza per mutare livello, il camminare sempre con lo stesso fianco rivolto verso il centro; cifra dell'alea in cui spesso si incorre durante un cammino, il dover scegliere di fronte a un bivio o a un trivio; cifra di precostituito tragitto in cui l'unica direzione alternativa è quella data dal tornare sui propri passi, il tracciato che, seppur con lentezza e fatica, inesorabilmente conduce al centro; cifra del cammino attraverso l'articolarsi di un mondo, cifra di un viaggio lungo le circonvoluzioni di un cervello... o quelle di una noce, il procedere nel labirinto gradatamente raccogliendo ciò che è sparso. In tutto  ciò la simmetria interviene ad attenuare quel senso del tremendo che puntualmente colpisce: nel simmetrico si vede quasi il segno di superiore volontà che tutto regola... il bianco e il nero, sinistra e destra, le due fasi della respirazione.

 

§          Il labirinto: la dilatazione dello spazio, quindi del tempo; la dilatazione del tempo, quindi dello spazio: Che sia costruito su due o tre dimensioni, il labirinto espande spazio e tempo fino, nei labirinti pluriviari, all'indefinito. Chi vi entra, sa che quello che deve raggiungere poco dista da lui, ma non sa se riuscirà a raggiungerlo. Il cammino nel labirinto è cammino di trasformazione. Chi di questo non ha necessità - perché già possiede quello che altri cercano o perché non qualificato a possedere certe cose - non entra nel labirinto, non si sottopone a lenta e penosa trasformazione: o è già trasformato o è intrasformabile.

 

§          Il labirinto viene per lo più immaginato come scandito da angoli retti, privo di curve, quasi che queste gli infondessero una debolezza che il labirinto non debba possedere. In realtà questi angoli, questi incroci così nettamente scanditi, non fanno che semplificare il procedere dell'uomo: ben peggio, ben più difficile inoltrarsi nella foresta, nella quale le vie che si aprono tra gli alberi si moltiplicano all'infinito... ogni scorcio appare ora diverso, ora uguale a luoghi da cui si è già passati, accrescendo così il senso di insicurezza che il rapido alternarsi di luce e oscurità infonde. Nella foresta, infinite le strade e la mente sospesa per  il diverso ritmo a cui viene indotta. Infinite, ma anche annichilenti, le vie di chi si trova in pieno deserto: qui non esiste neanche l'illusione di un ausilio... le tracce facilmente cancellate dal vento, il corso del sole talvolta troppo lungo per garantire la sopravvivenza. Se il labirinto è il luogo in cui il cammino può essere indefinitamente espanso, il deserto, con il suo vuoto, è il luogo del massimamente pieno.

Labirinto, foresta, deserto... luoghi in cui il procedere è sottoposto a peculiari difficoltà... luoghi che, se vi si entra e se si sa uscirne, dopo appaiono sotto un ben diverso aspetto anzi, a dire il vero, immediatamente spariscono.

 

§            L'inoltrarsi nel labirinto, per i suoi connotati ipogeici, è un viaggio nell'oscurità, è un viaggio verso il sempre più oscuro che può però avere esito del tutto opposto: raggiunto il centro è possibile a taluni individuare l'inizio della via sulla quale già si rifrange, tenero, il lucore aurorale. E' quanto avvenne a Dante, dopo aver attraversato i nove cerchi dell'Inferno e avere incontrato Lucifero. Raggiunto il punto più lontano dalla luce,

           

                                    lo duca e io per quel cammino ascoso

                                    intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

                                    e sanza cura aver d'alcun riposo,

                                    salimmo sù, el primo e io secondo,

                                    tanto ch'i' vidi de le cose belle

                                    che potra 'l ciel, per un pertugio tondo.

                                    E quindi uscimmo a riveder le stelle.

                                    [Inferno XXXIV, 133-39]

 

E' quanto avviene - perché escluderne la possibilità? - a chi percorre, nudi i piedi, labirinti come quelli che si trovano sul pavimento della cattedrale di Chartres: al centro Gerusalemme, al centro il proprio centro, al centro quel luogo contingente e immaginale al  tempo stesso... appoggiato su questa terra ma già appartenente ad altra dimensione. Può sembrare sciocco e assurdo che qualcuno, sotto gli occhi di tutti, compiendo le evoluzioni suggerite da un labirinto tracciato sul suolo abbia la possibilità di accedere a più sottile dimensione, di giungere alle porte della Gerusalemme celeste. Certo, per la mente razionale è sciocco e assurdo... meno, niente affatto sciocco e assurdo, invece, per quel pensiero che non si sforza ossessivamente di pensare se stesso e che quindi si può espandere fino ad avvicinarsi asintoticamente ai confini del mondo. Per questo pensiero, ogni passo, ogni curva, ogni perimetro percorso con un ben preciso fianco rivolto verso il centro significano un progressivo distacco, finché raggiunto il centro, luogo in cui tutto si rispecchia, luogo in cui tutto si concentra, vede infrangersi ogni confine fino ad abbracciare la circonferenza e tutto ciò che contiene, fino a divenire, come dice Angelus Silesius, "ein Stüpfchen und ein Kreis" (Il pellegrino cherubico I.5), fino a concepire, sempre con Silesius, che

 

                                    Ist mein Seel im Leib und gleich durch alle Glieder

                                    So sag ich rech und wohl, das Leib ist in ihr wieder

                                    (Se è nel corpo la mia anima, e in tutte le membra,

                                    Ben posso anche dire che il corpo è in lei)

                                    (ibid. I.150)

 

§          La funzione del labirinto è, si è detto, disorientare per condurre - talvolta, in certi casi - a Oriente. Nel suo ordine - perché il labirinto è pur sempre l'artificiosa opera di un demiurgo - il labirinto induce il disordine nel visitatore: i punti fermi vacillano, i punti cardinali si confondono, tutto si mescola, si entra nel mondo della mescolanza, in gr. mugnumi, della magia. E' questa la condizione per creare l'ordine: ordo ab chao.

Le evoluzioni che si compiono all'interno del labirinto portano dunque a una scomposizione, separano quello che l'antropogenesi e l'instaurarsi delle culture avevano riunito. Il caos, diversamente dalla concezione che più è stata imposta, si rivela quindi un necessario passaggio. Il timore che è stato sapientemente diffuso nei confronti del caos si deve appunto alla sua prerogativa di porre le condizioni indispensabili per il cambiamento radicale, per la trasformazione. Si è preferito allora assecondare la lenta degenerazione all'interno del divenire e osteggiare ogni forma di caos. Caos, assecondando una falsa etimologia, è legato a caw , "spalancare": è l'apertura che viene a prodursi nella rete anticamente intrecciata, è l'apertura che fa cadere tutto quello che c'è di più pesante e che fa riemergere quanto era stato coperto, è la bocca che si spalanca per lo stupore di fronte alla nuova creazione, all'uomo nuovo. Lo stupore in inglese è maze, amaze, e maze significa anche, e non a caso, "labirinto".

 

§          La scelta dei giovani che Atene inviava a Creta era, essenzialmente, dominata dal caso. Teseo entrò nel labirinto di propria  piena volontà. E' noto quanto diverso sia stato l'esito per gli uni e per l'altro. In ciò può essere colto un fondamentale suggerimento: una - certo non l'unica - delle condizioni per superare con successo la prova del labirinto è quella di entrarvi di propria volontà. Il trovarvisi dentro, invece, per caso o addirittura dopo esservi stati gettati a forza, è segno di sicura sventura, la stessa sventura che colpisce chi si aggira a caso per il mondo. Il labirinto, infatti, è una delle immagini più fedeli del mondo: il necessario peregrinare, le scelte obbligate, le vere e le false alternative, il lungo cammino per arrivare a località in effetti vicine e l'improvvisa apertura di nuova prospettiva al compiersi di un solo passo. Immagine del mondo e delle forze che lo reggono: il semplice lasciarsi andare comporta, nel migliore dei casi, una permanenza nel labirinto lunga come una vita e con un unico passaggio ad altra dimensione che coincide con quello della morte fisica. E' la soluzione preferita dai deboli e dagli schiavi ed è giusto che sia così... che nessuno si levi a dare consigli, che nessuno perda tempo prezioso, che nessuno getti perle ai porci! Chi  è spinto dalla volontà, Teseo, entra nel labirinto armato di spada, porta in altri termini la luce nell'oscurità, fa fiammeggiare la folgore, il vajra. Se si considera l'identità del Minotauro, il fatto che sia figlio di Pasifae "colei che tutto illumina", figlia di Perseide e dunque in chiara relazione con la Luna, e che l'altro suo genitore sia il Toro, di natura celeste e successivamente messo in relazione con Zeus e con Poseidone, e se si considera quale sia la residenza del Minotauro e il luogo in cui viene ucciso, se ne evince che l'unico elemento di cui vi è immediata e assoluta necessità è il fuoco e cioè la spada, il filo, ciò che consente a Teseo di riportare la vittoria. In modo non diverso, altri in una caverna incontrano il  drago.

 

§          Non a caso è il vajra che pone nelle condizioni più adeguate per superare con successo l'esperienza del labirinto: nell'oscurità vi è necessità della luce, il femminile ha necessità del maschile, e viceversa.

 

§          Una caratteristica del labirinto forse non è mai stata adeguatamente presa in considerazione: la voce di chi si trova al suo interno può, a seconda dei casi, o essere amplificata, condotta a una distanza maggiore di quanto normalmente possa avvenire, o essere smorzata, fino alla sua completa soppressione. In altri termini, i labirinti possono svolgere la funzione del labirinto auricolare o quello di una camera anecoica: convogliare i suoni più lontano e con più precisione di quanto avviene in spazio aperto oppure, facendoli rifrangere all'infinito nei suoi angoli come uccelli in preda al terrore e privandoli a ogni colpo di un po' della loro forza, eliminarli con la spietatezza che il Minotauro usava con le sue vittime. Non esistono alternative, o la parola raggiunge il centro e consente, provoca, la trasformazione o viene in poco tempo annichilita e, con essa, chi l'ha pronunciata. Nel labirinto del mondo ben poche sono le parole che sanno raggiungere il centro, ben pochi sono coloro che sanno formulare tali parole. Certo, da sempre si è cercato di non perdere questa forza trasformatrice tutelando lingue sacre, testi sacri, formule e nomi; con ben maggiore difficoltà si è potuto - se si è potuto - garantire la continuità di chi, con intatta efficacia, ancora se ne sappia servire. La parola che penetra vittoriosa nel labirinto si è forse inselvatichita,  rientrata nella foresta, o meglio le parole che ancora godono di una qualche efficacia sono probabilmente le parole che sgorgano da quelle fonti che il pensiero razionale non è ancora riuscito a contenere, da quelle fonti nascoste nei più intimi recessi della foresta, là dove sentieri non sono ancora stati tracciati, dove certe divisioni non sono ancora state imposte: le parole dell'amore, le parole della poesia, le parole della magia...

 

 

 

 



[i][i]* "L'acqua ci soccorre d'estate e d'inverno, nella buona salute e nella malattia, di giorno e di notte, è non v'è occasione in cui noi non abbiamo bisogno di essa. E' per tale ragione che i morti vengono chiamati ALIBANTES , un'espressione che mostra come questi ultimi non posseggano più alcun umore e perciò siano privi di vita." (pseudo) - Plutarco  Se sia più utile l'acqua o il fuoco 2, cit. in Bachofen I.149

[ii]** Carlo Gallavotti "Labyrinthos" La parola del passato 1957, LIV, p. 161- 176.

[iii]* Già entrano nei boschi di Trivia e nel tempio dorato.

...

Sui battenti la morte di Androgeo ...

qui il famoso travaglio della casa e l'inestricabile errore:

Dedalo poi, pietoso del grande amore della figlia del re,

scioglie gli inganni e gli avvolgimenti del palazzo guidando

i ciechi passi con un filo.

[iv]*[iv] Se ami e desideri tanto di navigare due volte

sulla palude stigia, vedere due volte il nero Tartaro,

e ti piace impegnarti in una immane fatica,

ascolta che cosa devi compiere prima. Si cela in un albero ombroso

un ramo d'oro nelle foglie e nel flessibile vimine,

consacrato a Giunone inferna, tutto il bosco

lo copre, e lo racchiudono ombre in oscure convalli.

Ma non si può discendere nei segreti della terra, prima

di avere staccato dall'albero il virgulto dalle fronde d'oro.

La bella Proserpina stabilì che si recasse tal dono

proprio per lei: Spiccato il primo, ne spunta

un altro d'oro, e frondeggia una verga di uguale metallo.

Dunque esplora profondamente con gli occhi, e trovatolo, strappalo

con la mano seguendo il rito; ti seguirà da solo,

docile e agevole, se i fati ti chiamano; altrimenti

con nessuna forza potrai vincerlo, o staccarlo col duro ferro.

[v] O come dice Rabbi Moïse Hayyim Luzzatto: "...la ragione non deve porre domande che non su quello che è alla sua portata" Mocher Ou Meqoubal "Il filosofo e il cabalista" pt. I

[vi] Con queste parole Sanguineti echeggia fedelmente un luogo comune particolarmente in auge tra i copisti medievali.

[vii] Malachia "mio messaggero"

[viii] Per rendere l'errore la frase è stata tradotta in italiano in questi modi: "Manna morente", "Mamma gratissima", "Un'altra 'nother da another morente".

[ix] Viandante, son le tue orme

la via, e nulla più;

viandante, non c'è via,

la via si fa con l'andare.

...

Viandante, non c'è via

ma scie nel mare.


 

Main Index Page | Alphabetical Index | What is New | Papers of Eminent Masonic Scholars | Indice Saggi in Italiano
Index des Essais en Langue Française | Índices Monografias em Português | Índice de Planchas Masonicas en Español

visitor/s currently on the page.