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rebis
Alessandro E.M. Pisani

SCRITTI ALCHEMICI E CURIOSI

Alchimia
Voce di un’immaginaria enciclopedia
che traligni in direzione della cabala
rebis
PHANTASIA & CURIOSITAS
NOTE INTRODUTTIVE ALLA RICERCA ALCHEMICA
ALCHIMIA
L' UOVO E LA GALLINA.....DEI FILOSOFI, NATURALMENTE!
LABIRINTO - L'IDENTITA' DI DEDALO
IL LIBRO NELL' ALAMBICCO
L' ALAMBICCO NEL LIBRO
LA FRITTATA ALCHEMICA
Repertorio alchemico, cabalistico, magico e “curioso” Repertorio.pdf.zip 2.230 Kb


Alchimia : “dal latino medievale (sec. 12°),  e questo dall’arabo (san’a) al-kîmiyâ’ che a sua volta deriva, attraverso il siriaco kîmiyâ, dal greco tardo khumeia (o khêmeia)” [Vocabolario della lingua Italiana Treccani]

            “La voce khemeia collegata col nome proprio dell’Egitto, Khemia, trascrizione dell’egizio kmt, copto KHMI designante il paese nero, egizio kmm “essere nero”, alle origini certo è la base semitica col significato di “ardere” : accadico qamû (qamû, qmî : ardere, bruciare, detto del salnitro) ; qummu “ardere” ; cfr. ebraico kâvâ “essere arso”, k°vijja “ustione ; cfr. greco kaiô “ardo””[G. Semerano 1994 v. II, t. I, p. 321]

 

            In ebraico l’alchimia ha preso il nome di chokhmat ha-tzeruf[1] : letteralmente “scienza della trasformazione”. Lo stesso verbo TS-R-PH  denota l’attività di trasposizione delle lettere (permutazione gematriaca) grazie alla quale una parola può andare incontro a innumerevoli metamorfosi. Applicando il calcolo gematriaco al termine stesso di TS-R-PH si ottiene un valore pari a 370, valore identico a quello del verbo SH-L-M che significa “essere compiuto, terminato” e “vivere in pace, avere pace”. A questa stessa forma è legato il nome di Salomone, il re di Israele la cui figura è connessa da significativi legami alla pratica alchemica. Viene tramandato, infatti, che egli usò il verme Shamir allo scopo di tagliare le pietre da utilizzare per la costruzione del primo tempio. La tradizione vuole anche che egli abbia ricevuto la pietra filosofale dalla regina di Saba. Ancor più significativo, però, è che al suo nome sia associato il nome di quel sigillo che sarà poi meglio conosciuto come maggen David o, in Occidente, “Stella di David”. Questa stella a sei punte  è formata dalla sovrapposizione di un triangolo equilatero rovesciato su un altro, sintetizzando così nella figura ottenuta i simboli dei quattro elementi : il triangolo con la punta rivolta verso l’alto che rappresenta il fuoco D , quello con la punta verso il basso l’acqua  Ñ, quello del fuoco troncato dalla base di quello dell’acqua che rappresenta l’aria, mentre quello dell’acqua troncato dalla base di quello del fuoco che rappresenta la terra. Come ricorda il  Dictionnaire des Symboles di Chevalier e Gheerbrant (t. IV, p. 160)

 

magen_david

“Se si considerano le quattro punte laterali della stella, alle quali si associano le quattro proprietà fondamentali della materia [da sinistra in alto, in senso orario, rispettivamente : caldo, secco, freddo, umido ; nda]  si può vedere la manifestazione delle corrispondenze tra i quattro elementi  e le proprietà opposte a due a due. Il fuoco combina il caldo e il secco, l’acqua l’umido e il freddo, la terra il freddo e il secco, l’aria l’umido e il caldo. La variazione di queste combinazioni produce la varietà degli esseri materiali. Il sigillo di Salomone appare allora come la sintesi degli opposti e  l’espressione dell’unità cosmica”.

 

Nel sigillo di Salomone si rappresenterebbe allora la finalità ultima della ricerca alchemica[2], quella che Paracelso (Aureolus Philippus Theophrastus Bombastus von Hohenheim) nel suo commento alla cosiddetta Rivelazione di Ermete definisce “la perfetta equazione degli elementi”. E’ opportuno ricordare, inoltre, che la tradizione ermetica associa a ognuno dei sei vertici (dall’alto in senso orario) i metalli di base e i pianeti corrispettivi (argento-Luna, rame-Venere, mercurio-Mercurio, piombo-Saturno, stagno-Giove, ferro-Marte) riservando a oro-Sole l’esagono centrale. In questa rappresentazione simbolica si può anche individuare l’espressione di quelle leggi naturali che fanno sì che la forma esagonale sia di gran lunga la preferita quando forze diverse cerchino un equilibrio, una simmetria e dunque un’equa ripartizione del piano o dello spazio :

 

“le simmetrie quadrate ed esagonali si impongono giacché i soli poligoni regolari che possono ‘riempire’ il piano (senza interstizi) sono il quadrato, il triangolo equilatero e l’esagono [...] Due poliedri semiregolari permettono pure la equa ripartizione dello spazio : sono il prisma regolare esagonale e il semipoliedro (archimedeo) di lord Kelvin (8 facce esagonali, 6 facce quadrate, 24 vertici, 36 raggi uguali).” [Ghyka 1959: 36, nota 2].

 

Seguendo questa interpretazione, si può dire allora che il sole-oro alchemico rappresenta quello stato della materia in cui giungono a perfetto equilibrio le diverse e discordanti forze associate a ognuno degli altri metalli, così come l’esagono centrale del sigillo di Salomone è l’unico “luogo” in cui possono unirsi e fondersi i sei vertici, l’unico “luogo” in cui, a completamento dell’Opera, è possibile ripristinare l’equilibrio dell’Inizio. Del tutto opportunamente in questo esagono centrale viene talvolta inserito il Tetragramma, il nome dell’Uno che creò la sostanza basilare, essenziale, dalla quale per via di diversi e molteplici livelli di degradazione si pervenne al molteplice, il quale a sua volta grazie alle pratiche della chokhmat ha-tzeruf potrà essere ricondotto alla perfetta unità originaria[3].        

 

            Questo, per quanto concerne l’equivalenza del valore gematriaco di TS-R-PH e SH-L-M, equivalenza che, lo si ricorda ancora, focalizza l’attenzione sul concetto di condurre a termine un lavoro, sul suo perfezionamento, sulla riconduzione del molteplice all’unità e dunque alla pace (ben rappresentata dall’esagono che sintetizza e tiene in equilibrio le sei punte del sigillo di Salomone).

            E’ interessante verificare, a questo punto, se l’applicazione della chokhmat ha-tzeruf allo tzeruf stesso faccia scaturire qualche ulteriore suggerimento, se cioè operando delle permutazioni gematriache sul termine tzeruf sia possibile individuare in esso informazioni di cui si preferisce forse evitare l’immediata ostensione.

            Grazie alla permutazione ashbar (prima lettera con la penultima, seconda con la terzultima, ecc.) si ottiene la parola D-B-H “maldicenza, calunnia”. Si potrebbe trattare di un  monito all’adepto di guardarsi dalle conseguenze dell’ambigua fama correlata alla sua Arte. Considerando però il verbo da cui questa parola deriva (D-B-B “insinuarsi, penetrare”), si può anche pensare a un suggerimento circa la prima fase dell’opus alchemicum, il solve che necessariamente prelude al coagula.

            Con la permutazione agbad (prima lettera con la terza, seconda con la quarta...) TS-R-PH si trasforma in R-T-Q che significa “legare, incatenare”. Chiara è l’allusione alla fase del coagula.

            La permutazione successiva, adbah (prima lettera con la quarta, seconda con la quinta...) genera SH-‘-R “lievito”, figura simbolica della “pietra dei filosofi” che “proiettata” su qualunque elemento, fosse anche il più vile, lo trasforma in oro. Dom Pernety  nel suo Dizionario mito-ermetico ricorda che

 

“i Filosofi hanno usato questo termine in due sensi differenti. Il primo, meno usato, è il senso proprio del lievito che fa fermentare e questo avviene quando paragonano la loro opera ai metalli ; infatti come il lievito inacidisce la pasta e la trasforma nella sua natura, allo stesso modo la polvere di proiezione, che è un vero oro, fa fermentare i metalli imperfetti e li cambia in oro. Il secondo significato del termine lievito, secondo  Zacharie va riferito al vero corpo e alla vera materia dell’Opera.” [t. II, p. 137]

 

            Operando la permutazione azbach (prima lettera con la settima, seconda con l’ottava...) da TS-R-PH si ottiene B-D-H  che significa “fingere, inventare”, utile consiglio all’adepto di dissimulare la reale natura del suo operato.

            Fin qui le permutazioni del termine hanno dato indicazioni di tipo operativo, con la permutazione a’baf (prima lettera con la sedicesima, seconda con la diciassettesima...) si ottiene invece la forma K-M-I, inesistente in ebraico ma che, opportunamente vocalizzata, può essere letta KEMI, nome della terra in cui avrebbe avuto i suoi inizi la pratica alchemica. Uno di quei tanti “casi” in cui non è difficile imbattersi quando ci si addentra nei territori dell’esoterismo[4]. I “casi”, però, possono appartenere a categorie diverse. Lo dimostra l’apparente egittomania di antichi popoli della Cina meridionale : qui la preparazione di pozioni, che avrebbero dovuto garantire il benessere o addirittura l’immortalità, veniva denominata Kim-Iya dal significato di “Oro-Succo vegetale”. Questa sorprendente omonimia che echeggiava da migliaia di chilometri  a Oriente non era dovuta al fascino esercitato dalla “nera” terra d’Egitto, bensì il contrario, o quasi. Sembra infatti che mercanti arabi preislamici lo trasportarono dalla Cina ad Alessandria : il termine venne traslitterato come chemeia, ma in realtà pronunciato “kimiya”[5] e in seguito sostituito dal termine greco khumeia, foneticamente molto simile e semanticamente più trasparente.

 

            In questo complesso gioco di echi e di rimandi, che si tratti del cinese “succo d’oro”, del nostro aurum potabile o dell’indiano rasa yana[6] , la finalità ultima, più elevata, è identica : l’ottenimento di quello tzeruf, di quella trasformazione che possa ricondurre dal molteplice all’Uno o, se si preferisce, dal pentacolo al sigillo di Salomone, il primo caratterizzato dal movimento che è generato dal pentagono, il secondo dal perfetto equilibrio dell’esagono.



[1] Il poeta Moshé Rieti, XV sec.,  la denomina invece chokmat ha-tzerifa.

[2] Per una rappresentazione iconografica sintetica e suggestiva del valore del sigillo di Salomone si veda l’incisione raffigurante la “nascita dei metalli” posta in apertura del Museum hermeticum Reformatum et Amplificatum.

[3] E’ opportuno ricordare che il sigillo di Salomone  deve essere anche visto come il simbolo della creazione in sei giorni. L’esagono centrale indicherebbe allora il settimo giorno, quello del riposo, della stabilità, del perfetto equilibrio.

[4] Può essere interessante, a questo proposito, ricordare il riconoscimento di un’equivalenza tra cabala e alchimia che Johannes Reuchlin fa esporre a Simone Giudeo in apertura del De arte cabalistica : “Ciò che è più nobile s’innalza ribollendo in spirito se sublimato dalla procedura alchemica, sì che appaiono più puri gli elementi che tendono iù in alto. Così, le cose piùbasse sono dette anche meschine e squallide e le giudichiamo di infimo valore, mentre ammiriamo le cose sublimi nel loro splendido candore [...] Tanto più allora, secondo il consenso unanime, noi siamo ammirati quando la sollecita natura ispira alle cose inanimate, ai vegetali, agli animali, un istinto tale da spronarle verso l’alto. Davvero non sembra che essa abbia trascurato l’uomo, il dominatore di tutte le creature [...]  In particolare, essa gli ha donato un istinto che lo fa tendere con ogni forza verso il sommo bene, con un desiderio sconfinato. [...] Questo è ciò che poco sopra abbiamo chiamato deificazoine. Partendo da un oggetto presente, un senso esterno si trasforma, attraverso un suo intermediario, in una sensazione interna e questa a sua volta in immaginazione, e l’immaginazione in valutazione, e la valutazione in ragione, e la ragione in intelletto e l’intelletto nella mente, e la mente in luce che illumina l’uomo e, illuminandolo, lo rapisce a sé. Così sembra corretto porre Tiferet, mikrokosmon, secondo l’opinione dei Cabbalisti, al centro dell’albero delle dieci sefirot (numerationes). Quel grande Adamo è come l’albero della vita in mezzo al paradiso ideale o, come usano dire, la linea retta mediana. Infatti Dio fece l’uomo retto, secondo il regale Ecclesiaste [Qoh. 7.29], in grado di piegarsi tanto verso le realtà superiori quanto verso quelle inferiori :” Johannes Reuchlin De Arte cabalistica, a cura di Giulio Busi e Saverio Campanini, Firenze, Opus Libri, 1995, p.12-13.

[5] Cfr. Mahdihassan 1961 p. 96.

[6] Letteralmente, “dimora del succo”, “succo interiore”, termine sanscrito usato per designare prima la pozione poi l’attività svolta per produrla.


 

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