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DE VERBO MIRIFICO - Parte Seconda

Sulle implicazioni della pronuncia tripartita del Nome del grande Architetto dell’Universo
di Bruno d'Ausser Berrau
 


  YHWH.jpg - 29437 Bytes Nella conclusione della Prima Parte del mio DE VERBO MIRIFICO -  Considerazioni intorno alla parola di Maestro ed al Nome del grande Architetto dell’Universo  è apparsa, in maniera in un certo modo imprevista, la composita costituzione del Tetragramma, rivelando, nell’ordine dei componenti, la successione degli apporti determinanti il formarsi della tradizione ebraica storicamente nota. Quindi YHWH - che abbiamo visto pronunciarsi Jehowa [1] - rivela, per la testimonianza del Royal Arch, la trama tripartita Je-ho-wa, i cui riferimenti ho già messo sommariamente in evidenza.

Questo risultato che, agli occhi timorosi di alcuni, può apparire quasi dissacrante, svela invece la complessità dei processi tradizionali e – nel contesto della scienza sacra – la loro profonda congruenza con quell’insieme di relazioni, le quali, nello svolgersi del ciclo di quest’umanità, hanno legato tra loro epoche e civiltà apparse spesso lontane ed inconciliabili.

 

È in questa prospettiva che cercherò adesso di dare un quadro cronologico e storico[2]significante; tengo però a precisare – proprio perché partiti dalle motivazioni all’origine della tripartizione del Nome - la mia distanza dalla teoria degli imprestiti. Teoria, per la quale, questi apporti appaiono il risultato di una mera sovrapposizione ossia di un collage sincretico, conseguente ad una decadente e pressoché sempre anacronistica (viste le epoche prese in considerazione) inclination to an exotic style e perciò stesso priva di spessore quanto di una reale possibilità di fruizione spirituale. Sono, infatti, del parere che sempre, elementi della più diversa provenienza, quali possono apparire le adduzioni in questione, siano – come tutte le operazioni realmente determinanti e durature – l’esito di precise e consapevoli intese avvenute tra i rappresentati le forme tradizionali implicate.  Tal genere di accordi, aventi lo scopo provvidenziale, sia di far transitare sotto altra forma un corpus dottrinale altrimenti in estinzione, sia di conservare proprio la specifica Gestalt di una qualche scienza o concezione, danno luogo ad esiti di diversa ma spesso ingannevole, successiva leggibilità.

 

Ad esempio; un fenomeno, dalle apparenze prevalentemente rinascimentali, quale la cabala cristiana mi appare, a prima vista, di una trasparenza e possibilità di ricostruzione anche documentaria assai agevole: Ficino, Pico, Reuchlin vengono subito alla mente. Poi, se rifletto sulle origini cristiane che, nel primo, riservato ambiente giudeo-cristiano, avevano tutte le caratteristiche di un raggruppamento esoterico interno alla società ebraica (vd. infra p. 26) e, a riprova, tengo conto dell’evidente matrice cabalistica[3]di tanti passi evangelici, paolini e dei Padri, sino alle, proprio in questo lavoro constatate, influenze, presenti in ciò che sopravvive dei riti dei costruttori medievali,[4]divento consapevole di quanto le cose non siano, in effetti, così semplici come, a prima vista, c’appaiono. Altrettanto, ed a volte ancor più difficile, è individuare l’eredità classica o druidica sottesa al cristianesimo ed ancor differente ma parimenti oscuro è il percorso della filiazione ermetica. Fenomeno analogo - ma nel quale l’aspetto sommerso e spesso indecifrabile è del tutto prevalente, trovando rifugio al più modesto livello sociale - è quello del folklore, dove, dietro la veste vernacolare, possono celarsi nozioni appartenenti a scienze scomparse ma anche elementi di cosmologia e simboli di essenza puramente metafisica: in questo caso, è come se al popolo fosse stato affidato un lascito che – facendosi strumento protettivo di una trasmissione prevalentemente non cosciente del valore dei contenuti - abbia attraversato il tempo quale messaggio di naufraghi, lasciando a chi, dei posteri, fosse stato in grado d’intendere, l’onere e la ricompensa di ricevere qualcosa d’altrimenti perduto.

Non è quindi, quella che segue, una deminutio sui dell’eredità abraminica bensì un tentativo di dimostrarne la complessità e l’importanza per la fase ciclica cui apparteniamo.

 

Per attuare questa collocazione è necessario che io dia, pur se per sommi capi, alcune nozioni della dottrina dei cicli, la quale ha la sua massima espressione nell’Induismo e, ad esso, mi rapporterò con frequenza. Debbo inoltre fare presente che, il nostro modo di pensare, dopo la fenomenologia di Hegel, ci fa opporre storia a natura, poiché vediamo la prima inserita nel divenire della scienza e del sapere. Nel pensiero tradizionale invece, il concetto di physis è molto più ampio: comprende ogni aspetto del manifestato, annullando così la cesura tra i due flussi; con la conseguenza che, storia e geografia, si trovano ad essere rette dalle stesse leggi. È quanto, con un parziale recupero di alcuni antichi frammenti concettuali, cerca di fare la moderna ma proprio perciò discussa geopolitica.

 

Limitandomi al Manvantara, che è il ciclo di una umanità,[5]mi sembra importante sottolineare che esso è sottoposto a due principali scansioni: la prima, ne comporta la divisione in quattro parti diseguali – gli yugas,   dove la durata d’ogni yuga va raccorciandosi mano a mano che si procede nel tempo.[6]L’altra invece, lo seziona in cinque parti eguali, ognuna corrispondente ad un semiperiodo della precessione degli equinozi[7]ed ognuna, relativa alla fase di reggenza di una delle cinque grandi razze componenti quest’umanità. Poiché l’orologio cosmico, che ritma il ciclo non può essere – per la sua stagionale e celeste evidenza – che la suddetta precessione,[8]un notevole ruolo nelle determinazioni qualitative del tempo, lo hanno pure le stazioni[9]rappresentate dai dodici asterismi zodiacali attraverso le quali transita, alla velocità di un grado ogni settantadue anni, il punto vernale. La cesura, tra un Grande Anno (Mahâyuga) ed il susseguente, ha la caratteristica d’essere sempre segnata da un cataclisma provocato dallo scatenarsi di uno degli elementi tradizionali.[10]

Quello attuale è l’ultimo Grande Anno del Manvantara ed è appannaggio della razza bianca discesa da zone circumpolari, dove si trovava “in sonno”, quale erede diretta della Tradizione Primordiale (razza hamsa: 1° Grande Anno) mentre, a minori latitudini, si succedevano civiltà che, pur sempre espressione della Religio Una, n’esprimevano, di volta in volta, le specifiche possibilità - in rituum varietate[11]- quali sensibili apparenze della diversa natura delle razze e delle loro peculiari caratteristiche, estrinsecate nella dominanza di epoche e terre diverse.

 

La discesa verso Sud della razza bianca non avvenne senza problemi  ed i principali tra essi dipesero dall’incontro-scontro ( circa –8.000)[12]con i rappresentanti della razza rossa, stanziati, principalmente, nelle zone occidentali e costiere del continente europeo nonché in quella fascia di terre che va dal Magreb[13]al Caucaso ed alla Mesopotamia. Altrettanto importante era la presenza umana esistente sull’altro lato dell’oceano; il motivo di questa distribuzione dipendeva dal risultare l’arcipelago atlantideo, metropoli e centro d’irradiazione di tale civiltà ma escludo ora dal discorso le culture americane perché lontane dagli eventi qui esaminati.

Questi brevi cenni sono però sufficienti per capire come sia proprio a motivo della natura talassocratica dell’impero di Atlantide che, i popoli, nei quali quel tipo d’eredità prevale, abbiano il Diluvio nelle loro leggende fondatrici mentre, nelle stirpi di più diretta filiazione iperborea, facenti capo ad una cultura di agricoltori-allevatori, sia invece ricorrente il racconto di un brusco incrudimento del clima, a motivo del quale, a seguito di gelo e tempeste di neve, fu intrapresa una penosa migrazione in cerca di terre più vivibili.[14] Entrambi gli eventi sono però epifenomeni di uno stesso immane cataclisma dalle conseguenze veramente planetarie.

Tra i tanti argomenti, che possono sottolineare quell’antica rivalità, basti pensare a come, per i popoli indoeuropei, nei quali ha invece dominanza l’eredità iperborea e continentale,[15]solo la terra sia la iustissima tellus e quindi unico luogo del diritto (della Lex, del Nomos anche nel senso alto di Dharma dell’intera, presente umanità): sulle onde nessuna traccia permane, <<sulle onde tutto è onda>>. Il mare è libero perché non ha carattere (da charassein incidere) come, in effetti, non lo ha il mondo contemporaneo dove, di nuovo, c’è l’universale e incontrastato dominio di un impero marittimo e ciò fino a quando non torneranno i <<Saturnia regna, … Hinc  … cedet et ipse mari vector, nec nautica pinus mutabit merces,[16]omnis feret omnia tellus.>>[17]e coerentemente per l’Apocalisse[18]non solo non ci sarà più navigazione ma sulla pura terra avvenire non ci sarà proprio più mare. . Del resto, altri racconti attribuiscono alla discesa ciclica uno spazio ognor crescente pel mare: solo 1/7 dell’intera superficie agli inizi, 1/4  nel periodo atlantideo mentre ai nostri giorni la proporzione si è addirittura invertita: 4 a 1. 

 

L’ultimo Grande Anno, che, in epoche tanto remote, stava per iniziare, era così segnato dagli esiti di questi due principali ed in un certo senso alternativi retaggi. Esiti, poi reperibili in tutte le civiltà successive, sia sul piano della loro organizzazione tradizionale, sia su quello della composizione etnica dei popoli vettori. Le differenze erano ma sono ancor oggi individuabili, in entrambi i livelli, dalla maggiore o minore presenza degli elementi entrati nella composizione. A complicare le cose, per la precisione, debbo aggiungere come la presenza di ciò ch’era sopravvissuto da forme cultuali appartenute ai periodi di dominanza delle razze, nera (meridionale: 3° Grande Anno) e gialla (orientale: 2° Grande Anno), avesse un ruolo residuale ma non indifferente al momento della formazione di alcune di queste culture.

Senza poi troppo allontanarmi dal tema principale, mi sembra infine il caso di rispondere ad alcuni interrogativi che, per quanto mi risulta, non sono mai stati sufficientemente ascoltati da alcuno con questa disponibilità quando, al contrario, la risposta è decisiva per iniziare a ricomporre un puzzle altrimenti irrisolvibile. Innanzitutto, l’uso della terminologia <<razza bianca>> e <<razza rossa>> può generare equivoci, dovuti all’accezione contemporanea in cui la prima è intesa e, di conseguenza, al sorgere di qualche perplessità riguardo a farsi un’immagine della seconda. Le differenze tra loro possono oggi non sembrare eccessive ma dobbiamo tener conto del melting pot di cui ho qui tratteggiato soltanto gli inizi e che, da tempo, si sta ulteriormente complicando. Inoltre, mentre per la razza bianca l’isolamento ne aveva permesso l’omogeneità,[19]per quella rossa l’elemento cosmopolita, collegato all’impero ed al dominio dei mari e di terre lontane, doveva aver già avuto inevitabili conseguenze.

 

Oltre alle obiettive difficoltà scientifiche, esistenti nell’affrontare il tema razziale, un approccio il più possibile neutro è via inusitata non godendo, né delle simpatie della politically correctness, né di quelle del punto di vista avverso perché, per prima cosa, si deve affermare che i popoli d’origine europea - o meglio, ciò che comunemente viene, ai nostri giorni, designato quale razza bianca, creando così qualche confusione col valore originario di tale denominazione – sono, nel loro insieme, il frutto di mistioni assai complesse: in primis con la razza rossa, la quale, a sua volta, dagli antropologi non è nemmeno considerata quale razza a sé stante ma è ritenuta soltanto una semplice variante. In ogni modo, essa, all’epoca della giunzione, veicolava, per i motivi già detti, molte altre componenti.

In definitiva, si può affermare come il prototipo del tipo razziale bianco e linguisticamente indoeuropeo sia rappresentato da quello che oggi è noto come tipo nordico;[20]nell’Induismo vedico, Indra è il dio biondo (hàri) mentre per la pelle, avendo presente come i nordici, nella percezione cromatica degli arabi, siano detti “uomini blu”[21]- a ragione del trasparire del sangue – è rilevante l’attribuzione di questo colore a Vishnu ed a Krishna.[22]

Da quanto ho detto sinora, è evidente come l’eredità iperborea sia in prevalenza riscontrabile presso i popoli della famiglia linguistica indoeuropea ed in particolare – come già affermato[23]- presso gli Indù. Avendo ben presenti i tipi umani dominanti nel sub-continente, è anche palese di come, al contrario, l’elemento etnico non sempre segua gli stessi rapporti d’incidenza percentuale di quello culturale.

L’eredità tradizionale atlantidea è invece più presente presso i popoli di stirpe semitica; tra gli Ebrei in particolare nonché, in parte, tra i Camiti mentre, da un punto di vista genetico, la partecipazione della razza rossa è rilevante in quella che, oggi, s’intende per razza bianca, ebrei compresi.[24]A tutto questo, si deve aggiungere che, esclusi gli indù (in tutte le loro varianti confessionali e pochi buddisti), nel nostro tempo, tutti gli indoeuropei stiano praticando religioni d’origine semitica.[25]

 

Per cercare di visualizzare in qualche modo quest’evanescente razza rossa, ritengo essere la giusta strada quella di procedere alla collazione delle testimonianze che la riguardano e, nel contempo, sempre avendo presente che lo scopo è quello di riportarci alle diverse confluenze tradizionali presenti nell’Ebraismo, giudico, altresì indispensabile, verificare gli eventuali segni del suo riconnettersi a quel preciso filum etnico. Incominciando da questi ultimi, sono del parere che, il primo indizio sia lo stesso nome di Adamo. Intanto, bisogna sottolineare come appartenga ad un processo del tutto normale dei testi tradizionali, il far sì che un elemento particolare possa essere preso a prototipo di un insieme più ampio e viceversa. Per tale motivo, Adamo, il quale nel Genesi rappresenta il primo uomo di quest’umanità, appare poi, da alcune peculiarità linguistiche appartenere invece ad un ciclo secondario ed assai più recente. Infatti, il suo ruolo di primo referente della filiazione semitica (lato sensu), dalla quale è poi sorto l’Ebraismo, risulta proprio dall’etimo: aâdâm, man, mankind  Ö dm, blood, da cui adêm, be red, adumym, ruddy, red of a man oppure ebr. ed  ar. adm, tawny ovvero il   fulvo  dei capelli mentre significativo, quale accenno all’epidermide, è l’ar. adamath, skin, che in ebr. ha la più prossima assonanza con adamah, ground, land[26] riproducendo così lo stesso rapporto esistente in lat. tra homo e humus con, in più, una significativa coincidenza che <<…si l’on rapporte plus spécialement ce même nom d’Adam à la tradition de la race rouge, celle-ci est en correspondance avec  la terre parmi les éléments, comme avec l’Occident parmi les points cardinaux…>>[27]

 

L’Occidente è la terra di Atlantide, la terra in cui la Tula – già iperborea (cfr.supra, n. 25) - venne ad identificarsi con l’isola di Ogigia posta nell’Atlantico settentrionale ovvero nelle attuali Færöer di cui ne resta una traccia toponomastica nel Mt. Høgoyggi dell’isola di Stòra Dìmun.[28] Ma, per l’area semitica, all’Occidente ci riconducono altri precisi riferimenti: come abbiamo visto[29]l’iterativa formula del Genesi <<…and God saw that it was good>> ovvero ky  tôb    è sempre seguita dall’altra <<…and evening came and then morning>> ovvero oyhy  ‘reb  oyhy  boqer,[30]nella quale è evidente la precedenza data alla sera quando - sole occidente - l’astro del giorno va verso quella terra liminare che è appunto das Abendland . Infatti, alla Ö ‘rb è connesso il senso di qualcosa <<…qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. les Hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé ‘bry, ( ebreo] et les Arabes ‘arab [arabo) par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu’on prononce  ‘bry, soit qu’on prononce ‘arab, l’un ou l’outre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou-delà, ou à l’extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d’une contrée>>.[31]

 

Oltre a questi due segni dell’appartenenza del filum ebraico alla scomparsa civiltà occidentale, un altro è individuabile nel già citato ruolo biblico del Diluvio[32]quale fondamentale turning-point of history, inoltre c’è una poco nota descrizione[33]dell’aspetto fisico del suo protagonista – che in qualche modo a quel mondo apparteneva - tale da fornirci ulteriori ragguagli sulle caratteristiche della razza in argomento: <<Dopo del tempo, mio figlio [è Enoc che parla] Matusalemme prese una moglie per suo figlio Lamek e costei rimase incinta da lui e generò un figlio. Ed era la sua carne, bianca come neve e rossa come rosa e i capelli del suo capo e la sua chioma erano come bianca lana e belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava tutta la casa come il sole, e tutta la casa risplendeva assai. E quando suo padre, Lamek, ebbe paura di lui, fuggì. E venne da suo padre Matusalemme>>.

Viene ora da domandarsi il perché di tanto timore per l’aspetto di quel neonato cui sarebbe poi stato dato il nome di Noè; il motivo lo indica espressamente Lamek nella descrizione che, del figlio, fa a suo padre: <<…mi sembra che egli non sia nato da me ma dagli angeli ed io temo che, ai suoi giorni avverrà un prodigio sulla terra...>>.[34]La spiegazione di questo apparentemente ingiustificato pericolo rappresentato dagli angeli la dà il bisavolo Enoc, presso il quale, Matusalemme è andato a chiedere consiglio: << Il Signore restaurerà la Sua Legge sulla terra ed io ho già visto ciò nella visione e ti ho fatto noto che nella generazione di Yared, mio padre, si è negletta, dall’alto dei cieli, la parola del Signore. Eccoli [e.s. gli angeli], fanno peccato e trasgrediscono la Legge e si sono uniti con le donne e commettono peccato con loro e tra loro hanno preso mogli, generando figli. Genereranno sulla terra i giganti, non di spirito ma di carne e sarà gran flagello su tutta la terra ma essa si laverà da tutta la corruzione.>>[35]

È lo stesso episodio che, nella versione biblica, viene espresso con contenuti sostanzialmente identici: <<Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio [qui, nell’originale, Dio è Elohim e la frase è bene ha’Elohim] videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora Dio [qui invece è YHWH] disse: “il mio spirito non resterà sempre saldo nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni.[36]” C’erano sulla terra i giganti [Nephilim, neflym,[37]] a quei tempi – ed anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini ed ebbero da loro dei figli: questi furono gli eroi dell’antichità, uomini famosi.>>[38]

Chi sono dunque questi enigmatici bene ha’Elohim? A mio parere qui entrano in gioco due diversi piani ontologici, entrambi significativi per questa ricerca: dai brani riportati, certe volte, gli angeli che fanno peccato e che hanno figli carnali sembrano coincidere con i bene ha’Elohim, così determinando incertezza e perplessità. È necessario quindi precisare che, al livello più alto, si trovano gli Elohim ovvero entità definibili quali Aggeloi ethnarchontes, i quali - secondo quanto afferma il Deuteronomio,[39]nella sua versione ultima, stabilita dalla scoperta a Qumrân di un frammento del 1°sec.A.C., versione già presente nella Settanta (…Aggelōn Theou) ed ora pertanto documentalmente convalidata  -  sono coloro che  << quando l’Altissimo spartì le nazioni, quando divise i figli degli uomini, Egli fissò le frontiere dei popoli secondo il numero dei Figli di Dio>>. Gli altri invece sono i fedeli, i seguaci di questi ed anche i loro figli: i Nephilim.[40]

 

 

In questo pantheion, uno degli Elohim  è (se ricordiamo la tripartizione del Tetragramma)  -Je [Y], Colui che sceglie Israele e diventa il suo Dio.[41] In altri termini, passando ad un modo d’esprimersi più diretto: è il monoteismo (qui sarebbe più appropriato l’uso del termine vedantico di “non-dualità”) della Tradizione Primordiale, della Religio Perennis,[42]che si perpetua, a dispetto di tutte le avvenute deviazioni ma rivestito di forme legittime ancorché proprie alla civiltà condannata, in quella comunità rappresentata da Noè[43]e dall’ekklēsia  dell’Arca. Del resto, tra i tre figli del Patriarca della Prima Alleanza[44]– ognuno in singolare e non casuale coincidenza con la tripartizione[45]- non è a Giafet (eponimo dei Giapeti ossia di quegli Indoeuropei che, discesi dalle ancestrali sedi boreali, rivivificavano ed in parte sostituivano la decaduta tradizione atlantidea) che spetta un’espansione mondiale ed il dover poi, sul finire del ciclo, in epoche a noi molto più prossime, abitare le tende di Sem ovverosia far propria l’abitazione, l’habitus, rivestire cioè le forme della tradizione semitica?[46] 

 

Il Libro di Enoc ci fornisce, riguardo alla localizzazione di questi avvenimenti, un’ulteriore importante informazione: il Cap.LXXI contiene un complicatissimo excursus calendariale, nel quale sembra essersi riuscito ad orientare molto bene il primo traduttore inglese del testo etiopico: Richard Laurence;[47]i risultati sono davvero significativi, in quanto stanno ad indicarci che gli avvenimenti narrati, si svolgono in una contrada dove il giorno più lungo dell’anno è pari al doppio del giorno più corto. Poiché sappiamo – ci è noto dai Vêda - che la sede della Tradizione Primordiale era <<la terre où le soleil faisait le tour de l’horizon sans se coucher…>> e <<…il est dit aussi que, plus tard, les représentants de la tradition se transportèrent en une région où le jour le plus long était double du jour le plus court …>>,[48]siamo ora in grado di fissarne la latitudine intorno ai 49° ovvero la collocazione che, in Europa, è quella di Parigi. La région in questione è naturalmente l’Atlantide e la posizione geografica che abbiamo ottenuto è del tutto compatibile con il possibile assetto della massa principale del continente (arcipelago) scomparso.

 

Giunto a questo punto, non mi è possibile approfondire il tema della natura del peccato commesso e dei suoi sviluppi sino ai giorni nostri ma il fatto stesso che ne siano risultati i “caduti” lo qualifica – in analogia con quello perpetrato illo tempore et in Cælo - come “luciferino” (in altri termini, il rifiuto di un ruolo assegnato). Il fatto che a compierlo possano essere stati gli “angeli” lo definisce quale deviazione all’interno di una società di uomini, il cui scopo originario era la santificazione ovvero di un gruppo inteso ad una qualche forma di realizzazione spirituale. Il fatto infine che tale  perversione sia potuta avvenire esclude, per esprimere la cosa nei termini della tradizione classica,  che possa essersi trattato di un’organizzazione appartenente al novero dei  magna mysteria. Non resta quindi che pensare ad un ambiente di Kshatryias o “cavalleresco” che dir si voglia come, infatti, sia l’espressione <<… eroi dell’antichità, uomini famosi.>>, sia il brano <<Giacciono con i guerrieri, i Nephilim dell’antichità, che scesero allo Sheol con le loro armi da guerra>>;[49]entrambi, pienamente, confermano. In sostanza, essa fu la ribellione di un potere temporale verso le legittime prerogative del potere spirituale. È quindi, da quest’elemento “militare” che, tutto il susseguente Grande Anno viene marcato, non soltanto per l’aspetto negativo è bene sottolineare[50]ma, comunque, coinvolgendo ogni momento della successiva storia della “razza bianca” o, con maggior precisione, europea.

In ogni modo, secondo una logica causale di matrice teologica, fu questa stessa specifica “insurrezione” a provocare il Diluvio[51]mentre, da un punto di vista cosmologico, si può dire che il processo debba essere considerato come sincronico. In altri termini, il collegarsi in successione dei due eventi, era, in quella precisa fase ciclica, diretta espressione della qualità dei tempi. In seguito, come ho già precedentemente accennato, a proposito della discesa verso Sud della razza bianca, il 6° Avatâra di Vishnu cioè Parashu-Râma[52]pose fine a quel potere usurpato, sconfiggendo demoni, Titani,[53]Giganti o Nephilim che dir si voglia.

 

Dovrebbe ora risultare chiaro perché, quando degli indoeuropei cominciamo ad avere notizie storicamente più precise, le due razze, sulla fascia più occidentale dell’Eurasia, appaiano inscindibilmente fuse anche se l’apporto iperboreo abbia, di fatto, maggior incidenza per quello che riguarda miti e costumi. Sul piano di questi ultimi, direi che una certa prevalenza dell’elemento nautico, predatorio, mercantilistico ed in molti casi nettamente piratesco è un segno evidente dell’importanza assunta dall’influenza definibile occidentale. Anche l’astuzia è, in Ulisse, un indice d’alterità rispetto all’ingenuità nativa[54]della razza. Ed egualmente, per quest’aspetto divergenti, sono - quali navigatori - gli Achei[55]e, con loro, i “popoli del mare”; così i più tardi Vichinghi e tra essi i Variaghi.[56]Questi ultimi, imponendosi ai continentali Slavi e fondando a Kiev un loro principato, sono dai vinti definiti i “rossi” (anche i finni li chiamano Ruotsi), da cui il nome di Rus dato al paese. Quest’aspetto ha poi, nettamente, caratterizzato l’espansione mondiale degli anglosassoni  benché figli della pur <<pallida Albione>>. Ma, ciò nonostante, l’elemento boreale resta prevalente: <<L’homologie entre le type physique e le statut social est explicite dans le Chant de Rig de l’Edda: Jarl le noble est “blond pâle”, Karl le paysan libre est “roux, aux joues roses”, Træll le serviteur est “noir de peau”.>>[57]

 

 

Per la seconda componente della tripartizione del Tetragramma -Ho [H] - il rinvio è ad una fase assai più tarda del ciclo: Abramo esce infatti da Ur all’inizio del II millennio A.C. Ur, ci è nota come una città dei Caldei, il che può apparire un anacronismo in quanto quel popolo compare come tale soltanto intorno all’XI sec. A.C., in effetti, il radicamento in quell’area della base linguistica semitica è realmente antico ed <<essa pone come sistema o quadro di riferimento l’idioma che ha la più antica e più ampia documentazione scritta , l’accadico [o assiro; ho qui usato l’uno o l’altro nome a seconda di quello che ho trovato nella fonte citata]….con tracce di sostrato sumero ed i cui documenti più remoti risalgono alla metà del III millennio A.C.>>.[58]Quindi, se per Caldea non ci si deve limitare ad intendere la patria di un popolo è, in alternativa, logico pensare che se <<…le nom …. désignait  en réalité non pas un peuple particulier, mais bien une caste sacerdotale>> e se <<la Celtide et … la Chaldée, dont le nom…est le même>>,[59]in un senso profondo s’identificano, perché non vedere qui uno dei risultati dell’incontro tra la corrente settentrionale e quella occidentale? Certo che, per determinare in tutta sicurezza il momento della giunzione, <<…il faudrait tout d’abord savoir à quelle époque précise remonte le Druidisme, et il est probable qu’il remonte beaucoup plus haut qu’on ne le croit d’ordinaire,[60]d’autant plus que les Druides étaient les possesseurs d’une tradition dont une part notable était incontestablement de provenance hyperboréenne.>>[61]A mio parere, la collocazione temporale ma anche spaziale è quella che ho già dato a proposito dell’incontro-scontro precedentemente citato[62]e, per il quale, posso aggiungere che il mitico posarsi dell’arca sul Mt. Ararat indica nella parte orientale e meridionale di quell’ambito geografico, il settore che più interessa la genesi dell’Ebraismo.

 

In effetti, il Caucaso, per l’incredibile giustapporsi dei popoli più diversi, sembra rappresentare come un résumé delle razze aventi parte all’ultima fase del Manvantara e lì, come nella parte occidentale ed atlantica dell’area in questione, si ritrovano gli stessi segni linguistici; ad esempio il nome Iberia designa, sia la penisola europea (ma anche la grande isola atlantica: l’Irlanda è, in lat., l’Hibernia), sia, nella lingua nativa, la Georgia (variante: Imeria). Infine, le lingue prettamente caucasiche ed il basco trovano, nel reciproco confronto, le uniche possibili affinità nell’intero contesto mondiale.

Del resto, anche sul piano antropologico, esiste tra Celti ed Ebrei una comune tendenza al rutilismo ed i rossi sono stati (spesso ancor oggi) per vari aspetti ed in molte circostanze, stranamente, associati nei luoghi comuni del pregiudizio antisemita: << le rouge de cheveux trahit, un peu partout en Europe, la fécondation pendant les règles, d’ou découle par ailleurs un ensemble de traits qui font du rouquin un être trouble, à l’odeur forte, à l’haleine trop chaude.>>.[63]A tutto ciò, si può confrontare l’antica diceria del fetor judaicus nonché <<…le désordre des humeurs, et singulièrement du sang …. [les]”écoulements” des juifs et  des cagots, eux aussi affligée de ces étranges “flux”, …>>.[64] Evidentemente si tratta di un qualcosa di ancestrale che è rimasto indelebile nel folklore se <<toutes les “races maudites” dont nos avons cerné l’image présentent ce trait>>.[65]<<”Poil de Judas” en France, suffit pour désigner un roux. En Allemagne, on le traite tout simplement de “Judas” ou bien d’ ”âme de Judas”…..un peu partout en Europe les éphélides sont appelées “marques de Judas>>.[66]Vizi d’origine e impurità che determinano un calore malsano e libidinoso nonché un carattere difficile, violento ed infido; anche per il Ruodlied (XI sec.):[67]<<non sit tibi rufus unquam specialis amicus>>. Tratti questi, che non mi sembrano lontani dall’immagine, quale, sulla base di ciò che c’è stato narrato, possiamo attribuire ai Nephilim. Con loro, l’Ebraismo, che non di meno li condanna, avrebbe avuto in comune soltanto la civiltà d’origine, non certo la colpa essendo Noè un puro, un  hanîf  inteso nell’accezione già esposta: cfr. supra, n. 96.

 

È noto <<…le rapport légendaire établi entre Nimrod et les Nephilim ou autres “géants” antédiluviens, qui figurent aussi les Kshatriyas dans des périodes antérieures…>>[68]ma, oltre a queste significative relazioni, c’è da fare un’altra considerazione; in ebr. Nimrod è nimrod ed in arab. è nimr, in entrambe le lingue il vocabolo sta ad indicare un animale with a spotted coat ma anche keen-eyed, in ass. Namâru ha il senso di shine, gleam.[69] Come non pensare a les éphélides  od anche alla descrizione dell’infante Noè  <<belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava tutta la casa come il sole>>.[70] Però, dietro quelle macchie c’è ancora dell’altro: l’animal tacheté  può essere la tigre che <<…comme l’ours dans la tradition nordique [est] un symbole du Kshatriya et la fondation de Ninive et de l’empire assyrien par Nimrod semble être effectivement le fait d’une révolte des Kshatriyas contre l’autorité de la caste sacerdotale chaldéenne>>.

Riassumendo, credo quindi possa affermarsi che, la Caldea (da intendersi assai più ampia che quella storica) sia stata teatro del momento orientale di quella giunzione più volte citata, dando luogo a tradizioni dove la componente “occidentale” risultava prevalente mentre la parte atlantica e centrale dell’Europa ha avuto nel Druidismo un esito, dove, l’elemento “settentrionale” giocava sicuramente il ruolo preponderante.

Le tracce mediorientali di quella giunzione – pur se non rilevate e fraintese - sono molto evidenti anche da un punto di vista linguistico; basti pensare ai Sumeri il cui nome è del tutto confrontabile con il skr. sumera, nome composto da sú-, corresponding in sense to  e da -meru, name of a fabulous mountain, regarded as the Olympus of Hindû mythology and said to form the central point of Jambu-dvîpa [i.e. questo nostro mondo terrestre; in realtà tutti e sette i dvîpas convergono nel “vertice” del Meru]; all the planets revolve round it …:[71]è, in effetti, la montagna polare, per la quale passa l’asse terrestre ed è espressamente indicata dall’Induismo come la sede della Tradizione Primordiale. È perciò significativo che Sumera,[72]risulti il nome dell’Artico, con ciò testimoniando di cosa fu sede quella regione; potremmo infatti anche tradurre e con maggior precisione, “beata sede iperborea” . Un tal nome applicato ad un popolo - nel contesto generale che ho delineato - fa riflettere. L’ ebr. shmr, keep, watch, preserve, e l’ar. samara,stay awake, trasmettono un’idea di vigilanza, di conservazione e - di fatto - con shmr, si designa la Samaria stante, in quel particolare ambito, il ruolo storico di assoluto conservatorismo religioso dei Samaritani nei riguardi del rimanente Ebraismo. Il più ampio significato sotteso è da intendere nella custodia di un legato tradizionale.

C’è poi un altro nome di paese, la Siria o Assiria (o Accadia), che presenta due interessanti connessioni:

Per essere stata la patria di quel tardo epigono dei Nephilim, quale fu Nimrod, l’ebraica Ö sur, dal significato di base turn aside sviluppa, ovviamente, quelli, nella fattispecie del tutto appropriati, di rebellion e apostasy.[73]

 

Con l’arabo invece torniamo alla relazione con la tradizione iperborea: per un <<… enseignement traditionnel de l’Islam …la langue “adamique” était la “langue syriaque”, loghah sûryâniyah, qui n’a d’ailleurs rien à voir avec le pays désigné actuellement sous le nom de Syrie, non plus qu’avec aucune des langues plus ou moins anciennes dont les hommes ont conservé les souvenir jusqu’à nos jours.>>[74] Pel concetto tradizionale di monogenesi del linguaggio, si tratta ovviamente della lingua originaria, propria agli uomini della razza hamsa, i quali vivevano in the Arctic home. Mi sembra, adesso, importante sottolineare come, mentre nei paesi meridionali il sole, non dico che sia un nemico ma, per il calore, determina un atteggiamento di fuga dai suoi raggi, nell’estremo Nord è atteso e desiderato così da scaturirne, nell’indigenza, un richiamo assoluto. Ed il nome in skr. del sole è proprio Sûryâ  <<et ceci semblerait indiquer que sa racine sur,[75] une de celle qui désignait la lumière, appartenait elle-même à cette langue originelle.>>.[76]È questa, quella Siria primitiva <<dont Homère parle comme d’une île située “au-delà d’Ogygie”, ce qui l’identifie à la Tula hyperboréenne, et “ou sont les révolutions du Soleil>>.[77] La Siria storica giunge pertanto ad avere lo stesso, trasposto significato attribuito ai Sumeri, i quali quindi ce ne appaiono, davvero, i legittimi abitanti.

 

Tutto quanto ho già esaminato, ci ha, più volte, mostrato ciò che può trarsi da un’attenta collazione del lessico accadico (ovvero dalla lingua semitica, che per geografia e tempi è relativamente più prossima alla giunzione in argomento) e di quello indoeuropeo. Alcuni dei raffronti riportati mostrano, infatti, le notevoli convergenze con questa lingua ma del pari importanti sono anche quelle che appaiono esistere tra i due ambiti linguistici, indoeuropeo e semitico, considerati nel loro insieme. I motivi, all’origine del fenomeno, risiedono, per gli apporti che c’interessano maggiormente, nei contatti predetti mentre, per altri casi, non è da escludere la necessità di rapportarsi anche al substrato più arcaico, collegato alla stessa monogenesi del linguaggio. Non deve essere infine dimenticato come, in seguito - last but not least - quando ci fu il grande insediamento indoeuropeo nel Mediterraneo (2° millennio A.C.), quell’area diventasse un tale punto d’incontro che, le tante somiglianze linguistiche, oggi riscontrabili, siano da attribuire piuttosto alla stratificazione di tale complesso succedersi di eventi invece che – con atteggiamento notevolmente riduttivo e singolarmente one minded - ascriverle al discendere tout court di una delle due grandi famiglie dall’altra, negandone le rispettive, specifiche identità.[78]

 

 

Resta  adesso  da  esaminare  la  terza  ed  ultima  parte  del  Nome  –Wa [WH],  che, per i suoi riferimenti egizi, è    rispetto alle altre – in sequenza cronologica con la storia ebraica e con il succedersi delle civiltà nell’area mesopotamico-mediterranea. Per quest’ultimo aspetto, è dunque importante collocare la civiltà egizia nell’ambito temporale, che le compete. Lo scopo, è di pervenire a delineare un quadro, il più possibilmente chiaro, dell’intreccio d’influenze che hanno poi condotto alla definizione dell’Ebraismo. Agli inizi di questo percorso, è apparso il rilievo del ruolo del profeta Enoc; giunti ora a questa fase è bene ricordare che <<…on sait qu’Henoch ou Idris [il suo nome nell’Islam] antédiluvien lui aussi, s’identifie à Hérmes ou Toth, qui représente la source de laquelle le sacerdoce égyptien tenait ses connaissances…>>.[79] E Toth  era, dai Greci, fatto corrispondere ad  Hermes con la conseguenza – e adesso lo vedremo meglio -  di un’origine egizia di tutte le correnti, le quali, appunto sotto il titolo di ermetiche, hanno in seguito percorso l’Europa cristiana,  influenzando in modo particolare,  come ho in precedenza accennato, le scienze e le arti  tradizionali. Nonostante, infatti, le equivalenze succitate anche il nome di Hermes ha una sua rispondenza a sé stante in arabo: hermes . Essa non è, probabilmente, che solo un parziale ricalco sul greco, in quanto già Ermēs doveva essere estraneo a quest’ultimo sin dall’inizio perché pervenuto <<[on] suppose [par] une origine égéenne>>.[80] Come poteva, infatti, un dio con quelle caratteristiche risultare ingenuus alla stirpe?   Non per niente era anche figlio illegittimo di Zeus e di Maia, figlia, naturalmente, d’Atlante.[81]    

 

Se poi prendo gli elementi consonantici di base: HRM, vedo che, significativamente, coincidono con la radice di haram, piramide; radice cui, a sua volta, è connesso il senso di grande vecchiaia, remota antichità. L’attributo datogli dai greci è riprodotto con lo stesso significato e più esplicitamente (triplo per la saggezza) dall’ar. al-muthallath   bil-hikam ed ha, in questa lingua, la particolarità che al-muthallath  sta a designare anche il triangolo e triangolari sono le facce della piramide, <<…qui a dû être déterminée aussi “par la sagesse” de ceux qui en établirent les plans…>>.[82] In egizio, il nome del monumento era mr, nel quale ritroviamo gli stessi componenti radicali di Meru ossia della montagna polare degli Indù e sede della Tradizione Primordiale e del resto il triangolo di per sé, come il pyramidion che, in Loggia, costituisce la parte sommitale di the broached thurnel,  hanno entrambi la stessa possibilità di richiamo simbolico senza che vengano escluse le altre citate in precedenza.[83] Non stupisca questo riferimento al Meru perché, prima della “confusione delle lingue”,[84]la percezione dell’equivalenza di fondo e della comune origine di tutte le tradizioni era patrimonio universale ed ancor oggi, in ambito islamico, il termine lingua può essere usato, parlando di un popolo, come sinonimo per indicarne la religione.

Rimanendo nel mondo islamico vediamo che <<cette “triplicité” a d’ailleurs encore une autre signification, car elle se trouve parfois développée sous la forme de trois Hermès distincts: le premier, appelé “Hermès des Hermès” (Hermes El-Harâmesah) et considéré comme antédiluvien, est celui qui s’identifie proprement à Seydna Idris; les deux autres, qui seraient postdiluviens, sont l’“Hermès Babylonien” (El-Bâbelî) et l’“Hermès Égyptien (El-Miçrî); ceci paraît indiquer que les deux traditions chaldéenne et égyptienne auraient été dérivées directement d’une seule et même source principale, laquelle, étant donné le caractère antédiluvien qui lui est reconnu, ne peut guère être autre que la tradition atlantéenne>>.[85]

 

Per completare i nostri parametri, resta da dire che <<…si la source principale est ainsi la même, la différence de ce formes fut probablement déterminée surtout par la rencontre avec d’autre courants, l’un venant du Sud pour l’Égypte, et l’outre du Nord pour la Chaldée>>.[86] Mentre la cosa, per la Caldea, c’era nota, con l’Egitto compare adesso il legato della Razza Nera (3°Grande Anno); nonostante ciò è però necessario sottolineare che <<…la tradition hébraïque est essentiellement “abrahamique” donc d’origine chaldéenne>>.[87] Qui giunti, c’imbattiamo in un ulteriore diversificarsi della prospettiva: infatti, la soluzione che per prima sarebbe venuta allo spirito ed anche quella in apparenza più semplice, sarebbe stata di considerare l’ultima parte della tripartizione nient’altro che l’introduzione di una componente egizia nell’insieme dell’Ebraismo. Invece, <<…la “réadaptation” opérée par Moïse a sans doute pu, par suite des circonstances de lieu, s’aider accessoirement d’éléments égyptiens, surtout en ce qui concerne certaines sciences traditionnelles plu ou moins secondaires; mais elle ne saurait en aucune façon avoir eu pour effet de faire sortir cette tradition de sa lignée propre, pour la transporter dans une autre lignée, étrangère au peuple auquel elle était expressément destinée et dans la langue duquel elle devait être formulé.>>[88] Di fatto, nel percorso sinora compiuto, abbiamo veduto come Noè, ancorché hanîf, fosse un rappresentante del mondo atlantideo e come poi, dal melting pot della giunzione,siano emersi sia il Celtismo, dove l’influenza nordica era prevalente, sia il Caldaismo, dove, invece, quella occidentale aveva maggior ruolo. Giunto in Egitto, il popolo ebraico, fedele al suo genio, può aver trovato symtatheia  soltanto con gli aspetti della tradizione   del   paese   più   affini   a      ed  alle   sue  origini  e  se  le cose stanno così, debbo concludere che nemmeno in questo caso siamo in presenza di un prestito, di un  collage  sincretico ma che  Wa ®¬ Wsir è un fenomeno di convergenza provocato da un substrato comune ad entrambe le tradizioni e l’aggiunta è pertanto avvenuta nel pieno rispetto del portato caldaico. Questa fedeltà alle proprie radici, traspare allora anche nel senso che ho attribuito alla terza parte del già esaminato Jahbulon (Jah-bul-on); nel qual caso, addirittura, ci sarebbe un’operazione inversa: -on, pur parola egizia (On, Aton), testimonierebbe un momento storico nel quale, il popolo ebraico avrebbe imposto la propria visione monoteista al paese ospite. Sembra logico attribuire l’appartenenza di questo substrato alla discendenza atlantidea d’entrambe le tradizioni ma ciò è vero solo in parte e, soprattutto, le evidenti differenze tra le due investono anche questa condivisa eredità per ciò che riguarda, in particolare, le estrinsecazioni di carattere cultuale.

 

Ma soffermiamoci sul perché si trovi qualcosa non completamente pertinente al comune substrato: qual è dunque la novità? A mio parere essa sta in quella corrente multiforme, pressoché universalmente presente e non altrimenti definibile se non “dionisiaca”. Essa corrisponde all’affiorare, nel corpo sociale[89]dell’ultimo Grande Anno del Manvantara, di impulsi ognora crescenti e dall’immenso potere disaggregante e, perciò stesso, in necessità di un contenimento rituale, rappresentato, e da un preciso quadro teologico/mitico, e da riti intesi alla trasformazione/ sublimazione delle grandi forze presenti, nonché, da periodici episodi di “libertà” vissuti, in Europa, sino al nostro Medio Evo, nelle ben note feste carnascialesche. Anzi, a sottolinearne l’importanza, si deve mettere in evidenza come la fine di queste coincida con la nascita del mondo moderno, nel quale tali spinte dal basso non più respinte o incanalate ma, disordinatamente accolte e ricercate, contribuiscono a rafforzarne ogni aspetto innovativo grazie all’enorme potenziale inerente la loro magmatica energia.[90]

La razza bianca, nelle sue sedi circumpolari, contrassegnata da un temperamento flemmatico[91]e depositaria di dottrine e di culti, i quali erano – come abbiamo già visto - quanto di più prossimo ci fosse alla Tradizione Primordiale, doveva godere di una situazione sociale e psicologica definibile olimpica. Quest’equilibrio, senza dubbio, iniziò ad alterarsi già al momento della discesa ma ancor più, quando, poi, s’ebbero gli scontri-incontri con altre genti anche se poi, in qualche modo, rimase tra gli ideali dei popoli che da quella stirpe derivarono.[92] Per fare un esempio tra i molti possibili: l’imperturbabilità è, anche oggi, sentita, al fondo, come un atteggiamento superiore essendo connaturata alla padronanza di sé e, di conseguenza, all’attitudine al comando mentre l’emotività e le sue pulsioni, spesso paradossalmente cercate, suggerite ed addirittura lodate come indice di genuina umanità, sono percepite, pur se non sempre lo si confessi, quali segni di una caduta di tono. Di un vulnus nel carattere insomma. Cosicché, quando in un popolo tale sentimentalità domina e lo contraddistingue, siamo certamente in presenza di un sintomo di decadenza e stanchezza civile.

 

Stante quest’attitudine di base, si può comprendere come, in tempi lontanissimi, il rapporto con il soprasensibile, si realizzasse unicamente per mezzo della volontà e della capacità di concentrazione nonché attraverso l’uso di precisi mezzi rituali.[93] Soltanto in seguito, sorse la necessità d’altri strumenti, che, in qualche modo, aiutassero l’uomo a superare l’ormai sempre più spessa barriera per lui rappresentata da ciò che la Bibbia chiama la “tunica di pelle” ovverosia il corpo carnale in cui è “caduto” dopo la “cacciata” dalla sede originaria.[94] Per questa decadenza, che il Mazdeismo definisce un passaggio dallo stato mênôk (sottile) allo stato gêtik (grossolano), <<…n’est-il plus possible aujourd’hui aux humains, comme il le fut à l’origine, de passer d’un keshwar[95]à l’autre.>>,[96]non è infatti più possibile cavalcare << …[l’]animal mythique maintenant conservé en un lieu secret jusqu’au Frashkart  [la palingenesis] où il doit être sacrifié et son corps servir à la composition du breuvage d’immortalité>>.[97] Era con quest’immagine equestre che veniva indicata tale perduta possibilità degli uomini primordiali di liberamente accedere a tutti i recessi delle “terre” da allora nascoste e la cui presenza poté ormai rendersi visibile ed il cui spazio essere percorso esclusivamente attraverso virtù eroiche o godendo di specialissime situazioni non certo ottenibili soltanto ex voluntate.[98]

 

Nelle epoche, che immediatamente precedettero la fine rovinosa del penultimo Grande Anno del Manvantara, la situazione nell’uomo delle capacità di quest’ordine, pur se sicuramente superiore a quella esistente ai nostri giorni, non era in misura alcuna paragonabile a quella propria allo stato dell’umanità primordiale.  Il rapporto però con il mondo à côté doveva essere vissuto in maniera più facile e poiché ogni manifestazione dell’ordine corporeo ha in quella sfera, per gerarchia ontologica, la sua immediata radice è comprensibile come, quello, che oggi può apparirci un residuo per certi versi grottesco – intendo riferirmi a tutto ciò che va sotto l’assai generica etichetta di Sciamanismo – facesse allora parte di un diffuso modus operandi, probabilmente proprio, in misura e forme diverse, anche a periodi ancor più antichi.

Di tale operatività, quello che n’è rimasto ai nostri giorni, fa comprendere come essa fosse, in prevalenza, rivolta e limitata all’ambito cosmologico. Doveva, in altri termini, esser parte dell’esercizio di numerose scienze tradizionali; per cui, non a caso, lo sciamano, per gli antropologi anglosassoni, a motivo delle funzioni oggi prevalenti, prende pure il nome di medicine-man. Ora è noto che, sul finire di una civiltà, sono proprio le scienze e le tecniche a prevalere e quella che chiamiamo magia è l’applicazione di analoghe procedure sul piano sottile (mênôk, in iranico) piuttosto che su quello grossolano (ir. gêtîk); pertanto, tutto quest’ordine d’attività tende ad assumere un ruolo sempre maggiore ed è proprio quello che deve essere accaduto al mondo atlantideo.[99] Ma, alle ombre fanno riscontro alcune luci, quali la presenza, nei riti sciamanici, di simboli sicuramente primordiali come quelli dell’albero e del cigno.[100] Cosicché chiaro ed oscuro, s’alternano anche in singolari raffronti linguistici: la designazione della funzione ci è pervenuta da un contesto ugro-finnico ma vediamo che in Hindi, sheman è un idolatra mentre è singolare constatare in qual modo, sempre presso i popoli mongolo-siberiani, alla connessione tra il nome di Dio ed i concetti di “cielo – alto – elevato”,   faccia  riscontro  il  reperimento  degli  stessi significati nelle pressoché identiche radici semitiche di  shmym, cielo; sama, cielo; samin, elevato. Il candidato a quell’iniziazione presso i Kirkisi[101]ha nome di baqça, che posso, significativamente, confrontare a baqsh,[102], quête (da cfr. con l’accezione cavalleresca: la quête du Graal) bahth è chercher. Però, secondo i Buriati,[103]nell’estasi, gli spiriti degli antenati rapiscono in Cielo l’anima del candidato per portarla dinanzi ad un consesso docente che è l’Assemblea dei Saaitan, cui corrisponde nientemeno che un più che trasparente satan.

 

Le sopra accennate, sopravvenute, difficoltà ad accedere ai particolari stati liminari, necessari per trasferire, in stato di veglia, la coscienza nel mondo sottile, determinarono il ricorso a tecniche e sostanze di supporto ed è così molto interessante constatare come, nell’era post-diluviana, Noè s’identifichi con lo “scopritore” del vino e dei suoi poteri. Più sopra,[104]ho scritto, a proposito della Ö ‘rb e della sua connessione ad un significato ampio di sera e d’occidente (das Abendland), per ricollegarmi ai riferimenti atlantidei sottesi al suo significato. Ebbene, per evidenti ragioni di colleganza genealogica, presso i popoli semitici, da tale radice è scaturito anche il concetto di relationship between persons of the same status,[105]infatti: hâbêr, camarade; acc. ibru, colleague, comrade ma gli esempi potrebbero continuare investendo una serie davvero importante di derivati. Nelle lingue di questi popoli il pref. la- ha valore negativo per questo l’accadico laibru (la-ibru), designa qualcuno privo di vincoli. Se a questo si raffronta la mancanza di soddisfacenti etimi i.e. per il lat. liber, che ha lo stesso significato, c’è di che rimanere incuriositi ed ancor più se ricordiamo che Liber è pure nomen e lo è di una <<divinité italique….assimilée a Bacchus… [et]…des rapprochements pertinents… [ont montré]…que le culte était identique à celui de Dionysos.[106]  Il motivo è evidente: <<Liber repertor vini ideo sic appellatur quod vino nimio usi omnia libere loquantur>>.[107] Davvero intrigante è allora leggere, sempre a proposito di Noè, che <<l’Arca andò vagando e si fermò sulla cima di Lubar, uno dei monti di Ararat.>>[108]

Per tutta una serie di paradossi, che caratterizzano questa parte terminale del ciclo, tra i popoli semitici, quelli di fede mussulmana hanno la proibizione degli alcolici;[109]gli Ebrei trovano nella Torah, accanto alla lode della vite e dei suoi frutti ed al loro positivo simbolismo, la condanna, innumerevoli volte ripetuta dell’ubriachezza,[110]mentre tra i popoli i.e., originariamente lontani da questi abbandoni, è avvenuto che, per quelli in seguito cristianizzati,[111]l’abuso dell’alcool sia – da tempo immemorabile - una piaga sociale sicché soltanto nell’Induismo è sopravvissuto il divieto di consumare bevande fermentate.

 

Da un esame linguistico, risulta poi che i popoli i.e. dell’Europa acquisirono sì la conoscenza del vino allorché giunsero nel bacino del Mediterraneo ma che già conoscevano i prodotti e gli effetti della fermentazione quale evidente risultato di quel primo incontro-scontro con i tardi epigoni della civiltà atlantidea, cui ho fatto più volte menzione. 

Provo ora a esaminare da vicino quest’aspetto: il nome della vite ha in gr. una chiara origine semitica che ne determina nettamente l’esotismo rispetto all’originario habitat boreale: oinoV,  digamma initial assuré,[112]quindi, posso supporre una forma *voinos, confrontabile con l’ar. wayn, black grapes; acc. inu, vino; sémitique commun Ö wainu ma anche georg. g’wino. Analoghi processi stanno a monte di vinum poiché e in gr. ed in lat. non c’è una soddisfacente etim. i. e.

Nel Nord del continente eurasiatico le bevande fermentate s’ottenevano, infatti, diversamente; in questo caso, sono partito dalla conseguenza del bere: l’ubriachezza. In gr. c’è un verbo normalmente usato, in tutte le accezioni, per indicare l’ubriacarsi ed è methyskomai mentre, per precisare l’ubriacarsi di vino, esiste il più raro ed ovviamente più tardo oinyn (® ezoineō), d’evidente origine non i.e. in quanto formato su oinos. Il KK afferma che i termini originari erano methyein, methyskein, comunque in tutti l’elemento base è methy(® meli), miele e da questo proviene la “bevanda degli Dei”[113]per eccellenza l'idromele..Ilvocabolo è antichissimo perché risuona in tutte le lingue i.e. (ingl. mead, ted. der Met, skr. madhu, per tutti: birra di miele e poi skr. mâda, ubriacatura da cfr. con l’ingl. mad, pazzo) ed anche nelle lingue ugro-finniche (fin. mesi, metinen, ung. méz). In it. c’è mézzo (dal lat. mitis, dolce) nelle espressioni mézzo di vino, ubriaco mézzo che, nelle forme popolari toscane può limitarsi all’icastico <<è mézzo !>> per definire la precaria condizione di qualcuno.

 

Alla luce di tutto questo, è dunque mera falsità dire con Plutarco che il Dio degli Ebrei fosse Dioniso? Indubbiamente sì, se l’affermazione fosse presa alla lettera ma, con evidenza, ove la prospettiva cambi ed i riferimenti siano intesi in senso trasposto come avviene, per esemplificare, nei vari aspetti che hanno avuto sviluppo nel successivo Cristianesimo: <<Io sono la vera vite…>>[114]oppure <<Prese il calice e rese grazie … ne bevvero tutti>>[115]….l’affermazione assume ben altra pregnanza.

Intendo dire che l’elemento di base, i mitologhemi di partenza sono comuni, essendo radicati nelle strutture di una forma tradizionale lontana, in larga parte profondamente modificatasi all’inizio dell’ultimo Grande Anno e, per troppi aspetti, totalmente perduta.  Quanto alla raccapricciante morte – per smembramento - e resurrezione iniziatica dello sciamano ed a quella mitica ed atroce di Dioniso/Osiride,[116]sono del parere che il più compiuto svolgimento, si è avuto col Cristo nel suo sacrificio e resurrezione. Direi quindi, valutando anche l’elemento arboreo[117]e quello tauromorfo[118]che, la costituente “dionisiaca”, sottesa a -Wa [WH], debba essere considerata una porzione importante ma silente del retaggio ebraico e che essa”, nel passato, nella sua versione “letterale”, debba, in linea di massima, aver costituito una “tentazione” verso l’osservanza di un culto “non hanîf ”e, perciò stesso, ritenuto eretico dai custodi dell’ortodossia israelita. Pertanto, la sua messa in evidenza, durante il periodo egizio[119]è stata più un effetto di coalescenza, al contatto del locale culto di Osiride, con un qualcosa già presente piuttosto di una reale acquisizione ex novo.

Resta, infine, l’elemento sessuale che, nei riti dionisiaco/shivaiti[120]è così rilevante ma è, di fatto, presente solo in negativo nell'Ebraismo. Attitudine che questo ha trasmesso al Cristianesimo, il quale, in qualche misura, la ha ulteriormente potenziata. C’è questo passo di Abacuc[121]che, significativamente, accomuna due condanne: <<Guai a chi fa bere i suoi vicini versando veleno per ubriacarli e scoprire le loro nudità. Ti sei saziato di vergogna, non di gloria. Bevi e ti colga il capogiro. Si riverserà su di te il calice della destra del Signore e la vergogna sopra il tuo onore>>. Mentre Paolo:[122]<<…Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo.>>

 

Sempre a proposito della componente -Wa [WH], esiste un episodio significativo, accaduto in Egitto in epoca però assai più tarda della remota schiavitù, dalla quale gli Ebrei sfuggirono sotto la guida di Mosé. [123] Sembra, infatti, che, dopo la presa di Gerusalemme, da parte di Nabuccodonosor (-587), alcuni nuclei della tribù di Giuda, intorno al –580 (la lingua corrente era già l’aramaico), si fossero rifugiati nella valle del Nilo, per evitare la deportazione in Mesopotamia. In genere, si trattava di coloni, raggruppati in clan familiari, insediati in villaggi, sul tipo degli stanitsy cosacchi, dove la terra era concessa alla coltivazione in cambio di una costante milizia.  Sembra, infatti, che i Persiani, signori in quel tempo dell’Egitto, molto apprezzassero lo spirito castrense del popolo ebraico.  A Yeb, nell’isola nilotica di Elefantina, nell’Alto Egitto, ad oltre ottocento chilometri dal Mediterraneo, fu, da questi profughi, innalzato un tempio, la cui costruzione era, in qualche modo, sentita lecita (faccio presente che si stava, in tal guisa, contravvenendo al concetto principalmente giudaico dell’unicità del luogo di culto) essendo stato distrutto il santuario gerosolimetano. Un'altra informazione lo fa invece risalire ad epoca anteriore e pertanto già in uso ad una comunità preesistente in zona, la quale si sarebbe quindi limitata ad accogliere i profughi. Quel tempio, dal nome dato a Dio, c’è noto sotto il titolo di Yaho. Adesso bisogna dire che, sebbene tutto questo avvenisse in epoca pre-tolemaica, le notizie ci sono pervenute prevalentemente da fonte greca, egizia o veicolate dall’aramaico, che era, allora, la lingua veicolare di tutta l’area mediorientale.

 

È per questa ragione, che non può esserci sicurezza su quale fosse l’effettiva grafia ebraica di Yaho ma, di norma, per la corrispondenza di O e di W a W,[124]si dice fosse un nome trilittero della forma yhw, invece del consueto tetragramma yhwh; a mio parere, la trascrizione fonetica pervenutaci, invece corrisponde e pertanto conferma la testimonianza massonica della costituzione tripartita del tetragramma, con tutte le implicazioni oggetto di questo lavoro.

Doveva, quindi, trattarsi di un nome dalla pronuncia Jèho e dalla scrittura bilittera YH, al quale mancava, appunto, la componente -Wa [WH]. Perché, proprio in Egitto, fu tolta dal Nome la costituente che poteva essere ricondotta ad Osiride? La risposta può essere soltanto ipotetica ma se consideriamo che, nei pressi di quel luogo di culto, si trovava un tempio egizio dedicato a Khnum, il dio dalla testa d’ariete, i sacerdoti del quale mal sopportavano che, l’oggetto del sacrificio ebraico fosse, spesso, proprio tale animale[125]e se, a ciò, s’aggiunge il consueto esclusivismo ebraico, il quale, parimenti, mal sopportava apparentamenti con quei gentili, potremmo forse individuare una spiegazione. Altra ipotesi è che, non volendo semplicemente contraddire appieno la prescritta unicità templare,[126]il clero, preposto al santuario, abbia attuato quella modifica a mero scopo giustificativo. Terza ed ultima ipotesi: il Nome si presentava bisillabo perché la comunità originaria del luogo era, come il Tempio stesso, estremamente antica, risalendo ad un’epoca precedente l’Esodo; quindi, essendo essa rimasta isolata e poco toccata, sia dagli sviluppi sopravvenuti nell’Ebraismo, sia dalle influenze locali, era a conoscenza soltanto della dizione praticata prima dell’arrivo del popolo nella terra dei Faraoni. Se ciò fosse, avrebbe un senso la supposizione, tratta dalla documentazione papirologica ritrovata, che quel nucleo remoto non avesse cognizione della Thorah, almeno nella veste sua storica di Pentateuco. In ogni caso, dalle forme assunte nonché dalla generale accettazione di questa partitio, appare evidente - anche a livello popolare - la coscienza, all’epoca, della composita costituzione del Nome.

L’ostilità sacerdotale egizia fu, comunque, così irriducibile da ottenere infine che, dalla riva destra del Nilo, dalla guarnigione persiana della vicina città di Syene, si muovesse verso Yeb una spedizione, che, nel –411, distrusse l’inviso tempio giudaico.

 

 

Conclusioni

 

Nell’affrontare il tema delle razze ho voluto attenermi ad un punto di vista strettamente tradizionale, sia perché, a mio parere, corrisponde, molto semplicemente, a verità, sia perché permette di fare chiarezza su un tema riguardo al quale i pregiudizi sono oggi presenti come non mai. In effetti, lo spettro delle opinioni, in questa fine di millennio, si estende dalla, di fatto, negazione della fondatezza di quel criterio tassonomico, alle posizioni avverse più oltranziste: quelle che non vogliono vedere, quanto, la composizione attuale dell'umanità resti lontana dagli originari tipi di riferimento.

La prima è esplicita opinione di molti genetisti, i quali sembrano ignorare come, nelle antiche classificazioni, si volesse, così catalogando, mettere prioritariamente in risalto l’aspetto qualitativo ovvero formale e temperamentale inerente le differenze esistenti. Aspetto, che è poi quello di maggior rilevanza sul piano sociale e culturale. Oggi, la negazione o estrema svalutazione di tali differenze, scaturisce invece da una sottolineatura del riscontro, meramente quantitativo, della prevalente uniformità genetica e fisiologica, la quale, spogliata dalla sua dominante veste ideologica, non è, a sua volta, meno vera, essendo, di fatto, unica l’appartenenza specifica alla comune umanità. Quest’ovvia presa d’atto sarebbe però meglio e più scientificamente proposta ove non si volesse, assurdamente, dimenticare che non è con lo spostamento dell’angolo visuale che, sull’altro piano, quello qualitativo e formale, cambi alcunché.

La seconda posizione tende a confondere razze e popoli mentre quelle sono presenti in questi con una rilevanza soltanto percentuale e mai esclusiva. Considerando, per il tema qui affrontato, la razza rossa, vediamo come essa sia rilevabile, nel popolo ebraico - di quella remota civiltà il diretto successore - maggiormente tra gli Askenaziti (pare anche tra i Samaritani) piuttosto che tra i Sefarditi ma è incomparabilmente più importante tra i cattolicissimi e linguisticamente indoeuropei d’Irlanda (Hibernia, appunto!). Vediamo poi che, ad essa, vadano ascritte alcune caratteristiche – le attitudini marinara e commerciale - fatte proprie, sin da epoche remote, da popoli, sempre indoeuropei, quali i Greci e gli Scandinavi quando, a Roma, fu invece necessaria la mortale minaccia cartaginese per adottare, obtorto collo, l’arte navale ed assimilarne così le relative influenze.

Il popolo, il quale, nonostante le più diverse contaminazioni, meglio si mantiene, nello spirito e nell’effettiva eredità culturale, vicino all’ancestrale tradizione iperborea della razza; il popolo Indù, ne è forse il più lontano sul piano fisico. Al contrario, le nazioni d’Europa,[127]che, forzando in molti casi il concetto, sono definite di razza bianca, hanno tutte adottato una religione semitica, in tal modo esaltando, come, dopo la Riforma, è avvenuto per gli Anglosassoni ma non solo per loro,[128]la già rilevante componente “punica”.

Poiché, in questo campo, le cose non sono mai semplici; per mia parte, riguardo al Cristianesimo, condivido la documentata posizione del Cardini, il quale afferma come, ai nostri giorni, se proprio si volesse trovare qualche vivente traccia della tradizione classica, l’erede - di quel lascito il maggior beneficiario - sia stato proprio il Cattolicesimo romano.[129] Io aggiungo che lo stesso possa dirsi di ciò che resta del mondo celtico.[130]

Sempre per mostrare la complessità di tutti questi temi, che possono diventare esplosivi se non affrontati con le dovute precauzioni, basti pensare all’immensa portata della discesa indoeuropea nel bacino del Mediterraneo; tema, che è stato indagato da un’importante opera di Giovanni Garbini,[131]nella quale, si dimostra come quelli che sono conosciuti sotto la generica denominazione di “popoli del mare” ovvero Achei, Danai, Micenei, Sardi, Siculi, Teucri e Filistei, abbiano fortemente determinato, assimilandosi, la composizione dei popoli semitici delle sponde orientali di quel mare, sì da essere all’origine di alcune delle stesse componenti d’Israele; quali Dan (Danai), Aser (Teucri) e Zabulon (Sardi, che sono poi gli stessi che hanno anche – popolandola - dato nome all’isola) nonché degli stessi Fenici.[132] La meno toccata sarebbe stata la tribù di Giuda ed allora anche la storia dello scisma di Geroboamo[133]e quella delle dieci tribù perdute verrebbero illuminate da nuova luce, risultando tali eventi in qualche modo connessi a questo “vizio” d’origine: parimenti, la chiusura fortemente etnocentrica, che dal ritorno da Babilonia ha determinato, per volontà di Esdra, l’Ebraismo sino ai nostri giorni, sarebbe da rivedere e reinterpretare. Eppure, nonostante l’esclusivismo giudaico post-esilico, il primo Ebraismo su suolo tedesco, costretto, secoli dopo, a migrare ad oriente, nella slavia, portandovi, nel XIV sec., la lingua jiddish e la cultura dello schtetl, sembra che, in larga misura, debba il suo sorgere al ritorno in patria di legionari germanici, i quali, provenienti dal medio-oriente con mogli ebree[134]ed essi stessi proseliti, abbiano in tal modo, dato origine in Renania alle prime comunità.

Resta, ora, da chiarire un punto che, soprattutto con la connotazione negativa dell’avverso pregiudizio, avendo sempre associato Massoneria ed Ebraismo, può trovare in questo studio conferma per il continuo, anche se non esclusivo, rimando alla lingua ed alla cultura ebraiche che il rituale massonico, con frequenza, richiede. L’intera questione ha la sua non facile spiegazione, nelle origini stesse del Cristianesimo; pertanto, volendo fare solo un breve cenno agli estremi del tema, è necessario renderne evidenti i punti essenziali. Il Cristianesimo nasce come una struttura esoterica, interna alla religione ebraica ed essa corrisponde a quella fase che, oggi, si suole definire Giudeo-cristianesimo (vd. supra p. 11). A conferma, l’Islam, il quale, in modo un po’ riduttivo, può dirsi sorto da quella corrente, afferma che, alle sue origini, il Cristianesimo altro non fosse che una tarîqah ovvero si trattasse, secondo quella terminologia, di una specifica via iniziatica. Tale stato di cose implica alcune importantissime conseguenze:

La maggiore discende dal fatto che, Gesù non corrispondeva pienamente a ciò che le Scritture prevedevano per il Messia, il cui compito fondamentale, essendo l’effettiva restaurazione dello stato primordiale, risultava invece modificato dal prospettarsi, nel suo annunzio, detta apokatastasis, in forma del tutto virtuale; cioè, quale semplice possibilità di salvezza offerta ai credenti mentre si sarebbe attualizzata erga omnes e come oggettivo evento cosmico, soltanto alla fine dei tempi, con il Secondo Avvento.  Da quest’unico, specifico messianismo sono scaturite due, molto diverse, cristologie.

* La prima, intende la predicazione di Gesù in senso restrittivo; propedeutica alla Restaurazione finale e quale manifestazione da porre nella sequenza del Verus Propheta <<se hâtant, de prophète en prophète, jusqu’au lieu de son repos.>>[135] Essa è la visione giudeo-cristiana ed islamica; quest’ultima chiuderà la sequenza con l’avvento di Mohammad, “Sigillo dei profeti” (khâtim al-nobowwat). 

 * La seconda cristologia è quella costruita da Paolo con un’operazione teurgica di carattere gnostico;[136]essa, pur collocando nel futuro l’evento d’impatto cosmico, sì da farlo coincidere colla Seconda Venuta, estende subito, erga omnes, la portata del Vangelo, in un’operazione universalistica imperniata sulla deificazione della figura di Gesù, pel quale, l’attributo di Cristo, si carica d’implicazioni straordinarie ma necessarie e provvidenziali onde permettere il passaggio dall’originario status di gruppo elitario a quello di religo delle genti. In questa prospettiva, il Primo Avvento, dà luogo ad un momento intermedio del processo e, in tale spazio, trova un suo ruolo anche l’Ebraismo.[137] Sant’Agostino afferma anzi che gli ebrei <<necessari sunt credentibus gentibus>>[138]perché le disgrazie che li colpiranno, per non aver saputo comprendere la nuova era, annunziata nelle rivelazioni contenute nelle Scritture che rivendicano, saranno tutt’uno con la missione rimasta loro da compiere ovvero <<ut sibi sumant judicium, nobis praebeant testimonium>>:[139]<<ainsi, non seulement l’apologétique chrétienne s’accommode de leur persistance, mais elle l’exige.>>[140] Le basi teologiche di questa posizione durissima m’anche singolare nel suo ostile permissivismo sorgono nel momento cruciale in cui andava consolidandosi la definizione della Grande Chiesa quale Verus Israel e si rendeva pertanto concettualmente indispensabile la precisa collocazione subordinata del Vetus. È così che, nella mora dell’iter formativo di quella grandiosa operazione teurgica, si può intravedere il sorgere dell’intrinseca esigenza di negarla, occultandola e chiudendo la via ad ogni possibile comprensione dei fatti con una condanna inflessibile, e mai abbandonata dalla Chiesa, d’ogni dottrina gnostica mentre, nel contempo, s’imponeva analoga rottura e nascondimento delle origini giudaiche, verso le quali si doveva impedire qualsivoglia possibilità di un ritorno, il quale, a livello delle masse, avrebbe vanificato tutta la complessa costruzione universalistica tanto sapientemente e – ripeto – provvidenzialmente elaborata.

La conseguenza, che più direttamente ci porta al centro del problema, è come l’esoterismo cristiano, diretto epigono dell’elitaria formula originaria e quindi troppo alternativo, nell’esegesi, rispetto agli enunciati teologici dell’exoterismo dominante, nemmeno in pieno Medio Evo, godesse nella Cristianità – né potesse permettersi - di quella diffusa, ampia anche se superficiale notorietà, riscontrabili, per analoghe forme, in altre tradizioni; sia abraminiche, quali la Cabala nell’Ebraismo o il Tasawwuf nell’Islam, sia di differenti origini, quali le corrispondenti articolazioni dell’Induismo o del Buddismo. Si è pertanto sviluppata, ai margini della Chiesa ufficiale e sotto la “copertura” di ordini religiosi, terzi ordini, ordini cavallereschi, confraternite artigiane e caritatevoli, quella che è stata anche denominata la <<Chiesa interiore>>. I Padri, Ireneo, Tertulliano, Origene e Clemente d’Alessandria[141](il più esplicito), parlano dell’esoterismo cristiano come di un insegnamento - la trasmissione avveniva da maestro a discepolo e comportava una gerarchia diversa da quella espressa nella successione dei vescovi - avente per obiettivo la conoscenza integrale del reale; non un contrasto con la fede dunque ma l’approccio alla sua più intima natura. Sono queste le dottrine, che a volte, anche se il loro approfondimento e sviluppo variava molto da un tipo d’organizzazione all’altra, indebitamente diffuse e mal comprese, hanno potuto apparire, nel corso della storia, eretiche e con ben noti, disastrosi contraccolpi.

Per questa via, si giunge, infine, alla questione della lingua: Gesù parlava aramaico quando si rivolgeva alle folle, ebraico con i dottori e, soprattutto, quando pregava (Shemà Israel…)[142]ed allorché leggeva le Scritture.[143] Pertanto questa è la lingua sacra del Cristianesimo ma, ad essa, devesi aggiungere l’aramaico[144]mentre in 1Cor. 16.22 (Maran atha, il Signore è venuto) nella forma Marana tha (Vieni, Signore!) faceva parte, alla Consacrazione, della liturgia della Chiesa primitiva come testimonia la Didaché.[145] Inoltre, l’aramaico è considerato lingua sacra anche dall’Ebraismo essendo così scritti alcuni brani del canone: Esd. 4.8 a 6.18, Dn. 2.4 a 7.28, Ger. 10.11. Invece, solo per un libro come l’Apocalisse, che appare, direttamente, redatto in greco, una specifica funzione sacrale può essere data anche a quella lingua.

È evidente quindi perché, investigando nei rituali massonici, i riferimenti all’ebraico ricorrano con tanta frequenza e pregnanza.

Facendo chiarezza sulle origini, si riescono, soprattutto, a collocare e comprendere due delle peculiarità cristiane particolarmente salienti:

L’ossessivo antigiudaismo, matrice del futuro antisemitismo, che pertanto ci appare quale necessità intrinseca alla sua stessa struttura teologica ovvero alla veste exoterica con la quale, per i più, la Chiesa s’identifica.

L’altrettanto ossessiva fobia per la gnosi, scaturita dalla volontà di calare un velo impenetrabile sulla ben gnostica operazione di teurgia, che permise la sintesi paolina tra l’originario Giudeo-cristianesimo con le tradizioni delle nazioni (i goim) e consentì di salvare il mondo antico da una deriva antitradizionale, nella quale già c’erano le premesse di un prematuro sviluppo di ciò che, i tempi successivi hanno reso possibile con l’avvento del mondo moderno.

Nonostante, un artifizio di “sipari” pressoché perfetto, gli “affioramenti”, a tutti livelli, sono moltissimi; altre a quelli finora analizzati, posso citarne alcuni altri non sempre noti.      

Sulla corona del SRI era scritto;[146]a destra, Rex Salomon, a sinistra, Per me reges regnant. L’Imperatore, dal quale tutti i re traevano potere, era quindi identificato a Salomone. Questo stava pertanto a significare come gli Imperatori fossero, exotericamente, da considerare successori di Cesare mentre, da un punto di vista sacrale, esoterico, lo erano del figlio di David, quali guide del Verus Israel ossia della Res Publica Christiana. In questo modo, si spiega anche, come in Dante, si riscontri un’apparente contraddizione dei corretti rapporti gerarchici e tradizionali, quand’egli, affermando che il potere imperiale proviene direttamente da Dio, nega la sottomissione di questi al Papa. Anche le cinque vocali AEIOU, una divisa del SRI, possono, attraverso alcune combinazioni, come, in altri casi, avviene che parole latine abbiano nascosto parole ebraiche,[147]rivelare insospettati significati: IA (Jah), IEOUA (Jehovah). Non a caso, l’identificazione, del Re-Profeta con l’Imperatore, trova conferma nell’abbinamento di Jah con il primo dei due personaggi, nel rituale del settimo ed ultimo grado dell’ordinamento massonico operativo. Del resto, G. Scholem[148]riporta come, Abraham ben Samuel Abulafia ebbe a scrivere d’aver incontrato, in Italia (negli anni 1279 / 1291), all’epoca di Dante, alcuni esoteristi cristiani, i quali mostravano d’avere in perfetta conoscenza i metodi cabalistici necessari per interpretare le Scritture. Non è, quindi, il caso di chiedersi quale rabbi abbia potuto mai contattare un cristiano, quando dagli scritti di quest’ultimo traspaia una qualche conoscenza cabalistica; essa doveva quindi far parte delle dottrine esoteriche e, pertanto, la cabalistica cristiana del Rinascimento è dunque più un venire in luce (tutto si manifesta alla fine del ciclo) che una vera innovazione. A questo punto, stanti le conoscenze esoteriche di Dante, perché non pensare che esse facessero parte, in proprio, delle tradizioni giudeo-cristiane e non fossero state perciò trasmesse dall’Islam come, dopo Asin Palacios (1919),[149]si tende invece a credere? Secondo questa diversa angolazione, quanto, con tali dottrine, nell’essenza, appare coincidere, è invece più giusto ritenerlo espressione di un comune patrimonio, proprio a ragione di quel rapporto che lega la nascita dello stesso Islam al prolungato persistere del Giudeo-cristianesimo anche dopo la creazione della <<grande Chiesa>>. Diverso è il discorso della sostanza, della forma insomma che, tali conoscenze prendono nella Commedia; per esse, notevoli sono le concordanze con i possibili modelli arabi.[150] Inoltre, nelle proporzioni delle cattedrali, si ripresentano e s’evidenziano rapporti caratteristici del valore numerico di alcuni nomi divini ebraici: El, Adonai, Shadday, Jehovah. In particolare, ciò avviene negli edifici cistercensi e, di quest’ordine, è nota la stretta relazione con i Templari: S. Bernardo era, appunto, un cistercense.[151] Riguardo ai monaci cavalieri, essi, dagli atti del processo loro intentato, forniscono un’ulteriore testimonianza sulla natura dell’esoterismo cristiano. Senza potermi dilungare sulla situazione di questo all’interno dell’Ordine - articolato secondo una struttura che prevedeva una cerchia interna di singolare assonanza qumrânica - si può intuire come l’accedervi risultasse limitato[152]e che i casi, in cui sembra fosse richiesto uno strano rifiuto del Crocefisso (non della Croce), facessero forse parte dei saggi di valutazione dei possibili candidati. I motivi dottrinari giustificativi, si possono individuare in una cristologia di tipo docetista e di conseguenza nell’esaltazione della Croce come puro simbolo dell’estensione cosmica della Redenzione: a conferma la caratteristica, triplice inquadratura[153]di essa in alcuni graffiti trovati nelle celle dove i cavalieri furono incarcerati. Tutto questo è molto probabile, soprattutto perché, perfettamente, si cala nella complessiva visione giudeo-cristiana originaria, qual è oggi ricostruibile e della quale, appunto, l’esoterismo è stato, in larga misura, il proseguimento. Conferma inoltre, come la teologia della croce, del primitivo nucleo cristiano, quello della Chiesa[154] di Gerusalemme, la Chiesa di Giacomo, la Chiesa degli apostoli che conobbero il Signore, fosse imperniata sul Mysterium Crucis della Crux Gloriæ e non prendesse in considerazione lo strumento di supplizio.[155]

Ritengo in fine che, quest’occultamento delle origini, sempre inestricabilmente legato ad un parallelo momento dell’efficere,[156]resti, per tanti versi, ancora inesplorato mentre, per altri, intuitiva ce n’appaia l’inelusibile, intrinseca necessità. Inoltre, esso, nelle tre religioni abraminiche,[157]ancorché in forme e misure differenti, è tutt’altro che limitato al solo Cristianesimo;[158]sicché, nell’Ebraismo, analoghi processi sottendono al lungo periodo della costituzione del canone ed alla complessa elaborazione dell’esegesi talmudica, fino all’affermarsi di quella che è, oggi, la prevalente confessione giudaica e rabbanita. Epifenomeni sommersi[159]s’evidenziano, anche per questa fattispecie, in ciò che, attraverso un attento scandaglio, può scaturire dal deposito dottrinario e rituale, in parte custodito, dall’ultimo epigono della tradizione iniziatica occidentale.[160]

 

 

 


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NOTE


[1] È naturalmente anche questa un’approssimazione, stante la variabilità vocalica delle lingue semitiche.

[2] Per l’uso di questo termine, deve farsi riferimento a quanto ho scritto in prefazione.

[3] QaBâLâH, è un derivato del verbo leqabbelet e della Ö QBL, che significa ricevere, accogliere. Pertanto, Cabala significa lett. ricezione e lato sensu tradizione, è l’aspetto interno, puramente dottrinario dell’Ebraismo: cfr. supra, n. 6.

[4] PV

[5] In RG.5: 64.800 anni.

[6] In RG.5: 25.920, 19.440, 12.960, 6.480 anni.

[7] Ibidem: 12.960 anni.

[8] Ibid.: 25.920 anni.

[9] Ibid.: ognuna, 2.160 anni.

[10] Sono i Mahâbûtas o “grandi elementi” quelli che determinano la relazione: chiaramente, il Diluvio (circa –11.000) è correlato all’acqua, invece, la finis mundi lo sarà col fuoco: …dies irae dies illa, testet David cum Sibilla… lo testimoniano cioè l’Ebraismo e la tradizione classica. In fatto di terminologia si può precisare che, in quest’ultima il Grande Anno è il Magnus Annus Platonis mentre per i caldei il Manvantara, s’identifica al regno di Xisuthros, la cui durata è appunto di 64.800 anni.

[11] La coscienza di quest’unità di fondo di tutte le forme tradizionali, adombrata dalla comunità di lingua poi distrutta dagli eventi miticamente rappresentati dalla costruzione della Torre di Babele (Gen.11.4), giunge sino all’inizio del Kaly Yuga: -4.480.

[12] Quanto accadde è, in qualche modo, accennato da Platone (Tim.24e,25d, Criti.108e) sebbene, nel suo racconto, la guerra tra Atene e l’Atlantide possa sembrare precedere la catastrofe. Inoltre, agli stessi fatti, sono da ricondurre le narrazioni, presenti in tutti i miti indeuropei (e non), relative ai bellicosi rapporti con i Giganti. Quanto alla datazione indicata, è significativo che, in Scandinavia, sia frequente il reperimento di incisioni rappresentanti piovre e con questo ottopode spesso, in certe culture, si è voluta indicare la stazione zodiacale da noi conosciuta come Cancro [a]: ebbene,  il punto vernale sostò in detto asterismo negli anni intercorrenti tra il  -8700 ed il  -6540.

[13] L’Africa è presente a più titoli per questo retaggio: ad es., secondo alcune versioni le Esperidi (da espera, sera)  vivevano sul Mt. Atlante in Mauritania ma anche nell’Esperia etiopica ovvero l’Eritrea: da ereuthō, arrossisco e lo stesso abissino, abishà è rosso.

[14] Chiarissimo è il racconto iranico dell’abbandono dell’Airyanem Væjah, le berceau ou germe des Aryens, per le grandi tempeste di neve che lo investirono. Cfr. HC.

[15] Il mare è sconosciuto in indo-europeo; significativi i teonimi ad esso relativi: Neptunus,  in origine, presiede a fiumi e fonti e, soltanto in seguito, per assimilazione a Poseidōn, estende al mare il suo dominio. Poseidōn, dapprima legato anch’egli alla terra, ha origini più complesse analizzate infra n. 106.

[16] Anche il commercio in indo-europeo è un’attività senza nome, priva di una specificità che lo distingua dall’acquisto e la vendita; merx non ha etimi in lat. che sono invece reperibili nell’ebr. mehyr, prezzo e nell’accad. makurru, bene, possesso, merce. Cfr. S.

[17] Virgilio, Buc. egl. IV, per tutto questo cfr. CS.

[18] 21.1

[19] Il matrimonio indoeuropeo era di natura endogamica essendo caratterizzato dall’unione di cugini incrociati, pertanto le specificità psichiche e fisiche di un clan erano fortemente delineate e mantenute nel tempo. Cfr. CB, vol.I. Un esempio estremo ne è stato lo xvêdhvaghdas ovvero unione tra consanguinei immediati, considerato segno di grande religiosità dal mazdeismo iranico ma motivo di mai sopito scandalo per greci e romani.

[20] Per pervenire alla determinazione del tipo si può disporre dei ritrovamenti antropologici e della testimonianza delle fonti letterarie e figurative; <<cette seconde source a l’avantage de ne pas dépendre d’une hypothèse préalable. Or, ces témoignages concordante pour désigner la race nordique, sinon comme celle de l’ensemble du peuple, au moins comme celle de sa couche supérieure.>>: H.  Naturalmente qui ci si riferisce ad una fase avanzata ma non recente del movimento della razza dalla sede originaria.

[21] Cfr. la definizione di “sangue blu” per caratterizzare gli aristocratici, i quali - a ragione delle vicende storiche relative all’origine delle moderne nazioni europee - sono spesso de souche germanique.

[22] Riepilogando, si può affermare, in base a tutta una serie di dati convergenti, che la razza rossa si doveva presentare d’aspetto atletico, d’altezza notevole (l’uomo di Crô-Magnon), brachicefala-acrocefala con capelli rossi, gli occhi castano-dorati, naso aquilino, pelle arrossata e delicata, lentiggini.

[23] Cfr. supra n. 23

[24] Non è un caso che, nella geografia mazdaica, il continente (iran. keshvar) occidentale, si chiami Arezai, quindi singolarmente eguale al vocabolo ebr. per terra: arez.

[25] Le altre eccezioni, numericamente irrilevanti, sono i Parsi (Zoroastriani) dell’India ed i Kafiri dell’Afganistan.

[26] I riferimenti etimologici sono tratti dallo HL.

[27] RG.2, p.56.

[28]FV: opera nella quale si dimostra che lo svolgersi dell’intera epopea omerica è avvenuto nell’area baltica e nell’Atlantico settentrionale, ben prima quindi che gli Achei giungessero nelle sedi storiche dove dettero origine, all’inizio del nuovo insediamento, a quella che è nota come cultura micenea.

[29] Vd. supra, p. 7, n. 29. Di questo una traccia evidente è l’inizio del giorno al tramonto sia per l’Ebraismo, sia per l’Islam m’anche – in certi casi pure oggi, es. la Messa vespertina prefestiva – per il Cristianesimo.

[30] HL

[31] FdO, p. X. Per metafora tratta dal senso d’oscurità connesso al tramonto; stessa origine può essere attribuita a EreboV - cfr. anche l’acc. erebu, tramonto.

[32] Cfr. supra p. 12, n. 65

[33] Libro di Enoc, 106. 1-4. Il Libro di Enoc etiopico - qui citato - è posto, in quel canone, prima del Libro di Giobbe: quindi, significativamente, tra i Libri Sapienziali. Riguardo all’aspetto di Noè, si deve considerare la frequenza dello pseudo-albinismo neonatale nei rossi e – tratto indicativo della monogenesi della specie umana- anche presso i neri aborigeni australiani.

[34] Ibidem, 106.6

[35] Ibid. 106. 13-17.

[36] È la cosiddetta età biblica: secondo tradizione, c’è, nello svolgersi del ciclo, un progressivo accorciarsi della durata della vita

[37] Il termine ebraico significa, alla lettera, i caduti ma in figurative sense è utilizzato anche per indicare i morti.

[38] Gen. 6. 1-4. È da notare come il ns. eroe derivi da ērōs da cfr. quindi con il predetto skr. hàri, blond  (MMW). È però curioso che esso converga con l’ambito camito-semitico dove, infatti, abbiamo: eg. wrr, great, important; wr, prince (S); ebr. hor, the noble, free e, addirittura, be or grow white, pale (HL). Il termine invece usato nel testo biblico è gaborym, strong, valiant man (HL).

[39] 32.8; per tutto questo cfr. HS, l’articolo di Ronald S. Hendel.

[40] Noto qui una particolarità interessante; la nascita li qualifica – per antonomasia – quali figli di donna, infatti, in Enoc, 15. 18-20, espressamente si dice che <<…questi spiriti si rivolteranno contro i figli degli uomini e contro le donne perché essi sono nati da loro>>. C’è nella contrapposizione una delle motivazioni del titolo di Figlio dell’Uomo attribuito al Cristo.

[41] Quest’aspetto non tanto di Principio Primo quanto più limitato d’Angelo Etnarca (il Dio geloso) esiste sicuramente nel testo biblico e nel vissuto d’Israele ma non esclude in alcun modo l’altro, quello realmente universale.

[42] È, per l’esattezza, il concetto islamico di hanîf <<…the word means the original, innate, primitive religion in contrast to the particular which arose later, polytheism on the one hand and the in part corrupt religions …>> ; (FEI)

[43] nôha, la Ö nh esprime calma, compostezza, tranquillità ma anche preminenza, distinzione.

[44] Ad essa ed al suo simbolo (the Rainbow) fa espresso riferimento uno degli Higher Degrees che – collegati alla United Grand Lodge of England – sono più direttamente associati alla Mark Grand Lodge; il Royal Ark Mariner, da non confondere ovviamente con l’assonante Royal Arch. I colori dei regalia sono appunto quelli dell’arcobaleno mentre the apron’s bib ha la forma a semicerchio, comune al fenomeno meteorologico ed allo scafo dell’Arca. Non è, in special modo, significativo per questo studio però <<… the most interesting features are the use of a stone, instead of the Volume of the Sacred Law, on which to take the Obligation. The reason for this is explained in the ritual, but it may be that we have  here  a  survival  of  the  old custom of swearing on a stone altar, which was the earliest form of a binding oath>>; da  W

[45] In questa fattispecie per Cam prevale la corrispondenza linguistica su quella razziale: è il filum egizio.

[46] Gen. 9. 24-27; profezia totalmente avveratasi come da riscontro storico anche per quanto riguarda Cam (in questo caso la razza nera).

[47] The Book of Enoch, London, s.d.

[48] RG.2, p.37.

[49] Ez. 32.27.

[50] Basti pensare al ruolo di baluardo tradizionale avuto dall’Ordine del Tempio ed alla funzione del Ghibellinismo.

[51] È interessante constatare che anche in cinese il fonema hóng dà luogo ad ambiti semantici tutti significativi in ordine alle relazioni che ho finora indicato: *rosso, rivoluzionario [accezione scontata e del tutto moderna ma, in questo contesto, non priva di senso e non solo in cinese] **arcobaleno, ***grande, magnifico, ****inondazione. Del resto lo start point della tradizione estremo orientale, quasi esattamente corrisponde a quello della cronologia ebraica: -3.468 (Cina) a fronte di –3.760 (Ebraismo): cfr. infra, n. 113. Molto indicativo è anche il nome, che, dato dai Greci ad un importante popolo semitico, fosse quello di Fenici; da  phoinix ®phoinissa,  roux, fauve, rouge sombre (Ch), chiamati però Sidonî [Tzidon] dalla Bibbia (Gn. 10.15-19, 49.3). Sidôn, Sidōn, oggi Şaydā, era a ancient Phoenician city, on coast N. of Tyre (HL) ma Tzidon o Tzidn è formata dal loan-word from Egypt Tzy (ZY ¬ egz. t’aī), ship e da Dn, DaN, che è il nome di una delle tribù settentrionali d’Israele. Tutte queste associazioni dell’etnonimo, con una delle componenti del popolo ebraico, da mettere in più stretta relazione coi “popoli del mare” (cfr. infra, Conclusioni), sono abbastanza curiose; tant’è che, a conferma, Sidoni potrebbe essere inteso come: i Danai, quelli delle navi. A questo punto, Poseidōn, letto Po-seidōn, ci pone qualche problema. In origine, designava il dio che presiedeva alla terra, come è confermato dall’epiteto omerico di Enosichthōn. Tale attributo è attestato dalla giustapposizione uscita da un vocativo Poteida, dove sono presenti Potei ¬ posis (pater familias)  e l’antico nome della terra Da, Das, che ritroviamo incluso nella sua controparte femminile Dēmētēr.  In seguito, analogo abbinamento di posis,  si verifica invece con un etnonimo, Sidoni, [Tzidon], che ha assimilato un termine non indoeuropeo [zy, nave] e si presenta, prima nel mic. Posidaijo, poi nel classico Poseidōn, che potremmo, adesso, legittimamente, interpretare come “Signore dei Danai” o anche come “Signore dei popoli del mare”. La risposta ad un interrogativo, ne solleva però un altro: mentre i Romani avevano, con certezza, una mentalità continentale, in ordine con l’ “ideologia” i.e. (cfr. supra n. 70), gli Achei erano già navigatori prima di scendere nel Mediterraneo (FV) e quindi se Posidone è nome tardivo, qual era quello del loro dio del mare? Direi che, come risposta, un aiuto possa fornirlo ancora Omero (Il. 1. 265 e 403-404) con, non a caso (cfr. infra n. 139), il nome di un gigante: Briareōs e, neppure qui a caso (cfr. note nn. 25, 67, 68, 83, 108, 136), eponimo delle atlantiche, famose colonne: le Briareō stēlai, prima denominazione di quelle che, poi, furono intitolate a Ercole; più tarda variante onomastica dello stesso dio.  Egli era però detto anche Aigaios (inoltre Aigai, Ege era la sede di Posidone; Od. 5. 381) ed i due appellativi, nell’area scandinava, hanno avuto un seguito norreno in Brimir e Ægir. Il primo era, come il personaggio greco, un gigante (per tutta questa famiglia di parole vd. in skr. laÖ brih, to be thick, grow great or strong, increase) il secondo, il dio del mare. Ma c’è di più: Aigaios e Aigai, derivano da aix, capra: e non è la chimerica, anfibia figura della capra-pesce, in cui i due elementi terra ed acqua, s’uniscono il simbolo del Capricorno [g]? Simbolo quindi, nel quale, ritrovandosi sia il Poteida, sia il Briareōs,  poi divenuto Poseidōn,  può ragionevolmente, al momento del passaggio ma anche della maggior confusione tra una funzione e l’altra, aver dato luogo al soprannome di Egeo. Su questa fase e sullo specifico ruolo dell’asterismo, sarebbero da farsi ulteriori considerazioni ma io ritengo opportuno lasciarle ad un più preciso studio.

[52] Da non confondere con il 7° Avatâra di Vishnu, cioè Râma-chandra, l’eroe del Râmayana, il marito di Sita, la cui epopea, popolarissima in India, rispecchia eventi relativamente più recenti e connessi all’incontro degli Aryias con genti meridionali, appartenenti, in prevalenza, alla razza nera.

[53] Il gigantesco Atlante era il capo dei Titani nella guerra contro Zeus. La vittoria di quest’ultimo terminò con un compromesso: anche Posidone prese posto tra gli immortali: mitico riflesso della fusione delle due razze.

[54] Considerato l’etimo – ingenuus, qui prend naissance dans… (M) - l’aggettivazione sarebbe superflua ed è proprio l’accezione contemporanea del sostantivo, significativa di quale fosse l’ingenua indoles degli indoeuropei intesa come l’unica <<digne d’un homme libre, franc …>>(M).

[55] L’età del bronzo, che è una fase prettamente nordica, trova singolari riscontri tra il rosso, il furor bellico ed il bronzo: sv. röd, rosso; acc. urudû, bronzo; acc. rûbo (cfr. lat. rubeo), ira ignea, perfetto attributo di guerrieri ribelli: siamo lontani dal distacco e dalla misura che distinguevano la prisca forza della razza, che è ben resa dai noti versi del Petrarca: <<Virtù contro a furor prenderà l’armi / e fia il combatter corto che l’antico valor / negl’italici cor non è ancor morto>>. Nonostante la pia illusione del poeta, era giustamente questa una precisa caratteristica di Roma, dove la compostezza e l’ordine delle legioni vinceva, a dispetto degli influssi latitudinari, il disordinato slancio dei barbari. Ed altri e numerosi sono, infatti, i segni che, nell’Urbe, fanno mostra di una singolare fedeltà alle origini. 

[56] Il nome deriva da unaÖ var, contratto, accordo, da cui lato sensu: merce, prodotto (cfr. ingl. ware) e pertanto commercianti; segno evidente di un avvenuto snaturamento della nativa ingenuità.

[57] H, p.123

[58] S, vol. I, p. VIII. Di fatto, la cronologia ebraica rimonta ad un’epoca ben più antica di Abramo (inizio II mill. a. C.) ossia al già citato –3.760 (inizio del calendario ebr.) ed i rapporti con la tradizione iperborea, qui presi in considerazione, risalirebbero pertanto ad un’epoca precedente quella dall’accertata presenza in zona di Hittiti, Filistei, Persi, Medi e Mitanni. Cfr. infra Conclusioni

[59] RG.2, p. 50

[60] Storicamente, i Celti non sono segnalati (al massimo) prima del VI-VII  sec. A.C.

[61] Ibidem, p.39

[62] Supra  n.54

[63] CFV, p.123

[64] Ibidem, p.120

[65] Ibid.  p.124

[66] Ibid.  p.126

[67] PW.1, p.74

[68] RG.3, p.157

[69] HL

[70] Cfr. supra p. 5.

[71] MMW

[72] The southern hemisphere or pole …è invece chiamato Kumeru, dove ku- , è un …prefix implying deterioration, depreciation, deficiency…ed il luogo è  a region of the demons…(MMW).

[73] MMW

[74] RG.3, p.69

[75] Facendo rif. al predetto suffisso sú-  ne deriva un senso come   sorgente del bene.

[76] RG.3, ibidem

[77] Ibid. ma, per le implicazioni e sviluppi omerici, cfr. la precitata opera (FV) di Felice Vinci

[78] È in questo senso che si sviluppa tutta l’opera del S, che - per tanti versi meritevole (fosse solo per l’ampiezza e l’accuratezza del lavoro compiuto) operando principalmente sul lessico, sorvola sulle profonde differenze sintattico-grammaticali dei due gruppi, forza spesso la linguistica storica e trascinato dalla volontà di trovare riscontri alla propria tesi, svisa, anche in campo strettamente lessicale, molti confronti dichiarando una quantità di risultati di gran lunga, certo, superiore a realtà. Molto limitante ed assai datata appare anche una decisa impostazione evoluzionistico-positivista.  Resta, in ogni caso, un’importante opera di riferimento per trovare verifiche nell’attribuzione al substrato non-indoeuropeo di termini la cui congruenza culturale risulti estranea all’originario ēthos della stirpe.

[79] RG.2, p.142

[80] Ch

[81] Ad ulteriore dimostrazione, delle profonde influenze reciproche tra la tradizione iperborea e quella atlantidea, si può verificare che in skr. budha, saggezza è anche il nome del pianeta Mercurio mentre la madre del Buddha (il nome è in pâli) è stata Mâya-Dêvî, così budha equivale etim. al ger. Wotan, il quale è omonimo del centro-americano Wotan ovvero Quetzalcohuatl, le cui caratteristiche di serpente alato si ritrovano nel caduceo ermetico.

[82] RG.2, ibidem. Sembra qui opportuno fare presente che unaÖ HRM era già stata citata a p.4 a proposito di sacer/aparteness; in questa fattispecie, senza voler escludere, per la vicinanza fonetica, una relazione con quelle accezioni, è opportuno segnalare che, tra i due casi, esiste una differenza ortografica: ĥrm nel primo, hrm in questo.

[83] Cfr. supra  p. 8.

[84] All’origine della “confusione” ( incipit del Kaly Yuga, cfr. supra, n. 66) c’è la famosa Torre di Babele (torre ¬ turris ¬ tyrsis), termine pel quale si danno curiose e significative associazioni. Intanto, nonostante l’etimo, greco in prima istanza ma non i.e., forti sono gli indizi di una provenienza dall’Asia Minore. Cibele, detta la turrita per la corona che la cinge, venne a Roma da quell’area geografica sebbene, oggi, sia spesso presa a emblema dell’Italia. Ci sono poi - misteriosi per antonomasia e della stessa probabile origine nonché onomastici vettori della parola in argomento - gli Etruschi o Tyrrheni, tyrrēnoi. L'elemento più inquietante, caratteristico di questa specifica costruzione, è titanico  e  controiniziatico,  che è poi quello qui preso  in considerazione: in Gen.11.4 , la Torre è magdal da Ö GDL, crescere, diventare grandi m’anche nobile, illustre ed i Nephilim li conosciamo quali “famosi eroi”. Grandi sono i Giganti e non a caso in norr. þurs è il gigante. In seguito le torri et in urbe le case torri sono state, anche in Europa, strumento militare e segno di nobiltà. Sempre in ebraico la Ö ThÛR, ha il senso di cambiare, modificare, circuire m’anche tradurre; senso non estraneo ad un contesto geografico, teatro di un’importante giunzione di differenti correnti tradizionali. Ma, se si ritorna al tema dell’antica usurpazione operata dalla casta militare ai danni del potere spirituale, un riflesso è leggibile in tyrannos, un usurpatore appunto m'anche uno che cambia, modifica, confonde i ruoli: tyrenō, rimescolo, confondo insieme. Curiosa poi la quasi omofonia cinese tra tã, torre e tâ, rovinare, che trova riscontro nella XVI lama dei Tarocchi dove una torre rovina fulminata trascinando, nella sua caduta, un personaggio coronato: significativa punizione divina (la temuta mors repentina, procurata dal telum Iovis che qui esce da un Sol Justitiæ) dello Kshatrya ribelle. In Gen.36.43 c’è anche un Magdial , capo di Edom, il regno nemico per eccellenza. Infine gli Yezidi hanno le Torri del Diavolo dove, pare – vox populi - si tengano strani consessi.

[85] RG.2, ibid. p.146

[86] Ibidem, p.153

[87] Ibid.

[88] Ibid.

[89] Ad esempio, nell’Induismo le concordanze vanno dallo Shivaismo ai Tantra

[90] Siegmund Freud antepose come motto alla sua Traumdeutung l’esplicita affermazione: <<Si flectere nequeo superos, acheronta movebo>>.

[91] Le altre corrispondenze temperamentali sono: r. rossa / biliosa, r. nera / sanguigna, r. gialla / nervosa, r. hamsa / equilibrata.

[92] Una delle caratteristiche degli dei, segno del loro distacco dalle cose terrene, era, per gli antichi, la mancanza del battito delle palpebre ed una certa rassomiglianza ad essa fu ravvisata nella qualità dell’acies germanica, cosa che molto impressionò.

[93] In India, questo nucleo arcaico è individuabile nella parte che potremmo definire più propriamente vedica della tradizione mentre i Tantra sono sicuramente una apporto acquisito dalle civiltà indigene del sub-continente aventi, come principale riferimento, la razza nera. Cfr. E.1

[94] Fine del primo Grande Anno.

[95] Le sette modalità sottili del nostro mondo che, nel loro insieme, costituiscono la terra totale. Sono i sette dvîpas indù, i keshvar iranici (cfr. supra, n.79), le sette terre della Cabala e dell’Islam ed in Dante, i sette ripiani della montagna del Purgatorio.

[96] HC, p.42

[97] Ibidem, p. 83, n.36

[98] È chiaro, come, in una condizione tanto alterata, le tappe della realizzazione spirituale, s’allontanino in proporzione.

[99] Enoc, Libro dei Vigilanti, VII.1: <<E si presero per loro [i Figli di Dio] mogli ed ognuno se ne scelse una ….ed insegnarono loro incantesimi e magie…>>. Ibidem XVI.3: <<…Avete appreso un segreto abominevole e, nella durezza del vostro cuore, lo avete raccontato alle donne…>>. Non si deve poi dimenticare che, i Nephilim erano dei mislead  Kshatryas e lo studio delle scienze come il loro esercizio sono appannaggio di tale classe in ogni società tradizionale.

[100] Cfr. RG.4, ch. XXVI

[101] ME, p. 66

[102] Tutta questa terminologia non sembra, in via fonetica e concettuale, lontana dal td. der Bursch, Mitglied einer solchen Gemeinschaft:… Soldaten, Handwerker.. (K)... era, infatti, il nome relativo dell’apprendista in senso compagnonico. L’etimo (dal lt. bursa ® it. borsa) appare però basarsi sulla metafora dello zaino, che caratterizzava questi giovani, itineranti lungo i loro tours di formazione. Il vocabolo lt. proviene da Byrsa, cuoio, pelle rasata, otre, il quale scaturisce da un’ignota voce semitica testimoniata dall’acc. burschu, das Fell mit ausgezupftem Haar (S), singolarmente prossimo al vocabolo td. da cui siamo partiti. 

157 Ibidem, p. 65

158 Cfr. supra p. 22: I “transiti” da un keshwar all’altro.

159 Cfr. supra p. 14.

[105] S

[106] M

[107] P.F.103.3

[108] Libro dei Giubilei, V.28; da una segnalazione dall’Ing.F.Vinci, nel contesto della quale, egli ha anche messo in evidenza come Dioniso (Dio–Niso) sia il Dio del Mt. Nisa ed il suo omologo Osiride sia Dio del Mt. Ba-Ckaw (cfr. l’assonanza con Bacco). Inoltre, nell’epopea di Gilgamesh – mesopotamico equivalente di Noè - Up-Napishtim approda, dopo il diluvio, sul Mt. Nisir. Tutti rapporti non sempre trasparenti ma che confermano il legame dell’ebbrezza col mondo post-diluviano.

[109] Corano.II.219: <<Ti domanderanno ancora del vino e del maysir. Rispondi: <C’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose ma il peccato è più grande del vantaggio>>>. Sempre al vino, può alludersi in positivo, intendendolo però in senso traslato; Cor.LII.23: <<E si passeranno calici di un vino che non farà nascer discorsi sciocchi o eccitazion di peccato.>> come in Proverbi, 9.5-6 dov’è la Sapienza che parla: <<Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete: andate diritti per la via dell’intelligenza.>>

[110] Tb.4.15: <<…non bere vino fino all’ebbrezza e non avere per compagna del tuo viaggio l’ubriachezza.>>. Solo in occasione di Purim  c’è indulgenza verso chi usi il vino per dare un tono d’allegra socievolezza ai festeggiamenti.

[111] Ovvero “semitizzati” secondo la profezia di Noè in Gen. 9.27: <<…Dio dilati Jafet e questi dimori nelle tende di Sem…>>

[112] Ch

[113] Designazione che è sempre segno di grande antichità

[114] Gv.15.1s

[115] Mc. 14.23-25

[116] Cfr.KK e BdR

[117] Indubbiamente, nei tempi più antichi, c’era una maggior tolleranza per questi culti, Gs.24.26: <<poi Giosuè …prese una gran pietra e la rizzò là, sotto il terebinto, che è nel santuario del Signore>>. Cfr. supra p.10 e n.51e 52.

[118] Ad esempio, la funzione della vacca rossa è indispensabile nei riti di purificazione ed ancor oggi ci sono notizie che indicano dei tentativi di ripristinarne il sacrificio. Nonostante questi casi “letterali” ben precisi, quali anche gli olocausti, resta però il fatto che, l’elemento dirompente, caratteristico del dionisismo/shivaismo, è sempre stato alieno allo spirito ebraico. Cfr. inoltre 1Sam.11.7. Ritengo però che, il ruolo del toro – come protagonista dei miti dionisiaci e quale oggetto del sacrificio – sia relativamente recente, ricollegandosi alla fase di precessionaria dominanza vernale dell’omonimo asterismo (-4380/-2220). Fase grandemente significativa, comprendendo l’inizio del Kaly Yuga e quello del calendario ebraico. A riprova: l’apparizione più tarda del capro sacrificale, connessa all’ingresso del momento equinoziale nell’Aries [^].

[119] Precedentemente al –1300 circa.

[120] Cfr. E.2, opera quasi unica nel suo genere per profondità e ricchezza di riferimenti.

[121] 2.15-16

[122] 1Cor.6.17

[123] Cfr. supra p. 20 e n.143.

[124]L’ambivalenza è dovuta alla problematica vocalizzazione nelle scritture semitiche

[125] Cfr. supra, n.173.

[126] Dt.18.6-7.

[127] Del resto, è opinione di molti che, l’etimo di Eurwph sia da ricercare nel già citato (cfr. supra, n. 86) ereb, ‘rb, occidente. Significativo, che eurōs, ruggine, ci rimandi di nuovo al rosso o, meglio, al fulvo. Inoltre, Europa era, con Cadmo, figlia di Agenore Fenicio e, per “fenicio”, già n’abbiamo verificata (cfr. supra, n. 106) la relazione con rosso.

[128] Basti pensare all’importanza avuta dalle nostre repubbliche marinare.

[129] Da intendere in senso storico, indipendentemente – è ovvio – dalla bizzarra configurazione che esso, sempre più, va  oggi assumendo.

[130] Cfr. PW.1 e 2

[131] GG

[132] Cfr. supra, p. 16, n. 106

[133] -926

[134] Nonostante la struttura patriarcale di quella società, l’Ebraismo si trasmette per via femminile.

[135] HC1, t. I, p. 101. Il superiore grado di realtà, d’attribuire al risultato della “costruzione”, rispetto a quello attinente al mero fatto storico, non è accettato, sia dagli agnostici, sia da troppi teologi; irriducibili apologisti di una linea di pensiero (e comportamenti: vd. l’École Biblique di Gerusalemme), per la quale i racconti della storia sacra (vetero e neotestamentari) sono non solo “profeticamente” veri ma rigorosamente autentici persino nei loro particolari. Tutto questo appartiene all’ampia problematica delle relazioni esistenti tra verità e autenticità. Cfr. infra n. 198 e vd. anche il mio studio Vero o autentico?

[136] Ho analizzato, anche nelle sue complesse motivazioni interne, detto aspetto della storia del Cristianesimo nel mio studio Efficere Deos. Lo stesso, presente lavoro procede da un’impostazione concettuale, che prevede una continua interazione tra eventi svoltisi in uno spazio-tempo fisico e quantitativo ma che, in realtà, hanno radice e spiegazione in una corrispondente ma sovrapposta modalità qualitativa, permanente e gerarchizzata, nella quale la storia del mondo visibile è imitazione o proiezione di eventi dell’anima; luogo dunque, tale mundus subtilis, del privilegiato teatro d’ogni ierostoria. È per questo che, certo letteralismo teologico, con il suo inevitabile corollario di infantili images d’Épinal,  confondendo la sostanza formale con l’essenza che pone in essere il cosmo, ha infine permesso che si producesse, quale logica degenerazione, l’elementare semplicismo della rationalité voltairienne nella quale, ogni possibilità di dare alla parola spirito un ruolo diverso dalla mera esornatività letteraria, inesorabilmente si spenge.

[137] La giustificazione agostiniana è in via meramente negativa, l’altra, quella più strettamente dottrinale e non di parte è che i due tempi del messianismo cristiano ricavano un reale, obiettivo spazio e necessità tradizionale alla presenza, dopo la Rivelazione cristiana (ed islamica), dell’Ebraismo propriamente detto.

[138] Enarr. in Ps., ibid.

[139] Serm., 201.3

[140] MS, p. 120

[141] Tra l’altro, in un suo testo, trasmesso da Eusebio, egli afferma che, dopo la Resurrezione, Gesù donò la gnosi a Giacomo, Pietro e Giovanni. I Padri inoltre, rivelano, attraverso alcune allusioni, che confermano l’esistenza di una non palese tradizione orale, la conoscenza della mistica ebraica come, ad esempio, avviene per S. Giovanni nell’Apocalisse a proposito del Trono di Dio (la Merkaba), portato dai quattro animali.

[142] Mc. 12. 29-30

[143] Molti passi evangelici, relativi alla persona di Gesù, sono introdotti dall’incipit <<In illo tempore…>>; più sopra (p. 16), ho pur io utilizzato tale formula nella sua versione classica (senza lo in, superfluo in quel compl.) per definire - come avviene anche presso altri autori - un tempo nel quale gli eventi narrati mostrino o la presenza di un attore non umano oppure per imporre ad essi un’ermeneutica profetica che li innalzi ad un grado di realtà, trascendente toto cælo quello materiale della storia comunemente intesa. Tra l’altro, manifestando i Vangeli, per troppi segni, l’impronta di un pensiero e forse anche di un Urtext, espresso secondo le modalità linguistiche semitiche (cfr. i lavori dell’Abbé Jean Carmignac), singolarmente, la versione latina renderebbe meglio del troppo concreto “originale” greco <<En ekeinō tō kairō ....>> : <<al momento opportuno…>>, la possibile, sottesa dizione ebraica <<HaYoH HaYaH...>>: <<il y avait une fois ….>>. Naturalmente, questo ci riconduce alle complesse relazioni tra verità e autenticità accennate alla n. 190.  

[144] Mt. 27.46, Mc. 5.41, 7.34, 15.34

[145] Cfr., JD,  pp. 392-393

[146] Da un disegno di Dürer, tracciato intorno al 1510.

[147] In genere, era usata la figura dell’acrostico come nel caso dell’AGLA, organizzazione fiamminga di operatori del libro (stampatori, librai…). Il suo significato sembra fosse <<Aïth Gadol Leolam Adonaï>>; Adonai sarà grande nell’eternità. Charbonneau-Lassay afferma che il tutto formava uno degli emblemi grafici del Cristo. Questo lavoro sulle parole è tipico della scienza delle lettere anche in altre lingue sacre; in Europa, tali procedimenti, nel Seicento, ebbero una fioritura abnorme, mossa però da scopi di solo estetismo letterario o d’elegante estrinsecazione devozionale. Ci si esprimeva giocando con i versi intessuti, gli anagrammi, i palindromi ed i calligrammi, fino alle forme più barocche ricavabili dalle innumerevoli possibilità dell’iconismo poetico. Ricchissimo e documentato lo studio di G. Pozzi, La parola dipinta, Adelphi, 1981. In questo contesto, si potrebbero citare anche altre manifestazioni “ebraiche” quali lo schema del Magen David (i due triangoli equilateri intrecciati) “occultato” sia nell’aquila dell’Impero, sia nel giglio dei Borboni e di Firenze (ma anche in altre figure araldiche) però, in questo caso, trattandosi fondamentalmente di un riferimento al rapporto tra macrocosmo e microcosmo esso, piuttosto che as symbol of Judaism, deve essere qui ricondotto al suo valore universale. 

[148] Sh1, p. 144 e nn. 33, 34 a p. 389

[149] In effetti, sulla stessa linea “islamica”, ci sono alcuni predecessori: 1780, S.J. Juan Andrès; 1839, Ozanam; 1842, Labitte; 1901, Blochet.

[150] Queste manifestazioni “formali”, di convergenze scaturite senz’altro dai rapporti intercorsi all’epoca delle crociate, si presentano, a volte, in modi che non possono non lasciare stupiti com’è il caso dei riferimenti sciiti (la ricorrenza delle morte di Alì scritta in caratteri neski) sulla veste di un personaggio miniato in un manoscritto (Le Cœur épris) destinato al Re Renato d’Angiò (XV sec.) o in quello della professione di fede (la shahada) leggibile, in caratteri cufici, nell’aureola di una Madonna (Museo Nazionale di Pisa), dipinta dall’enigmatico Gentile da Fabriano nel XV sec.

[151] È curioso che, nel XVIII sec., in Francia, quando molti erano nelle Logge gli ecclesiastici (l’esenzione dalla scomunica era considerata uno dei privilegi gallicani), i Cistercensi fossero particolarmente numerosi. Mancavano, invece, i Gesuiti; ordine controriformista.

[152] È anche la mediocrità dei maggiorenti del Tempio, quale traspare dai suddetti verbali degli interrogatori, che rafforza la possibilità dell’esistenza di una gerarchia occulta, vera detentrice delle conoscenze e, in ultima analisi, sede del fons honorum dei titolari visibili del governo dell’Ordine. Quanto alla sua predetta assonanza qumrânica, essa, a mio parere, riverbera particolari significati sul fatto che - nella Cristianità medievale - la più fedele e diretta discendenza dalle origini ovvero il filum iniziatico, avesse il suo centro non in una delle religiones contemplative ma proprio in un ordine guerresco di monaci cavalieri. Questo perché, la prima comunità cristiana, da identificare con la Chiesa gerosolimitana di Giacomo il Giusto, era l’espressione, anzi, l’élite degli “zelanti della Legge” ossia degli irriducibili sostenitori della legittimità dinastica e sommo-sacerdotale dei salomonici zadochiti, dei quali, conservava financo il calendario. S’identificava quindi con gli irriducibili avversari, sia del sacerdozio sadduceo e dei Farisei che lo sostenevano, sia dei re erodiani controllati da Roma. Tracce di quest’animus pugnace, anche se - di esse - altre, trasposte interpretazioni sono legittime, si ritrovano in Mt. 10. 34-35, 11. 12 e, più tardi, riecheggiano in Dante: Par. 20. 94-95.  Considerata infine la genesi dell’Islam, un’ulteriore conferma ci giunge dalla constatazione come, tale bellicosa militanza abbia, anche oggi, tanta, visibile parte in quella spiritualità. Sono però comprensibili, specie dopo le opzioni “buoniste” ed i “pentimenti” della Chiesa, le difficoltà anche psicologiche ad accettare che, nei suoi anni iniziali, questa fosse la vera natura del Cristianesimo.

[153] Allusione al dominio di Cristo nei tre mondi (per l’importanza di questa divisione ternaria, vd. il ns. Janua Inferni) e stesso riferimento simbolico presente nella da poco (decisione di Giovanni Paolo I) abolita Tiara.

[154] In genere non si riflette come, anche lo stesso termine Ekklēsia  provenga dal vb. ekkaleō (chiamo, convoco, nel senso di convoco per un’adunanza) e come questo sia corrispondente a, KoNeS (riunisco per un’assemblea); tant’è che, BeYTh KeNeSeTh, è la Sinagoga. La quale ha poi ricevuto, nella diaspora, questo nome dal tardo lt. eccl. Synagoga, a sua volta, derivato da syn-, insieme e ageirō, raccolgo, convoco. Corrispondono dunque entrambi i vocaboli, tanto pertinacemente contrapposti nei millenni, allo stesso significato comunitario e chiaramente derivando, nella prospettiva giudeo-cristiana, l’una dall’altra.

[155] Tutti i dati a nostra disposizione, stanno a confermare che, la Chiesa delle origini preferisse riconoscersi in altri simboli, quali il pesce (anche qui l’importanza di un acrostico: Ichthys, I.X.TH.Y.S.) o il crisma. Dopo Costantino, compare la croce nella forma commissa ovvero quale lettera tau [T] maiuscola ma l’immagine del Crocefisso, sempre assente presso i monofisiti (tipiche le croci copte), appartiene soltanto agli ultimi anni del IV sec. Di norma però, non è mostrato il Christus dolens ma un Cristo sereno; in ogni caso, è in Oriente che la rappresentazione del dolore risulta attenuata con la riproduzione di un corpo non più vivente. Il realismo, in Europa, con il passare dei secoli, si fa però sempre più crudo, finché il corpo viene spogliato anche del colobium, lunga tunica priva di maniche e caratteristico dell’età romanica mentre tende a prevalere il mostrarlo coperto dal solo perizoma ed in preda a tutti gli strazi della Passione. L’intensificarsi di questa tendenza, appare andare, di pari passo, con il farsi dominante della componente sentimentale e dell’imporsi, nell’osservanza, di un’attitudine puramente devozionale, sin che si giunge all’irrompere di orientamenti strettamente sociali e, in tempi recenti, al crescente spazio dedicato ad un elemento spettacolare contesto di immense folle la cui portata è ancor tutta da valutare.

[156] Cfr. supra, n. 191.

[157] Parimenti nell’Islam: nell’epoca successiva alla morte di Muhammad ovvero negli anni dei Califfi Ben Guidati, stesse considerazioni, s’impongono per quanto riguarda l’ordinamento e la definitiva fissazione del corpus coranico nonché la raccolta degli Hadith (i detti, gli aneddoti) del Profeta costituenti la Sunna. Tant’è che quest’ultima risulta la seconda fonte della Shari‘a ed è quella che ha fornito lo strumento per calare il dettato divino nelle molteplici tradizioni, costituenti poi il substrato delle nuove e numerose realtà di fede islamica. In particolare, molto evidenti risultano tali operazioni, in tutta l’area riconducibile alla Shi‘a.

[158] Ho usato il presente perché credere fatti obsoleti queste applicazioni della teurgia è, con certezza, un errore; infatti, pur se con ruolo minore e con un diverso livello di consapevolezza, esse, come lo testimoniano proclamazioni dogmatiche e santificazioni, sono sempre, giustamente, anch’oggi praticate e poi non rientra tutto questo in quella pienezza di potere, che definisce il comportamento della Chiesa nell’eone presente secondo la nota formula della potestas clavium? Cfr. Mt. 16.19, 18.1, 18.18.

[159] I.e.: l’occulta struttura delle due forme del Nome e, a riprova dell’imbarazzo che ancora genera quest’ordine di argomenti, basti riflettere su quant’è, di recente, accaduto per Jahbulon, a ragione dello “scandaloso” riferimento a Baal (cfr. supra, n. 21).

[160] La Massoneria, quale erede di numerose organizzazioni precedenti, tutte - nelle sue molte strutture - le conserva in germe per l’incombente transfert al <<novus mundus>> (Ap. 21). Dopo la loro scomparsa come forme autonome, sono ora esse vestigia viventi, non reliquie e suscettibili quindi anche d’attualizzarsi ove per questo se ne venisse a creare la possibilità. Tale condizione, nei rituali, è resa in simbolo dall’espressione che <<la Loggia di S. Giovanni [i.e. la M. stessa], si tiene nella Valle di Giosafat>>. Essa è, insomma, l’“Arca” della civiltà occidentale e porta pertanto il - solo apparentemente incongruo - titolo di <<Arte Reale>>; storicamente confermato da innumerevoli concrete militanze, socialmente superiori alla condizione artigianale, proprio perché, in virtù di questa non immediatamente percepibile funzione, le sue finalità iniziatiche superano la dimensione dei “piccoli misteri”. A conferma, si deve aggiungere che, dalla precedente analisi di quel completamento della Maestria che è the Royal Arch, evidenti v’appaiono anche gli elementi provenienti dall’antica, dimenticata Arte Sacerdotale.

 



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