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IL CONTE DI MIDDLESEX E LA LOGGIA INGLESE A FIRENZE
Transactions della Loggia A.Q.C. 2076 EC. Vol.LVIII
del Fr. John Heron Lepper.
Traduzione in italiano del Fr. Luca Ferruzzi.


PARTE PRIMA – LA LOGGIA

INTRODUZIONE

 

Negli ultimi settanta anni la Loggia inglese di Firenze ha dato adito a molte discussioni, la prova principale ma non conclusiva della propria esistenza essendo una magnifica e rara medaglia, non necessariamente massonica nel suo simbolismo, che riporta il nome del Conte di Middlesex come fondatore.

Non è mai esistito, tuttavia, alcun atto scritto attestante l’esistenza di quella Loggia come corpo massonico in qualsivoglia documento inglese fino alla pubblicazione dello Storia Bicentenaria della Gran Loggia d’Irlanda del 1925.[i] Passerò quindi a riassumere le informazioni colà contenute.

 

Nell’anno 1911 il Dottor Wilhelm Begemann pubblicò in Germania il suo Storia della Frammassoneria Irlandese, mai tradotto in inglese, dove, alla pagina 121 e seg. Egli si assunse l’onere di dimostrare di come il Conte di Middlesex fosse un massone irlandese.

 

Egli basò tali conclusioni sulla prova fornita da una pubblicazione apparsa a Norimberga nel 1736 la quale faceva riferimento ad una lettera di un corrispondente da Firenze datata 9 giugno di quell’anno dove si scriveva: -

 

“Milord il Conte di Middlesex, uno tra i più dotti nobili inglesi, passò da Firenze e vi fondò una Loggia di frammassoni, ove io fui accettato, con l’usuale cerimonia, quale membro di quella rispettabile società, la quale successivamente fece coniare a proprie spese la medaglia commemorativa di Milord; egli non volle che alcun altro titolo vi apparisse se non la dicitura Carolus Sackville Magister (i.e. della Loggia dei frammassoni) Florentinus. Sul retro della medaglia … etc, etc.

Herr Professor Koehler senza dubbio sa che l’attuale Duca di Lorena fu accettato quale valente membro della Società dei frammassoni al tempo del suo soggiorno a Londra, etc.”[ii]

 

Non sarà qui necessario riportare le illazioni del Dr. Begemann o le reazioni degli editori irlandesi a tali conclusioni e sebbene sembra sia provato di come realmente vi sia stata una Loggia inglese a Firenze, ben poco si sapeva della sua fondazione, ancor meno della sua scomparsa, e in sostanza nulla sui suoi membri.

 

Oggi però nuova luce è stata fatta sulla vicenda, poiché accadde che uno dei membri fiorentini della Loggia fosse poeta oltre che massone, e d’importanza sufficiente da garantirgli la stesura di una biografia da parte di uno dei suoi compatrioti. Il titolo di questo libro è Tommaso Crudeli e i primi massoni a Firenze[iii] di Ferdinando Sbigoli, pubblicato nel lontano 1884.

 

Sbigoli era un frammassone militante e, grazie alla provvidenza, anche un ottimo studioso e ricercatore. Ebbe accesso ai documenti di stato conservati sia a Firenze sia in altre città italiane alla ricerca di dettagli sulla vita dell’eroe suo, riportandone molti, in modo esaustivo, nel suo libro, il quale stranamente sembra esser passato inosservato dagli storici massonici d’altri paesi.

 

Questo libro colse il mio sguardo non appena fui istallato quale Bibliotecario della Gran Loggia Unita d’Inghilterra quando, sentendomi ancora come adolescente al primo giorno di scuola, malinconicamente esaminavo il contenuto degli scaffali. Così lo esaminai, trovandone le pagine ancora da tagliare, e procedetti ad investigarne il contenuto. Sono i risultati di tali ricerche che io ora vi propongo.

 

GLI INGLESI IN ITALIA

 

Negli anni ’30 del 1700 l’Italia era piena di viaggiatori e residenti inglesi che si trovavano colà per varie ragioni.

 

I motivi principali erano ricondotti nella volontà di fare nuove esperienze, di svagarsi, o per ragioni di salute; vi era però, per alcuni di loro, anche un motivo più nascosto, vale a dire le preoccupazioni che a quel tempo aveva, a Londra, il governo di Walpole a cagione della presenza a Roma, in esilio, della famiglia reale degli Stuarts.

Molti tra i viaggiatori inglesi mantenevano il piede su due staffe: poteva essere interessante il tenerli sotto controllo, e questo è esattamente quanto avveniva.

 

I coraggiosi quanto sfortunati tentativi del vecchio Pretendente di recuperare il trono, così come le speranze che i Tories riponevano nel battagliero Principe Carlo Edoardo erano motivi di continua preoccupazione per il governo di Giorgio II che si serviva di diplomatici e spie in ogni luogo, ma particolarmente a Firenze e a Roma, dove gli Stuarts e i loro partigiani trovarono o sperarono di trovare orecchie favorevoli alla loro causa.

 

L’Italia quindi non era solamente meta d’inglesi itineranti, uccelli migratori, ma ospitava colonie permanenti d’inglesi dediti al commercio, alla diplomazia o a delicati servizi segreti, o più semplicemente residenti in Italia quali rifugiati.[iv]

 

Coloro i quali vivevano a Firenze avevano colà mantenuto, nel modo peculiare della nostra nazione, i propri usi e costumi; ed avendo sviluppato dai tempi della Riforma, ed in particolar modo dalla Rivoluzione del 1688 in poi, la libertà di esprimere liberamente i propri pensieri sui temi di filosofia e religione, molti di loro apertamente professavano, anche in Italia, opinioni che indubbiamente sarebbero potuto sembrare nuove e pericolose pei nativi di quel luogo.

 

Le combriccole ed i partiti nei quali essi si dividevano nella natia Inghilterra furono così conservati anche all’estero e, incoraggiati dalla tolleranza mostrata dal governo del Duca Giovanni Gastone, essi non esitarono ad introdurre per la prima volta a Firenze quell’istituzione profondamente inglese che è la Frammassoneria.[v]

 

LA PRIMA LOGGIA MASSONICA A FIRENZE

 

Passerò ora a narrare del racconto dello Sbigoli sul come avvenne l’istituzione del nostro Ordine in Toscana, accadimento evidentemente basato su documentazione dell’epoca.

 

“La prima Loggia massonica a Firenze fu istituita dal Conte di Middlesex nel 1733, sebbene massoni inglesi colà residenti avessero potuto tenere assemblee occasionali in precedenza per diversi anni.”

 

Ciò, presumo, ogniqualvolta essi si fossero potuti riunire assieme così come stabilivano le nostre consuetudini conosciute come  da tempo immemorabile” (Time Immemorial Custom).

 

“La Loggia di Middlesex s’incontrava, all’inizio, in Via Maggio, presso l’albergo di un certo Pasciò, meglio noto ai fiorentini come Pascione; in quei tempi il Venerabile e primo Maestro essendo Monsieur Fox, gran dotto e matematico del quale, in ogni modo, non si possiedono altri dettagli.[vi]  

 

“Terminando tutte le riunioni della Società con un sontuoso banchetto, ed avendo i membri deciso che il loro ospite di Via Maggio non sempre era all’altezza di farvi degnamente fronte, si preferì per spostarsi presso l’albergo di un certo John Collins, tenutario di buona fama nonché membro dell’Ordine massonico.

“Colà la Loggia ebbe come suo secondo Maestro, Lord Middlesex suo fondatore e, più tardi, un certo Lord Raymond, che aveva la nomea d’essere deista e non credente.”

 

“Molti altri stranieri importanti appartenevano a quella Società,” tra i quali il nostro autore cita i nomi di Archer, Harris e Shirley, “che spesso fungeva da Ufficiale Presidente”, due gentiluomini di nome Clarkes, Frolik,[vii] due Capitani di nome Spencer, un certo David Martin, descritto come scozzese, cattolico, e pittore di un certo talento, ed infine Robert Montague, forse rampollo di quella famiglia nella quale ebbe a maritarsi la famosa Lady Mary Wortley Montague.”

 

Dove lo Sbigoli ottenesse questa lista di membri inglesi delle Loggia egli non rivela, sebbene si trattasse probabilmente dei documenti di stato che egli così appieno utilizzava, quantunque egli non riportasse proprio tutto ciò di cui era entrato in possesso.

 

Le circostanze poi, proprie del particolare periodo nel quale questo scritto fu vergato, preclusero ogni altra ricerca tesa a individuare quei Fratelli. Me ne dispiace, particolarmente nel caso di “Mr. Shirley” poiché avrebbe potuto darsi si trattasse di un’appartenente a quella nobile famiglia del Leicestershire, robusto pilastro dell’Arte inglese per oltre due secoli.

 

OGGETTO DI SPECULAZIONE

 

Per ciò che è dato sapere dalle prove esistenti, la Loggia di Firenze si era autocostituita. In ogni caso non esiste traccia scritta nei Registri della nostra Gran Loggia di alcuna bolla ottenuta dall’Inghilterra, mentre Anderson nel 1738 notava, non senza stizza, di come le Logge italiane mostrassero “una certa indipendenza”, passaggio il qual è per me prova conclusiva a dimostrazione della mancanza di ogni connessione ufficiale tra Londra e Firenze.

 

Esiste però un’altra possibilità della regolarità di quella Loggia o, per metterla diversamente, di come non si possa licenziare il caso senza altro esame, sebbene io tema, a questo punto, che la questione possa rimanere insoluta. Vorrei infatti attrarre l’attenzione sul fatto di come, notoriamente, il Conte di Middlesex, nel 1733 frequentasse compagnia massonica in quel di Dublino, ove suo padre rivestiva l’ufficio di Lord Luogotenente.

 

In quel periodo erano emesse le prime bolle massoniche al mondo dalla Gran Loggia d’Irlanda, perciò potrebbe darsi che Lord Middlesex possa averne portate a Firenze nella propria valigia diplomatica quale garanzia delle proprie referenze massoniche  e come autorizzazione a convenire una Loggia massonica ovunque si trovasse.[viii]

 

Un simile documento, sigillato e firmato dagli Ufficiali di una Gran Loggia regolare, avrebbe gettato una luce di rispettabilità su ogni corpo massonico non regolare che avesse scelto di ammettere Middlesex e la sua documentazione quali rispettivamente proprio Maestro e propria patente.

 

Nel caso dovessimo adottare una simile teoria, allora ciò risolverebbe molte delle difficoltà da noi incontrate nella storia della Loggia in questione, poiché ci è narrato di come una Loggia si riunisse a Firenze ancor prima dell’arrivo di Middlesex e di come, successivamente, egli vi ebbe a fondare la Loggia stessa, poiché queste due affermazioni non potrebbero altrimenti esser coniugate tanto facilmente.

 

Che non si assuma, in ogni modo, ch’io argomenti in favore della tesi dell’esistenza di una Bolla irlandese regolarizzante la posizione della Loggia di Firenze, poiché mio solo motivo nel proporre ciò come materia di speculazione essendo quello di indicare un possibile sentiero che potrebbe esser utile il seguire, se il trascorrere degli anni non avesse distrutto ogni traccia di dove questo stesso sentiero avrebbe potuto menare.

 

CARLO SACKVILLE, CONTE DI MIDDLESEX

 

Il modo migliore di fornire una panoramica sulla compagnia di frammassoni che si riunivano a Firenze è quella di dare uno sguardo ad ognuno di coloro  per i quali sia nota l’appartenenza al gruppo, dimodoché inizierò dal più noto, il Conte di Middlesex.

 

Carlo Sackville, figlio maggiore di Leonello, VII° Conte e 1° Duca di Dorset, nacque il 6 febbraio 1710-11. Egli fu educato alla scuola di Westminster, divenne amico del poeta Priore e fu accompagnato, nel suo Gran Viaggio all’estero da Spence, che naturalmente ne riferisce in diverse occasioni nel suo Aneddoti.

 

Gran viaggiatore in gioventù, egli era uomo di gusti artistici e libere abitudini, con un tocco di quel genio che appare essere dono ereditario nella sua famiglia.

L’Italia lo attraeva in modo particolare a causa del suo amore profondo per la musica e per le cantatrici che l’interpretavano al teatro dell’opera, cosicché per tutta la vita egli ebbe a spendere vaste somme di denaro per gratificare ambedue queste inclinazioni.

 

Dopo esser stato impresario del Teatro della Pergola di Firenze nel 1737 egli divenne amministratore di diverse compagnie d’opera in Inghilterra.

Sebbene nessuna di queste avventure non si traducesse mai in un successo finanziario noi dovremmo essergli grati per il suo aiuto fornito nel tener vivo l’apprezzamento della buona musica ancora così comune in Inghilterra.

 

Ad un tale benefattore pubblico si può ben concedere qualche irregolarità nella vita privata, ma sfortunatamente la più divertente ed arguta vecchia “zitella” dell’epoca, Horace Walpole, aveva perso del denaro in una delle avventure finanziarie teatrali di Middlesex e, non avendogliela mai perdonata, non perdeva occasione di menzionare il nome di Middlesex senza farne l’oggetto d’aneddoti maliziosi, dei quali la sua mente fervida non sembrava esser mai a corto, ed essendo quella del Walpole la nostra sorgente chiave d’informazioni sulle mode del momento, la reputazione di “bete noire” del Middlesex n’ebbe come conseguenza molto a soffrire, in modo probabilmente esagerato.

 

E' quindi con queste parole d’avvertimento che passerò ora a narrare d’alcuni aneddoti tratti da Horace Walpole.[ix]

 

6 novembre 1741

“Non mi sento molto a mio agio per quanto riguarda l’Opera. Il Sig. Conway[x] è uno dei direttori, ed io temo che essi possano perdere denaro in modo considerevole, cosa che egli non può permettersi. Ve ne sono otto di loro: Lord Middlesex, Lord Holderness, il sig. Frederick, Lord Conway, il sig. Conway, il sig. Damer, Lord Brook e il sig. Brand.

 

Gli ultimi cinque sono diretti dai primi tre; essi sono a loro volta diretti dal primo, ed egli dall’Abate Vanneschi[xi], il quale vi farà proprio un bel gruzzolo.

 

Ve ne fornirò quindi alcune prove, senza voler per questo menzionare l’improbabilità che hanno otto giovani scapestrati damerini di capire alcunché d’economia: E’ normale riconoscere al poeta cinquanta ghinee per comporre le trame – a Vanneschi e a Rolli ne sono state riconosciute trecento.

 

Altre trecento il Vanneschi si ebbe per il proprio viaggio in Italia alla ricerca di ballerini e attori, somma colà trasferita dai banchieri. Egli ha inoltre portato un sarto italiano – poiché qui non se ne trova alcuno! – che ha già incassato quattrocento sterline, oltre ad una provvigione di trenta sterline l’anno.”

 

Walpole continua lamentandosi degli alti salari versati ai cantanti, con particolare riferimento ad una cantante in particolare della quale Middlesex si era invaghito:

 

“Ma alla moscovita (anche se questa non ha mai guadagnato più di quattrocento) essi hanno dato seicento, a causa di servizi riservati da lei svolti. Da tutto ciò potete ben giudicare della loro frugalità! Mi dispiace anche per il povero Harry, poiché egli finirà per pagare per i piaceri di Lord Middlesex.”

 

3 marzo 1742

Dopo aver affermato che egli ed il sig. Conway si suddivideranno una sottoscrizione di 200 sterline per quest’anno, così il Walpole aggiunge: “Allora terremo Monticelli e Amorevoli, e per far piacere a Lord Middlesex, anche quell’odiosa moscovita, mentre congederemo il sig. Vanneschi.”

 

14 aprile 1743

Sempre a proposito dell’opera: “Mentre i gentiluomini direttori coi loro Abati favoriti e le mistresses hanno messo sottosopra l’intero affare in Inghilterra … vi è ora una nuova sottoscrizione per finanziare un’opera per il prossimo anno che dovrà essere effettuata dai Dilettanti[xii] un club per accedere formalmente al quale occorre essere stati in Italia, mentre la qualifica reale è quella di propendere per l’ubriachezza; ne sono a capo Lord Middlesex e Sir Francis Dashwood i quali furono raramente visti sobri nel periodo della loro permanenza in Italia.”

 

4 maggio 1743

E’ molto probabile che, alla fine, non avremo opera alcuna il prossimo anno: Handel s’è buscato una paralisi e non può comporre, mentre il Duca di Dorset si è dato ad opporla strenuamente, poiché essendo Lord Middlesex l’impresario, rovinerà certamente la Casa dei Sackville a causa di queste follie. Oltre a ciò che egli perderà quest’anno, ancora non ha fatto fronte alla sua quota delle perdite dell’anno scorso e purtuttavia allegramente si prepara alla prossima stagione, con la quasi certezza di perdere tra le quattro e le cinquemila sterline, che è la perdita accumulata fino a questo momento dall’opera. Il Duca di Dorset desidera che il Re non partecipi a questa sottoscrizione, ma Lord Middlesex è così ostinato che ciò lo condurrà probabilmente a perdere altre mille sterline.”

 

14 agosto 1743

“Ho scoperto che affare costoso sia l’opera! Io non curavo l’amministrazione: Lord Middlesex era a capo di tutto … ci hanno fatto pagare 57 sterline oltre alla normale sottoscrizione per quest’inverno. In collera, ho riferito al Segretario che quelli erano gli ultimi denari che i direttori mi avrebbero spillato per le loro follie.”

 

Walpole rincarò in seguito la dose quando Lord Middlesex nel 1744 contrasse matrimonio con Grace, figlia a sola erede del Visconte Richard Shannon. Alcune descrizioni dell’epoca la ritraggono quale una nanerottola bianchiccia, fiera però dei propri risultati nello studio del greco e del latino, ed inoltre abbastanza dotata nella musica e nella pittura.

Essa ebbe in ogni modo il merito di non aver mai dato adito a dicerie in un’epoca alquanto maligna, né di non essersi mai prestata ad intrighi politici, passatempo preferito dai cortigiani. Così scrive Horace: “La ragazza è bassa e brutta, sebbene sia una gran studiosa”.

 

Il Conte nel frattempo fu nominato Lord del Tesoro nel 1743 e, dopo un anno dalle nozze, Lady Middlesex divenne Dama del Vestiario della Principessa di Galles; poi, nel 1747 suo marito divenne Maestro dei Cavalli del Principe. Tutte queste promozioni furono altrettanti motivi di lavoro per la penna velenosa di Horace, mentre un’ottima occasione per spandere ulteriori maldicenze a proposito del circolo di Middlesex si ebbe nel 1747, col nostro pettegolo che non poteva certo lasciarsela sfuggire:

 

2 ottobre 1747

“Lady Middlesex è incinta – l’infante verrà su bene, poiché il sangue dei Sackville è il peggiore che si potesse trovare per l’allevamento.”[xiii]

 

10 novembre 1747

“Lady Middlesex ha scodellato suo figlio prima del tempo: questi è preservato nell’alcool ed il mio Signore molto devotamente lo piange.”

 

Quale commento per il dolore umano mostrato dai genitori per l’unico figlio avuto dal loro matrimonio!

 

Il Conte continuava nel frattempo ad avere altri problemi con le sue compagnie dell’Opera:

 

12 agosto 1746

“Lord Middlesex, in occasione di una rivalità verificatasi tra la sua mistress, il Nardi e Violetta, la migliore e più ammirata danzatrice del mondo, ne approfittò per coinvolgere nel litigio l’intero ménage dell’opera senza pagar gabella ma anzi, siccome un vero Lord del Tesoro, ben serrando i propri forzieri. Sua Signoria comminò inoltre una multa di trecento sterline al compositore, da pagarsi immediatamente e senza dilazioni, con la scusa che questi avesse parteggiato per Violetta”.

 

2 dicembre 1748

“Lord Middlesex è stato citato in causa da Monticelli a Westminster Hall per non avergli corrisposto il salario pattuito; ha perfino permesso che il contratto scritto di suo pugno fosse utilizzato come prova! Vi potete immaginare di com’egli fosse tosto condannato.”

 

Anche facendo la tara su simili accadimenti a causa della malizia dimostrata dal Walpole nei suoi confronti, non possiamo far altro che concludere che invero il Conte di Middlesex fosse talvolta talmente sfortunato da attrarre l’attenzione pubblica ai suoi riguardi.

 

Dopo aver fondato la Loggia di Firenze nel 1733, cosa che condusse alla preparazione di una bellissima medaglia commemorativa da parte di Johan Lorenz Natter, scultore tedesco, egli fece ritorno in visita a Londra verso il finire dell’anno di poi, per subito ritrovarsi in cattive acque.

 

Accadde infatti che il giorno 30 gennaio 1734-35 ricorresse la data dei famosi disordini detti della “Testa del Vitello” avvenuti fuori della taverna dell’Aquila d’Oro in Suffolk Street.

 

La storia vuole che un gruppo di giovani gentiluomini liberali che si trovavano a cena nella suddetta taverna, alfine di esprimere disprezzo per il Martire Reale nell’anniversario della sua esecuzione e spregio per tutti i giacobiti in generale, “mostrassero alla folla assiepata al di fuori una testa di vitello contenuta in una calza la quale era stata immersa nel vino di Bordeaux a rappresentare il sangue, mentre essi … inneggiavano e brindavano con motti anti-Stuart, ed alfine gettavano quella testa in un falò che avevano fatto accendere all’uopo davanti la taverna. La folla dei giacobitì allora s’inferocì irrompendo nella taverna, ed avrebbero senz’altro “martirizzato” gli intenti alla baldoria se non fosse stato per il pronto arrivo delle guardie.”[xiv] 

 

Coloro i quali erano presenti alla cena, secondo una fonte giornalistica dell’epoca includevano: Lord Middlesex, Lord Harcourt, Lord Boyne, Lord Middleton (secondo lo scrivano tutti irlandesi, sebbene almeno nel caso di Middlesex non potesse trattarsi solamente di un titolo di “cortesia” concesso al figlio del Lord Luogotenente), Lord John Murray, Sir James Grey, il sig. Smith, il sig. Stroud e, alcuni dicono, il sig. Shirley.”

 

Secondo la versione di Middlesex a Spence quei gentiluomini si erano ritrovati a cena senza far caso alla particolare ricorrenza del giorno, ed avendo tutti bevuto più del dovuto, ecco che si diedero  a brindare al Sovrano dalle finestre della taverna.

 

Per una folla giacobita si trattava però di un’intollerabile insulto il “bere alla salute del Re, della linea di successione protestante e dell’intera amministrazione”, poiché ciò significava esprimere affetto per tutto ciò che essi cordialmente odiavano.[xv]

 

Soppesando tutta questa testimonianza ho paura si debba concludere che Lord Middlesex fosse in effetti un diligente seminatore di tempesta prono a ritrovarsi spesso nei guai.

 

La possibile presenza di un certo “sig. Shirley” nel novero dei gaudenti colpisce l’occhio; si trattava forse della stessa persona la quale “spesso fungeva da Presidente” della Loggia fiorentina?

 

L’inciampare di Middlesex in una certa quantità di pubblicità non voluta non passò inosservata in “alto loco”. Scrivendo nell’aprile del 1751, un mese dopo la morte di Federico Principe di Galles, Walpole nota con soddisfazione che la sua “bete noire” aveva perduto la propria posizione a corte:

 

“Il Re domandò alla Principessa se essa avesse in mente qualcuno per la carica di Maestro del Cavallo; si sarebbe dovuto trattare di un nobile, con la sola esclusione di uno in particolare, Lord Middlesex.”

 

Middlesex morì il 5 gennaio 1769, e sua moglie lo precedette di sei anni. i suoi critici di sempre gli fornirono il seguente epitaffio[xvi]:

 

“La sua bella figura ebbe tutte le riserve della sua famiglia e la dignità dei suoi antenati. Egli era un poeta, poiché tutti loro furono poeti.[xvii] Per quanto poco egli potesse avvicinarsi a loro in quel talento, purtuttavia si trattava dell’aspetto per il quale egli più gli rassomigliava e ne manteneva l’onore. La sua passione era quella di poter dirigere opere, ove egli non soltanto perse somme immense, ma fu citato in tribunale per non aver corrisposto i salari a quei poveri diavoli.

Il Duca di Dorset spesso pagò i debiti, ma non seppe mai organizzare i propri affetti; alla fine talmente lontano condusse la propria disobbedienza, per compiacere al re e a sua imitazione, da opporsi perfino al proprio padre nei suoi stessi domini.”

 

In una lettera a Mann del 15 gennaio 1769 Walpole appare ancora più candido nel dare notizia della dipartita:

 

A propos d’Opera: quella vostra vecchia conoscenza del Duca di Dorset è morto, dopo aver dilapidato la propria persona oltre che quasi tutti i propri beni. Non ha lasciato un solo albero ritto nel venerando parco di Knowle. In ogni modo la famiglia si ritiene fortunata che egli non abbia sposato, come già prospettava, la ragazza con la quale si accompagnava, stante che il grave stato della sua mente non poté far in modo che il parentado potesse prevenirlo”.

 

Mi ripugna che sia una tale impietosa vignetta il nostro ultimo sguardo a colui ch’io preferisco ricordare nella sua gioventù come “Carolus Sackville Magister” giovane, bello, baldo e attraente, di grandi mezzi che egli profuse nel portare avanti una tra le più grandi delle arti, la musica, e nel regalare così facendo piacere a molti senza cercare ricompensa in denaro né in adulazione; se egli nel fare ciò vi ha perduto una fortuna, mai fortuna fu utilizzata per causa migliore, come il portare felicità agli altri.

 

LORD RAYMOND

 

Lord Robert 2° Raymond d’Abbot’s Langley, unico figlio del Giudice Capo di quel nome e titolo nacque nel 1717 e successe al titolo il 18 marzo 1732-3; non aveva quindi più di 22 anni quando fu eletto Gran Maestro d’Inghilterra nel maggio del 1739, mentre era appena maggiorenne quando divenne Maestro della Loggia di Firenze, dove fu probabilmente iniziato. La scoperta del suo nome tra i membri di quella Loggia deve considerarsi come un fatto importante, poiché le Logge Madri d’appartenenza della maggioranza dei primi Gran maestri d’Inghilterra sono sconosciute.

 

Come diverrà apparente nel corso di questa storia, Lord Raymond non era molto popolare in Italia, ed anzi le autorità papali provarono ad espellerlo da Firenze.

 

Sebbene non vi fosse alcun decreto ufficiale a tale fine, l’oggetto di tale odio evidentemente fece ritorno a casa dopo breve tempo, essendo tale ritirata strategica nei piani e nell’interesse del sig. Horace Mann, allora facente funzioni del Residente Inglese a Firenze.

 

Nessuno dei riferimenti dell’epoca a Lord Raymond sembra essere di grande spessore. Lord Orrery, in una lettera alla moglie del 2 febbraio 1743-4, nel descrivere un dibattito alla camera dei Lords così scrive[xviii]:

 

“Eri sempre nei miei pensieri anche in mezzo all’eloquenza di Lord Ches(terfield), la pazzia di Lord B(ath), o l’ubriachezza di Lord Raymond, del quale mi dimenticai di scriverti prima, che sempre prima di declamare, si fa un goccetto.”

 

Walpole, nel descrivere il dibattito che seguì al discorso del Re, in una lettera a Mann del 10 dicembre 1741 così si esprime:

 

“Lord Halifax si espresse in malo modo, subito ripreso dal piccolo Lord Raymond, che non perdeva occasione per rispondergli.”

 

Il 20 maggio 1742 la stessa fonte ricorda Raymond nelle sue vesti di poeta come segue:

 

“Debbo raccontarti dell’ingenuità di Lord Raymond, Un’epitaffio sulla Legge per le Indennità – prova ad indovinare chi n’è l’autore:

 

Sotto questo marmo, giace, interrata

La Legge sulle Indennità;

Per mostrare il bene per il quale fu formulata

essa morì per salvar l’umanità.”

 

Da tutto ciò dobbiamo concludere che quali che fossero le sue opinioni sulla religione, quelle che egli deteneva sulla metrica erano ciò non di meno rivoluzionarie.

 

Come Gran Maestro Raymond ricevette più attenzioni di quante in effetti si meritasse, poiché Preston ebbe ad affermare che nel periodo della sua Gran Maestranza i cambiamenti subiti dal rituale causarono notevole dissenso tra gli “Antichi” e i “Moderni”.

 

Avendo però il Preston sbagliato tale affermazione, possiamo almeno ripulire da quella macchia il blasone di Raymond, sebbene non vi sia dubbio sul fatto che in quel tempo la massoneria in Inghilterra non attraversasse un periodo particolarmente felice. Egli morì il 19 settembre 1756.

 

IL BARONE FILIPPO VON STOSCH

 

Altro famoso membro della Loggia fu il Barone Filippo von Stosch, nato a Kustrin nel Brandeburgo nel 1691, che acquisì in seguito la nazionalità inglese, o in ogni modo ebbe diritto a protezione essendo divenuto un fidato agente segreto di Giorgio II.

 

Si trattava d’un uomo fuori dell’ordinario per quanto riguardava questioni legate all’archeologia e alla numismatica, mentre la sua bella casa, in Via dei Malcontenti a Firenze, contenente una splendida biblioteca ed una gran collezione di rari cammei e medaglie, era frequentata dalle persone più erudite e rispettabili della città,[xix] così come da altri ai quali nessuno di quei due aggettivi sarebbe potuto attagliarsi.

 

In una parola, la reputazione di questo gentiluomo era lontana dall’essere salda così come senz’altro lo era la sua cultura. Egli apparteneva a quella classe di letterati che vivono d’intrighi e di dubbi lavori, uomini molto comuni in tutte le epoche, con una particolare abbondanza però nel XVIII secolo.

 

Così, fin dai tempi della giovinezza Stosch si dilettava nel fare la spia, prima ai servizi del governo olandese, e poi al soldo inglese egli teneva d’occhio le pericolose manovre, a Roma, del vecchio Pretendente, meglio noto come il Cavaliere di San Giorgio.

 

All’epoca del suo stabilirsi a Roma egli era sufficientemente ben visto da Papa Clemente XI, tanto che divenne amico del Cardinale Alessandro Albani, nipote del papa e bravo archeologo, con il quale mantenne una corrispondenza per tutta la vita.

 

Favorito da tale protezione, Stosch si stabilì comodamente a Roma e si diede ai suoi diversi interessi, non senza piacere e profitto, continuando in tal guisa fino alla morte di Benedetto XIII nel 1730; ma quando il trono papale fu occupato da  Clemente XII, protettore degli Stuarts, allora la posizione di Stosch di “informatore” cominciò a non essere scevra da pericolo. Le cose continuarono a deteriorarsi finché nel 1731, trovandosi in pericolo d’assassinio, il nostro si trovò obbligato a fuggire da Roma.

 

Horace il calunniatore ne da la seguente versione: “Egli fu costretto a fuggire da Roma, sebbene si sospettasse che facesse il doppio gioco”.

 

Walpole n’aveva una ben misera opinione come spia: “Stosch pretendeva di continuare ad inviare un resoconto esatto delle attività del Pretendente e dei suoi figli, sebbene fosse stato cacciato da Roma su richiesta del Pretendente e non debba quindi aver avuto alcun’informazione diretta o importante di quanto accadeva in quella famiglia.”

 

Egli scrive comunque, in una lettera a Mann nel maggio del 1743 che Re Giorgio aveva mantenuto una buon’opinione del suo agente segreto: “Non posso approvare il vostro riferirvi alle falsità contenute nei rapporti di Stosch; nessuno dà lui credito se non il Re, il quale vi si sente gratificato, per cui Basta! (In italiano nel testo).

Stosch si trasferì a Firenze dove, anche se non si trattava del posto migliore dal quale continuare a spiare Roma, ebbe almeno il vantaggio di poter continuare a dedicarsi ai suoi studi favoriti.

 

Egli non ebbe mai molta popolarità tra l’aristocrazia toscana, poiché circolavano strane storie sul suo passato. Charles de Brosses per esempio, ci racconta nelle sue lettere,[xx] come voce parigina, che Stosch in un’occasione visitò il Cabinet du Roi a Versailles assieme con un gruppo d’altri curiosi, e mentre costoro erano assorti nell’osservare gli intagli di una gemma famosa, quella improvvisamente sparì.

 

Allora Hardouin[xxi] il curatore volle che tutto il gruppo si spogliasse delle proprie vesti, uno dei doveri di un curatore oggi caduti in disuso, e quando ciò non dette alcun risultato, volle che fosse somministrato un’emetico a Stosch, unico straniero presente, così che la gemma ne fu alfine recuperata.

 

Anche se apocrifa, questa storia testimonia della reputazione della quale godeva Stosch tra i suoi contemporanei.

 

A Firenze alcuni pensavano che Stosch ingannasse i visitatori inglesi vendendo loro false antichità al posto delle autentiche e che, nello zelo della sua seconda professione, egli ne abbia falsamente denunciati taluni al governo inglese come giacobiti.

 

Altri affermano che egli era uso di menar vanto del fatto di essere una canaglia calzata e vestita poiché secondo lui era desiderabile l’esser temuto così come lo sono i malandrini. Tale atteggiamento, comunque, non si confà con quell’eccesso di prudenza che egli usualmente mostrava, dando adito al fatto che potesse invece trattarsi solamente di una diceria. 

 

Non vi è dubbio comunque, che anche a Firenze Stosch non fosse particolarmente ben visto, come mostrato dalle opinioni del Dottor Cocchi,[xxii] di Horace Walpole e d’altri suoi stessi fratelli in massoneria.

 

La Loggia di Firenze aveva l’abitudine di riunirsi ogni giovedì, ma essendo l’archeologo tedesco divenuto impopolare ai membri inglesi, ed odiandolo alcuni di loro come si trattasse di veleno, si risolse di cambiare il giorno delle riunioni al sabato, giorno nel quale Stosch era impegnato nei suoi affari e non avrebbe quindi potuto partecipare alle riunioni senza procurarsi una certa inconvenienza.

 

L’impopolarità di Stosch presso gli inglesi era probabilmente anche dovuta alle sue abitudini di ridicolizzare ogni credo religioso.

 

Walpole scrisse di lui:

 

“Sono stato disturbato per tutta la mattina da quel tanghero di Prideaux … egli ha chiacchierato di tutta l’Italia e di quanto vi si trovi. Trovandoci a parlare di Stosch gli chiesi se avesse veduto la sua collezione, al che egli mi rispose di averlo fatto solo in parte, non potendone sopportare la compagnia e non avendo mai udito talmente tante stupide chiacchiere pagane in vita sua.

 

Stosch gli aveva infatti confidato che, a suo parere, l’anima non era altro che un sottile velo di colla. Io mi misi a ridere con tale gusto che egli tosto mi lasciò; probabilmente per il fatto che credesse ch’io stesso la pensavo allo stesso modo.”[xxiii]

 

“Per il fatto che Stosch possa aspettarsi di ricevere un qualche regalo da me, credo di averlo già ben pagato per quanto mi diede e quindi non ritengo di dovergli alcunché; Voi comunque siete stato molto gentile nell’offrirvi di ricompensarlo.” (26 maggio 1742.)

 

“Mi dispiace abbiate avuto così tanti problemi per quei gatti maltesi; caro giovine, gettateli pure in Arno, se in questo periodo dell’anno vi è acqua sufficiente per affogarli; oppure, meglio ancora, dateli a Stosch, in pagamento delle spese postali delle quali parlava. Non ho intenzione di offrirli di persona al vecchio stregone.” (10 giugno 1742).

 

“Il Barone Stosch era uomo dal carattere infame sotto ogni punto di vista.”[xxiv]

 

“Ti includo anche una lettera per Stosch, che fu lasciata qui con un pezzo di carta recante le seguenti parole: -Il signor Natter desidera inviare le lettere per il Barone de Stosch a Firenze per mezzo del sig. H.W.- non so  chi questo sig. Natter sia, né chi abbia formulato tale richiesta, ma desidererei che il sig. Stosch cessasse immediatamente di utilizzare questo metodo di corrispondenza poiché io non metterò a rischio le mie lettere a voi se queste conterranno le sue, né le invierò direttamente a quel poco di buono.”[xxv]

 

Nel 1739 il Granduca Francesco ordinò l’espulsione di Stosch da Firenze; Horace Mann protestò in nome di Giorgio II e dopo molte negoziazioni, delle quali narreremo più in dettaglio nel prosieguo, il Barone poté rimanere indisturbato.

 

Antonio Zobi, nel suo Storia Civile della Toscana (Vol. I, p. 199) così racconta di quegli avvenimenti:

 

“A quel tempo viveva a Firenze il Barone Filippo von Stosch, d’origine inglesi[xxvi], un nobiluomo che si occupava d’antichità e di numismatica, che era in stretti rapporti con ogni toscano erudito dell’epoca.

Crudeli gli insegnava l’italiano e ne aveva tutta la confidenza.[xxvii]

 

Un segreto impenetrabile velava le discussioni che alla sera avvenivano a casa sua, discussioni vietate alle donne per il loro noto abito ciarliero. Tutta questa segretezza aveva sollevato una certa curiosità, e la gente comune iniziò ad inventare storie fantastiche su ciò che accadesse in quel luogo; l’Inquisitore (Ambrogi) non ne era naturalmente soddisfatto e credette che tutti i visitatori di Stosch fossero, di fatto, nemici impietosi della nostra Santa Religione. Egli fece quanto in suo potere per far espellere il baronetto inglese[xxviii] il quale era però protetto a spada tratta dal sig. Mann, il Ministro inglese.”

 

Nel novembre del 1757 Stosch morì a Firenze di un attacco epilettico lasciando i propri averi ad un nipote per mezzo di un testamento redatto nel 1754 con il quale egli nominava Horace Mann e Buonaccorsi suoi esecutori testamentari.

 

Nello scrivere a Walpole della sua morte Mann disse: “Sarebbe quindi mossa astuta se io potessi subentrare a Stosch per quello che riguarda gli affari romani,[xxix] nel quale caso potrei non occuparmi più a lungo di ciò che precedentemente mi era stato affidato dal servizio segreto.”

 

Evidentemente Stosch riceveva lauti appannaggi per le sue attività coperte. Una lettera successiva di Mann del 18 maggio 1758 fece riferimento a Filippo von Stosch il giovane, nipote ed erede del primo, il quale era stato un’ufficiale dell’esercito prussiano ed era ora occupato a vendere quanto lasciatogli dallo zio:

 

“Stosch richiede cifre altissime per quelle stampe e quei brutti disegni cinesi, e spera di poter un giorno o l’altro, venderli al re di Prussia.”[xxx]

 

I MEMBRI ITALIANI[xxxi]

 

Il primo italiano ad essere ricevuto tra i frammassoni fu il famoso Dottor Antonio Cocchi e la sua iniziazione fu celebrata, il 4 agosto 1732 con uno squisito banchetto. Si noti che la data è di un anno antecedente a quella comunemente riportata per la “fondazione” della Loggia da parte di Middlesex.

 

Tra gli altri membri iniziali si ritrovano: un certo Galassi, del quale nulla si sa eccetto che si trattava del Portastendardi del Granduca, un giovane senza macchia; Tommaso Crudeli, poeta e martire dell’Arte, altro giovane non esattamente senza macchia come il primo; Giuseppe Cerretesi, anch’egli poeta, e traduttore in Italiano delle Epistole Morali di Papa Alessandro; Antonio Niccolini, del quale narreremo più avanti; Paolino Dolci; l’Abate Franceschi; l’Abate Ottaviano Buonaccorsi, anch’egli autore d’alcune opere: di costoro solamente esiste la ragionevole certezza si trattasse di frammassoni.

 

E’ comunque probabile che tra gli iniziati vi fossero anche Giulio Rucellai, Segretario della Giurisdizione (di Stato); il Marchese Carlo Rinuccini, Ministro dell’ultimo dei Medici e del primo Granduca della casa di Lorena; ed il Conte di Richecourt, Primo Ministro del governo reggente del Granduca Francesco.

 

Tra le altre persone per le quali si sospettava l’esser massoni o dei quali si conosceva l’inclinazione favorevole nei riguardi di quella associazione vanno menzionati il famoso Dottor Giovanni Lami, temuto per le sue satire, Tommaso Perelli, studioso d’astronomia e d'idraulica, il Professor Pascasio Giannetti dell’Università di Pisa, fiero opponente dei Gesuiti, e poi Canon Maggi, il Dottor Avanzini, l’Abate del Nero, l’Abate Vanneschi associato agli affari operistici di Middlesex, Cerusico Martini, Antonio e Gaetano Marcantessi, fratelli e prosperosi banchieri di Firenze, il Dottor Luca Corsi, amico d’infanzia di Crudeli, e l’Abate de Craon, Primate di Lorena,[xxxii] figlio maggiore del Principe Marco di Craon, Ministro Plenipotenziario del Granduca.[xxxiii] 

 

Diversi altri dottori in legge e medicina si pensava fossero membri della Loggia, assieme con alcuni appartenenti al clero, inclusi alcuni canonici della Cattedrale ed un certo Abate Pratesi, della Curia Arcivescovile.

 

“Sembrerebbe comunque che i fiorentini non si recassero spesso alle riunioni massoniche, sia perché trovavano rude e strana la compagnia degli inglesi, sia perché disapprovavano l’abitudine di bere smodatamente come facevano alcuni degli inglesi nel corso dei banchetti.”[xxxiv]

 

Nel leggere i nomi di quegli italiani dei quali era nota l’appartenenza alla massoneria inglese di Firenze se ne ritrova, con sconcerto, uno il quale non sarebbe certo dovuto apparire tra quelli di persone così rispettabili.

 

Lo Sbigoli, contrariamente alle sue abitudini, non trova niente di buono da dire sul conto di Paolino Dolci, uno dei gentiluomini di compagnia del Granduca Gian Gastone, la più esecrata e odiata persona della città, a parte, naturalmente Dami l’infame.

 

Era grazie all’avvenenza della propria persona, avuta in dono da una madre nota per non aver saputo relegare i propri favori ad un solo cicisbeo, così come la moralità dei tempi comandava, che Dolci ebbe il suo primo impiego a Corte tra i vari ganimede del sovrano.

 

Secondo alcune voci, egli aggiungeva agli emolumenti ricevuti in cambio delle sue equivoche mansioni anche i proventi di furtarelli effettuati alle spese della gioielleria reale; il Granduca però non solamente glissava su questi peccatucci, ma sembrava non potesse rifiutargli nulla. In tal guisa il padre di Dolci, detenuto alle galere per peculato effettuato nel corso dello svolgimento d’un incarico pubblico ebbe sia il perdono sia un lauto compenso, mentre favori diversi erano accordati a tutti coloro che avessero mostrato gentilezza nei confronti del Dolci o di sua madre.

 

“Un favorito non ha amici” e non esiste modo decente di raccontare ciò che le cronache dell’epoca dicevano di Dolci e dei suoi altri compagni.

 

Alla morte di Gian Gastone egli fu cacciato da Palazzo Pitti assieme a tutti gli altri parassiti e si accompagnò con una bella veneziana dolce più di voce che di reputazione e, non potendo porre a tempo rimedio, ebbe a sposarla nel 1739, giusta punizione per la sua vita passata. A causa d’altri fattacci nei quali si trovò invischiato dovette alfine fuggire da Firenze nel 1743 recandosi a Roma dove di lì a poco mori nella miseria più nera.

 

“E’ difficile capire,” dice il nostro autore, “come una persona dalla simile cattiva reputazione possa essere stato accettata in una Società della quale si affermava che l’unica qualità necessaria per esservi ammessi fosse quella d’essere galantuomini”. E’ pero possibile che l’essere nelle grazie del Duca e in una posizione di poter favorire la Società a Corte fossero la raccomandazione sulla quale Dolci poteva far affidamento al posto dell’onore e del buon nome.

 

“Non si dovrebbe mai dimenticare che, ogniqualvolta una Società, di qualsivoglia natura, inizia ad estendere i propri confini la sua crescita è dovuta più al numero degli aderenti che alla loro qualità. Ad esempio, lo stesso fenomeno è chiaramente apparente al momento della crescita della Cristianità, similmente a quanto avviene in massoneria.

 

In quest’ottica né Paolino Dolci, né il Barone von Stosch, e neppure il più noto Casanova o alcun altro della medesima risma che ebbe ad entrare nell’Ordine potranno servire a gettare discredito sulla Società dei Frammassoni più di quanto possano i primi cristiani esser diffamati per aver avuto quale loro fratello nella fede e protettore il crudele e ambizioso Costantino il Grande.”[xxxv]

 

Passiamo ora a descriverne alcuni tra i membri più conosciuti.

 

ANTONIO NICCOLINI

 

Avendo avuto in vita una fama oggi scomparsa, Antonio Niccolini nacque a Firenze nel 1701, figlio minore di una nobile famiglia alla quale la città deve la formazione della sua prima biblioteca.

 

Prese gli ordini minori in gioventù così come esigevano gli usi del tempo, per poter usufruire dei benefici ecclesiastici ed aver più tempo per gli studi, ai quali, fin dalla tenera età egli era sommamente portato. Sebbene ci si riferisse a lui come l’Abate Niccolini, non divenne mai sacerdote né procedette oltre gli ordini minori.

 

Educato presso i gesuiti al Collegio di San Giovannino, già all’età di 17 anni era celebrato per la sua profonda cultura, ma la conoscenza acquisita solo dai libri non soddisfaceva quello spirito inquieto portandolo a viaggiare per tutta Europa.

 

Dopo essere stato in Germania, Olanda e Francia egli si recò in Inghilterra ove fu presentato ai più illustri uomini dell’epoca, divenne amico di molti di loro ed allargò la propria mente con molte idee, più avanzate e moderne di quelle all’epoca circolanti in Toscana. Egli divenne in breve ciò che potremmo definire un cattolico liberale: giansenista era il termine allora in uso per distinguere non solamente coloro che seguivano la dottrina del Vescovo di Ypres, ma anche ogni persona che avversava il primato della Chiesa di Roma sul potere temporale.

 

Particolare favore fu mostrato al Niccolini, in Inghilterra, dal Principe di Galles, più tardi Giorgio II, e quando ciò fu portato all’orecchio del Granduca Cosimo III, bigotto sul tipo del Gran Monarca, egli decise che il Niccolini dovesse essere un eretico e un libertino e ne proibì il ritorno in Toscana. Il decreto di bando rimase attivo per oltre un anno finché fu revocato grazie all’intercessione di alcuni alti dignitari della Chiesa.

 

Niccolini ottenne poi una posizione presso la Curia papale a Roma, ma quell’atmosfera di intrighi non gli si addiceva, così che fece presto ritorno a Firenze dove, disponendo di risorse autonome sufficienti, si dedicò ai suoi studi favoriti, sebbene ancora mantenesse le proprie abitudini clericali.

 

Presto Casa Niccolini divenne famosa  per i piacevoli ritrovi colà organizzati dall’Abate Marchese. Tali ritrovi gli facevano invero onore, ma ancor più giovavano alla sua gloria gli studi compiuti e le cospicue donazioni che egli elargiva a favore della scienza e della ricerca.

 

Carlo de Brosses, in una sua lettera da Firenze del 3 ottobre 1739, [xxxvi] cita il Niccolini e altri tra i suoi amici come dotti studiosi:

 

“Quelli del primo gruppo che ci hanno dimostrato amicizia e buoni uffici sono i Marchesi Riccardi; Monsignor Cerati, preside dell’Università di Pisa; l’Abate Buondelmonti, nipote del Governatore di Roma; il Conte Lorenzi; l’Abate di Craon, Primate di Lorena, e l’Abate Niccolini il cui fratello sposò la nipote del Papa.

 

Quest’Abate Niccolini è in verità un grand’uomo. Nei miei viaggi devo ancora incontrare chi possa stargli alla pari come forza di pensiero, memoria prodigiosa, prontezza di parola o con tale ampia conoscenza su ogni possibile soggetto, dalle acconciature femminili fino al calcolo integrale di Newton. Egli avrebbe potuto divenire qualsiasi cosa avesse voluto se non avesse deliberatamente scelto di tagliarsi la gola portando agli estremi la propria libertà di parola fino ad assumere la fama di giansenista, sebbene egli non lo sia per nulla.”

 

Molte erano le benemerenze del Niccolini: fece effettuare a proprie spese la bonifica delle paludi di Foligno, aiuto a creare la Società Botanica di Firenze e fu il patrono letterario di Antonio Marini, più tardi Arcivescovo di Firenze e conosciuto per il suo commentario sulle Scritture.

 

Da alcune sue lettere pubblicate,[xxxvii] sembrerebbe che, sebbene i suoi contatti con la massoneria siano stati di natura temporanea, per sempre il Niccolini conservò quello spirito di tolleranza, quel desiderio per il progresso della conoscenza umana e quella saggezza che sono le maggiori caratteristiche della nostra grande fratellanza.[xxxviii]

 

Niccolini non avrebbe mai potuto essere un uomo ordinario: sappiamo che Giorgio II lo stimava a tal punto da pregarlo di intervenire nella sua disputa con Federico Principe di Galles.

 

Perfino Walpole non trovò nulla di disdicevole da dire a suo riguardo:

 

“Niccolini cena sempre con il Principe di Galles, ed impara la Costituzione.”[xxxix]

“Non ho notizie di Lady Orford, che non appare mai in pubblico, così come non so se ella veda Niccolini; egli passa molto tempo con Lady Pomfret … ed altrettanto con il Principe.”[xl]

 

“Niccolini si è recato, assieme con il Principe, a Clieveden. Ho l’idea che questi non lascerebbe mai l’Inghilterra se solo potesse cambiare la propria religione, o se potesse persuadere, cosa che gradirebbe parimenti, il Principe a cambiare la propria.”[xli]

 

Niccolini morì a Roma nell’ottobre del 1769, tra coloro i quali piansero la sua dipartita vi era l’Imperatore Giuseppe II.

 

GIUSEPPE MARIA BUONDELMONTI

 

Membro di una delle più antiche e famose famiglie fiorentine, Giuseppe Maria Buondelmonti nacque in quella città nel 1713 ed era quindi poco più che ventenne  quando divenne frammassone, decisione che lo espose a serio pericolo sebbene ebbe a cavarsela solo con una gran paura.

 

Egli era Cavaliere Commendatore dell’ordine di Malta, un grado che ammetteva alle gerarchie clericali, per questo era chiamato indifferentemente “Fra Giuseppe Maria” o “Commendator Buondelmonti”.

 

Astuto e dotto, amava viaggiare ed intrattenersi in conversazione con stranieri; poeta, oratore e filosofo, era portatore di una buona reputazione tra i propri contemporanei, uno dei quali ebbe a chiamarlo “il più dotto genio tra la nobiltà fiorentina”; quale tributo alla sua eloquenza fu chiamato a recitare le orazioni ufficiali nella chiesa di San Lorenzo alle esequie del Duca Gian Gastone nel 1737 e per i funerali dell’Imperatore Carlo VI nel 1741 e della madre del Granduca Francesco nel 1742.

 

Poeta oltre che linguista, tradusse in italiano, con l’aiuto di Andrea Bonucci valente pubblicista, Rape of the Lock e l’Universal Prayer di Pope, essendo forse i suoi gusti per simile letteratura inglese indicazione delle compagnie che egli frequentava a Firenze.

 

Sebbene membro di un ordine militare non si trattava  d’una testa calda, e nell’occasione della sua elezione all’Accademia della Crusca profferì un discorso sulla guerra, dichiarando che i suoi orrori e le crudeltà avrebbero dovuto esser confinate allo stretto necessario, continuando con il raccomandare una sorta di Dieta Europea per il mantenimento della pace – in verità, non vi è nulla di nuovo sotto il sole.

 

Sebbene Buondelmonti fosse strettamente controllato dall’Inquisizione, godeva di potenti protezioni nella Chiesa poiché suo zio Filippo Manente era Vicecamerlengo a Roma e Governatore della Città Eterna, cosa che giocò a favore del nipote quando questi avrebbe dovuto essere arrestato in quanto frammassone.

 

In fatti, fu essenzialmente la sua attitudine di libero pensatore, anche più del Niccolini stesso, ed il non voler farne segreto, che gli attirarono le attenzioni delle autorità. Essendo obbligato, nella sua veste di ecclesiastico, ad ascoltare ogni giorno messa, egli ne chiese dispensa a Roma, ma sebbene ciò fosse usualmente concesso senza difficoltà, al Commendatore non fu permesso, stante la sua appartenenza alla Società dei Massoni.[xlii]

 

Non era dotato di buona salute e morì a Pisa nel 1757 con la propria reputazione di studioso, così grande in vita, che non gli sopravvisse.

 

Al Walpole il Buondelmonti non piaceva: “Per quel che riguarda Buondelmonti, egli è una nullità; la sua più alta composizione ammonta ad un sonetto; discute di non-religione coi ragazzi inglesi, di sentimento con mia sorella, e parla in un cattivo francese con chiunque lo stia ad ascoltare.”[xliii]

 

Speriamo che l’opinione di Horace fosse sua soltanto, così come sua solamente fu la pronuncia del patronimico del Buondelmonti.

 

ANTONIO COCCHI

 

Nato a Benevento il 3 agosto 1695, Antonio Cocchi studiò matematica a Pisa sotto il famoso Guido Grandi e medicina sotto Antonio Domenico Bellini. Dopo gli studi egli fu nominato medico della guarnigione dell’Elba, all’epoca dominio spagnolo.

 

Più tardi, nel 1723 divenne medico personale del Conte di Huntingdon, marito della Contessa che Walpole chiamava “La Santa Teresa dei Metodisti”, che accompagnò in Inghilterra.

 

Con un simile nobiluomo quale suo protettore, Cocchi viaggiò attraverso la maggior parte d’Europa, avendo molto a soffrire a cagione delle eccentricità di colui che lo impiegava, il quale a volte gli faceva mancare i denari anche per le necessità basiche della vita: suo compenso erano però gli incontri e le discussioni con altri uomini di scienza in ogni luogo che visitasse. Tra gli altri, egli incontrò Newton in Inghilterra e Boerhave in Olanda.

 

Dopo aver rifiutato una vantaggiosa offerta d’impiego da parte di Carolina, Principessa di Galles, Cocchi ritornò a Firenze nel 1726, dove il Granduca Gian Gastone lo nominò Professore di medicina a Pisa: non avendo però egli facile oratoria, si fece trasferire a Firenze con l’incarico di Professore d’anatomia.

 

Più tardi egli si guadagnò il rispetto e la stima del Granduca Francesco e del Consiglio di Reggenza, dal quale ebbe molti incarichi di prestigio, anche se di poco profitto.

 

Fondò, con il Micheli, la Società Botanica di Firenze e, assieme con il Tozzetti, fu responsabile per l’organizzazione della Biblioteca Magliabecana, che aprì al pubblico nel 1747.

 

Morì di cuore nel 1758, dopo aver previsto ben in anticipo la propria fine, che accettò con rassegnazione filosofica.

Le sue conoscenze erano vaste e varie: conosceva alla perfezione greco, latino ed ebraico assieme con molti linguaggi moderni che parlava e scriveva con facilità e fluentemente.

 

Sebbene andasse a messa, si confessasse e si comunicasse il buon Dottore era visto con sospetto dall’Inquisizione, così come ci dice egli stesso, scrivendo, in inglese, nel suo diario:

 

“Benevuti mi assicura che all’Inquisizione si sospetta che io non sia cattolico e che una persona importante disse ad un suo amico … che io debba essere molto cauto.”[xliv]

 

Fu il primo toscano a venire iniziato frammassone, e molti insegnamenti di quella Società si possono ritrovare nel suo carattere e nel modo di vita.

 

Diede sempre un caloroso benvenuto agli stranieri che passavano per Firenze, in modo particolare agli inglesi, e molti nostri connazionali egli annoverava tra i propri amici, compresi Sir Horace Mann ed Horace Walpole suo corrispondente, che parla di Cocchi con affetto, se non con troppo rispetto.

 

“Conosco molto bene il Dottor Cocchi. Egli è più un buon uomo che un grand’uomo. Onesto e semplice e di buona conoscenza. Gli inglesi, oserei dire, vi diranno che egli è dotato di un particolare tipo di comprensione, cosa alla quale credono sinceramente.”[xlv]

 

Walpole se ne fece, in seguito, una più alta opinione:

 

“E’ terribile che un uomo valente e che potrebbe essere così utile alla società debba essere tanto negletto.”[xlvi]

 

“Vorrei sapere l’opinione del Dottor Cocchi e la vostra sui due nuovi libri francesi, se li avete veduti. Uno è Esprit des Lois di Montesquieu, che io credo sia il miglior libro che sia mai stato scritto.”[xlvii]

 

“A parte il buon Dottor Cocchi, quale altro amico comprensivo avete a Firenze che si farà carico della vostra infelicità?”[xlviii]

 

Il Conte di Cork, nello scrivere al suo amico Duncombe il 29 novembre 1754 si raccomanda che egli incontri il Cocchi dicendogli:

 

“Il sig. Mann è fortunato avendo l’amicizia, la competenza e le cure del suo medico, il Dottor Cocchi. Si tratta d’un uomo dalla vasta cultura. Capisce, legge e parla ogni linguaggio europeo; è studioso, educato, modesto, umano e istruttivo e dovrebbe essere sempre ammirato ed amato da chi lo conosce.

Potessi io vivere con questi due gentiluomini solamente e conversare con nessun altro scarsamente proverei il desiderio di far ritorno in Inghilterra per molto tempo.”[xlix]

 

D’altra parte Cocchi ebbe una grande ammirazione per la nazione inglese. Scrivendo dall’Inghilterra ad un amico a Firenze egli disse: ”Bisogna che si renda loro giustizia, con tutti i loro vizi e le stravaganze essi completamente padroneggiano la prudenza, il coraggio e la cortesia.”

 

E, più tardi: “Non troverete, in Inghilterra, un gentiluomo che sia un completo ignorante, sebbene nel resto del mondo ve ne siano in abbondanza di tal fatta.”

 

Cocchi lasciò un figlio, Raimondo, che divenne anch’egli Dottore e uomo di scienza, e secondo Walpole, anche dotato di un buon senso dell’umore, che anzi, egli si augurava che tale dono non avesse a portargli male con l’inquisizione, un’istituzione certo non prona agli scherzi.

 

Il giovane Cocchi morì alla sola età di 40 anni nel 1777.

 

La figlia d’Antonio, Beatrice, sposò Angiolo Tavanti, economista di fama e Ministro di Stato sotto i Granduchi Francesco e Leopoldo I. Anch’essa aveva solida educazione ed ebbe una certa notorietà per aver tradotto un libro dall’inglese.

 

Così si può dire che tutti i Cocchi fossero persone di talento, piuttosto avanzati rispetto ai loro giorni.

 

GIUSEPPE CERRETESI

  

Un membro della Loggia il cui nome spesso appare nel famoso processo dell’Inquisizione fu Giuseppe Cerretesi, un altro poeta. Egli affermava essere di nobile famiglia, sebbene dicesse anche che l’unica eredità che gli fosse rimasta in sorte fosse quella di soffrire di gotta.

 

Si diceva che fosse un frammassone, cosa che lo portò ad incontrarsi con un giovane e sciocco nobiluomo del quale tratteremo in seguito, al momento che uno stupido gesto condusse diverse persone in guai seri.

 

Si vuole che cercando il Cerretesi rifugio dal temporale causato dal processo a Crudeli ebbe a recarsi in Inghilterra ove fu introdotto a Sir Robert Walpole da suo figlio Horace, ma parlando Sir Robert solamente inglese e latino e non conoscendo il Cerretesi parola di nessuna delle due lingue, non potrà certo affermarsi che il Primo Ministro o il suo visitatore possano aver avuto discussioni illuminanti.[l]

 

Il rifugiato non trovò in Inghilterra la Terra Promessa, avendo a soffrire colà tutte quelle privazioni così note ai poeti bisognosi. Fece poi ritorno in Italia dove, nel 1756 pubblicò a Milano una traduzione dei Saggi Morali del Pope che in ogni modo ce lo rende interessante, sebbene critici più qualificati di noi nel giudicare tale opera ebbero a dichiarare di come il fluire dei versi eccedesse la sua stessa ispirazione.

 

ABATE OTTAVIANO BUONACCORSI

 

Altro membro di Loggia, anche l’Abate Buonaccorsi è spesso citato nel corso del processo dell’inquisizione. Nacque da famiglia patrizia e divenne studioso erudito, filosofeggiando sulle dottrine epicuree lontano dal frastuono delle masse.

 

Nel 1744 pubblicò un volume in difesa di quella filosofia il quale, oserei dire, oltraggiò molte più persone di quante ne convertisse. Le sue tendenze edonistiche le spiegano l’amicizia con Stosch del quale fu intimo amico ed ammiratore, nonché uno dei suoi esecutori testamentari alla morte.

 

A causa di una sua grave malattia riuscì a sfuggire all’arresto da parte dell’Inquisizione nel 1739, poiché il Ministro Tornaquinci ne ritardò la cattura fin quando non si fosse ristabilito; poi, come conseguenza dello scalpore sollevato dal caso del Crudeli, l’ordine d’arresto non fu mai eseguito.

 

 

ABATE VANNESCHI

 

Non vi è alcuna certezza che l’Abate Vanneschi sia stato mai membro della Loggia di Firenze, mentre le voci che lo volevano frammassone si originarono forse dal fatto che egli fosse in stretti rapporti con Lord Middlesex, il quale lo impiegò per scrivere i libretti per le opere ed aiutare nella loro produzione. Quest’occupazione lo condusse in visita a Londra e conobbe Walpole a Calais mentre s’imbarcava, assieme con le stelle dell’opera, alla volta dell’Inghilterra:

 

“Fui sorpreso da Amorevoli e da Monticelli, che sono qui con me assieme con Viscontina e Barberina e l’Abate Vanneschi …… che bellimbusto! Avrei voluto parlargli dell’opera, ma egli sembra solo interessato alla politica.”[li]

 

“Conoscete Vanneschi, il poeta favorito del Conte di Middlesex,” egli scrive nel novembre del 1741, mentre nell’aprile del 1743 egli così ne fa il necrologio: “Abbiamo udito che Vanneschi è morto. Bonducci ci assicura che egli ha avuto successo in Inghilterra, ha prodotto opere, ingannato Lord Middlesex, cambiato religione e sposata una Dama.”[lii]

 

L’ultima volta che Horace cita il Vanneschi è il 14 aprile 1743: “Non so, veramente, se Vanneschi sia morto; egli sposò una donna inglese del popolo tenuta dall’Amorevoli, così che l’Abate approfittò d’ogni occasione che l’Opera gli presentasse.”

 

In realtà, Vanneschi divenne Impresario in Inghilterra ove spesso litigava con il cantante Mingotti, si rovinò a causa delle sue avventure teatrali, fece bancarotta e fu sbattuto in prigione, da dove uscì solo per essere raggiunto, alfine, dalla morte.

 

Naturalmente, di tutti i libretti delle sue opere quali Il Fetonte nulla rimane, tutto essendo stato inghiottito dall’oblio delle cose delle quali non vale la pena il ricordo.

 

Tutto considerato, se anch’egli fosse stato un frammassone, quella Società non avrebbe avuto motivo di iscriverne il nome nel suo Libro d’Oro.

 

TOMMASO CRUDELI

 

Eccoci dunque a considerare colui il quale possiede, peraltro, più fama di qualsiasi altro membro della Loggia, poiché quando la Società cadde sotto la proibizione della Chiesa egli ne fu fatto il capro espiatorio per tutta quella fratellanza così detestata, sì che gli altri frammassoni italiani non n’ebbero dannose conseguenze, se si esclude la paura e l’apprensione di essere tenuti sotto stretta sorveglianza da parte del Sant’Uffizio.

 

Crudeli era imprudente nelle parole così com’era attivo nella Società, e fu in conseguenza di ciò che egli ebbe a pagare per tutti gli altri. Tra gli avventori dei caffè e i frequentatori delle librerie fiorentine degli anni trenta non si sarebbe potuto fare a meno di notare un giovane magro, simile a Dante nelle fattezze incorniciate dalle ridicole parrucche dell’epoca.

 

Occhi neri brillanti e mobilissimi, mento prominente e naso adunco erano segni d’un uomo prono alla satira che era sempre pronto ad esprimere senza curarsi delle occasioni o della compagnia. A chi n’avesse domandato si sarebbe risposto che egli era il Dottor Tommaso Crudeli del Casentino, asmatico e tubercolotico, ma dal fine talenta e la parlata deliziosa, popolare sia tra i fiorentini sia gli stranieri a causa dei propri modi affabili.

 

Nacque a Poppi nel 1703 da famiglia agiata, alcuni membri della quale ebbero alti incarichi nella Chiesa. Dopo essere stato educato da buoni maestri a Firenze, ove egli fu esposto alle nuove idee che circolavano nel periodo egli si recò, a 18 anni, all’Università di Pisa a studiare Legge.

 

Nel 1722 ottenne il dottorato da ambedue le Università per poi recarsi a visitare Padova e Venezia, città nella quale divenne tutore presso la famiglia Contarini, famiglia che aveva prodotto ben otto Dogi della Repubblica.

 

La salute cagionevole lo obbligò però a far ritorno a casa e fino al 1733 egli si divideva tra il Casentino e Firenze, città nella quale alfine si stabilì abbandonando la pratica legale per dedicarsi ad insegnare l’italiano agli stranieri, ed agli inglesi in particolar modo, dei quali vi era gran numero in città.

 

Con questi egli acquistò molta fama, in parte per il suo talento nell’insegnare la bella lingua toscana ed in parte e forse più a causa dei suoi modi piacevoli e della libertà di pensiero e d’espressione che non poteva non piacere ai nativi del paese di Swift, Bolingbroke e Pope.

 

Era nelle grazie del Residente inglese, il Ministro Charles Fane e poi di Horace Mann del quale ne frequentava la società ed i ricevimenti; quest’ultimo si dimostrò essere un amico costante anche nel successivo momento del bisogno.

 

Ci si dice che non appena un visitatore inglese giungesse in città subito cercasse il Dottor Cocchi per la propria salute ed il Dottor Crudeli per curare la propria ignoranza dell’italiano. 

 

“Neppure i più severi attacchi d’asma riuscivano a fiaccare il suo spirito, che rimaneva sereno e tranquillo” dice il suo biografo italiano, “né lo dissuadevano dal cercare avventure nel dominio di Citèra, dal quale egli non sempre ritornava indenne.”[liii]

 

Oltre ad essere spiritoso ed amante della conversazione, Crudeli era anche poeta d’una certa vena lirica leggera, così come i tempi imponevano; in breve, uno dei molti gentiluomini che si dilettavano di scrittura.

 

Innamorato d’ogni novità come la maggior parte dei suoi concittadini, quando seppe dagli inglesi delle riunioni massoniche di Via Maggio ne bramò il poterne partecipare, anche se per un certo periodo la paura di incorrere nelle ire della Chiesa ve lo tenne lontano.

 

Avendo però udito che personaggi come Cocchi, Galassi, il Portastendardi del Duca, e due frati agostiniani irlandesi del convento di S. Spirito erano divenuti membri della Loggia egli si risolse a chiedere l’iniziazione nel 1735 e tale fu il suo entusiasmo per le nuove cerimonie e per le discussioni che avvenivano ai successivi banchetti che presto divenne uno dei fratelli più zelanti della Loggia, al quale fu affidato l’ufficio di Segretario.

 

Per quanto invece riguardava il mondo in generale, egli viveva senza ambizione di eccellere in alcunché di particolare né di diventare poeta di fama, accontentandosi di trascorrere i suoi giorni tra amici scelti senza riguardo al domani che, essendo questo incerto per ogni uomo, vieppiù lo era per lui.

 

Distrazioni e divertimenti erano lo scopo della sua vita, ancor più di quanto fosse stato saggio indulgervi per il suo buon nome, mentre nelle sue composizioni satiriche egli talvolta eccedeva i limiti imposti dalla stessa decenza e dalle buone maniere.

 

La corte e la città di Firenze gli fornivano sufficienti modelli d’iniquità da bacchettare e, nel farlo, il Crudeli non vi andava certo coi piedi di piombo. Era usanza dell’epoca il non lesinare nel rimarcare errori e peccatucci altrui in modo pesante, così come abbiamo ripreso oggi a fare e non vorrò certo essere io a negare la rudezza delle espressioni del Crudeli nel mettere alla berlina, in modo spesso rapido e pesante, le manchevolezze di più d’un figlio della Chiesa, specie, questa, contro la quale volentieri si accaniva con particolare indulgenza, essendo alcune di queste grezze tirate ricordate in seguito per anni dopo il proprio pentimento.

 

Il di lui biografo Sbigoli ci racconta di un paio d’aneddoti dovuti alla lingua senza freni del Crudeli, il primo relativo all’avviso alquanto profano da lui rivolto ad un padre gesuita alla ricerca d’un libro sacro in un negozio specializzato in pubblicazioni d’altro genere, ed il secondo relativo al suo stuzzicare un ignorante prete di campagna.

 

Senza dubbio, Crudeli era sempre troppo pronto a cercare una vittima clericale da prender per i fondelli, abitudine che fu infine annotata da chi di dovere così che, al momento debito, sia il Nunzio sia l’Inquisitore principiarono a porsi dei dubbi sia sulla fede sia sulla morale di quel poeta scapestrato e buffone.

 

Dei risultati di tali ricerche ne saprete più che abbastanza prima della fine di questo saggio.

 

UNA SECONDA LOGGIA A FIRENZE?

 

Lo Sbigoli, senza rivelarne le fonti, ci riferisce[liv] di un’altra comunione massonica che si riuniva a Firenze in quegli anni senza che vi fosse alcuna connessione eccetto quella della comune fratellanza, con la Loggia di Middlesex. Se tali fatti corrispondessero a verità, si sarebbe trattato d’una associazione meno aristocratica e conos iuta dell’altra.

 

“Durante gli ultimi anni del Granduca Gian Gastone viveva a Firenze un certo signor Reid, il quale essendo male in arnese, e conoscendo la sete di curiosità dei fiorentini, si teneva sempre aggiornato e ben informato sulle dicerie e le voci di città per eventualmente poterne trarre un qualche vantaggio.

 

Non appena a Firenze si ebbe notizia della Loggia e del segreto inviolabile imposto sui suoi membri, molti cittadini ne cominciarono a chiedere notizie, mentre non pochi n’agognavano l’ingresso. Il Reid, anch’egli massone, non fu certo lento nel soddisfare quei desideri, riuscendo a far ammettere alcuni tra i più facoltosi di costoro in quella Società misteriosa.

Secondo la documentazione[lv] vi erano circa 60 membri fiorentini i nomi di molti dei quali sono sconosciuti mentre non vi è certezza che i pochi nomi noti appartenessero realmente a membri di quella Società.”

 

Ecco che qui abbiamo nuovi elementi di speculazione. Forse il bisognoso Sig. Reid inaugurò ciò che i nostri fratelli d’oltre oceano chiamerebbero una “campagna vendite” per conto della Loggia di Middlesex, ma in tal caso quei nuovi membri sarebbero forse stati i benvenuti forniti d’una raccomandazione di tal fatta? Oppure il Reid si costituì una propria Loggia di tipo irregolare? Allo stato attuale delle informazioni in mio possesso non sono in grado di fornire alcuna risposta.

 

LA BURRASCA S’APPRESTA

 

Abbiamo visto di come molti dei fiorentini dei quali si sapeva l’appartenenza alla Loggia fossero uomini d’educazione liberale e idee avanzate per quei tempi. L’italiano medio però, ed in particolar modo gli appartenenti al clero dovettero aver considerato quella nuova società in modo tutt’altro che benevolo poiché essa proveniva dall’Inghilterra, e non era forse quel paese la Mecca d’innumerevoli eresie?

 

Vi era però appoggio anche da parte della Chiesa. Nel 1735, prima cioè che la Società fosse proibita dal Papa, la Loggia iniziò due frati agostiniani del convento di Santo Spirito di nome Denij e Flud;[lvi] ambedue irlandesi ed ambedue oggetto, con particolare riferimento al secondo, di severa persecuzione nel loro paese ai danni della religione Cattolica romana.

 

Ad ogni modo, l’esempio dato dall’ingresso di simili pie persone contribuì a por fine ai dubbi di coloro che fossero voluti essere ammessi alla Loggia ma se ne trattenevano per paura o per scrupolo.

 

In generale, quegli italiani che lasciarono prevalere il loro senso di prudenza sulla curiosità si dimostrarono più saggi degli altri perché entro un paio d’anni dall’ingresso di Middlesex la Loggia divenne oggetto d’attenzione da parte dell’Inquisizione, e l’essere sotto osservazione del Sant’Uffizio era l’ultima cosa che ogni italiano avrebbe voluto attrarre su se stesso.

 

Il Lagomarsini, un gesuita, fece apertamente allusione ai frammassoni nel periodo della guerra dei libri che si svolse tra il suo ordine e quello degli Scolopi[lvii] a Firenze nel 1737 asserendo che a quella Società, sebbene ancora non proibita da Roma, non sarebbe stato concesso di esistere a lungo in Italia, avendogli il Papa posto gli occhi addosso.[lviii]

 

Naturalmente il Lagomarsini attribuiva strane dottrine alla nostra fratellanza: egli dichiarò che una delle pietre miliari della frammassoneria era quella di non permettere la lettura di alcun libro che fosse stato scritto da gesuiti ma anzi, al contrario, comprare e leggere scritti dei loro opponenti, e conseguentemente nelle nostre Logge le Lettere Provinciali di Pascal erano considerate alla stessa stregua della Bibbia: tutto ciò può apparirci ridicolo, sebbene si possa dire di come le controversie non abbiano mai alcun senso del comico.

 

Il Dottor Lami, anch’egli ritenuto essere un massone, replicò con una satira feroce a questa diatriba, una satira nella quale egli inserì una difesa dei frammassoni.[lix] Le loro riunioni, egli disse, sono segrete, ma rette sono le aspirazioni ed il comportamento, e stupido è da parte dei loro opponenti l’attaccare “ questi nuovi misteri eleusini” alla celebrazione dei quali egli peraltro non aveva mai assistito.

Il Lami terminava poi suggerendo, in accordo coi gusti e le maniere del secolo, l’uso molto basilare cui gli offesi massoni avrebbero potuto destinare il libro del Lagomarsini e gli altri dello stesso genere.

 

I gesuiti contrattaccarono bruciando pubblicamente la satira del Lami ed arrivando fino ad influenzare Clemente XII, cieco e malato, succube del nipote il Cardinale Corsini, il quale, nel giugno 1737 convocò a Roma l’Inquisitore Capo di Firenze Paolo Antonio Ambrogi che incontrò i Cardinali Ottobini, Spinola e Zondadari a proposito della nuova fratellanza sulla quale si raccontavano strane vicende.

 

Nel corso di tale consesso si dice che un’attenzione particolare fosse data al segreto osservato dai frammassoni nonché ai giuramenti ed alle varie pene a quelli associate che venivano estratte agli iniziati.

 

Il risultato ultimo di questo conclave fu il redigersi della famosa bolla pubblicata il 28 aprile dell’anno successivo dove, per la prima volta, la Società dei frammassoni veniva proibita e scomunicata. Il 25 giugno 1737 è la data alla quale la Società veniva condannata nel corso di una riunione dell’Inquisizione tenutasi a Roma.[lx]  

 

 

L’INQUISIZIONE PASSA ALL’AZIONE

 

Molto tempo prima dell’accadersi degli eventi ai quali abbiamo fatto riferimento, l’Inquisitore Capo Ambrogi teneva costantemente informato il Sant’Uffizio a Roma riguardo alle riunioni dei frammassoni.

 

Egli aveva già ricevuto diverse denuncie di quella società, anche se non è dato sapere se si facesse riferimento a fatti realmente accaduti o a dicerie riferite da voce di popolo, e ad un certo momento del 1737, la data precisa del quale non sono stato in grado di scoprire, egli riuscì ad ottenere l’aiuto del Braccio Secolare (Braccio Regio) contro i Frimmessons, nome con il quale la società dei frammassoni era nota a Firenze.

 

Non avendo avuto alcun successo nel convincere l’Auditore Pini, si risolse a recarsi direttamente a Palazzo Pitti dove, nell’anticamera del Granduca ebbe un incontro con Rucellai[lxi], al quale si rivolse con gran veemenza a proposito della Loggia (congrega), riferendosi a quella come a pericolosa setta ereticale.

 

Non avendo ottenuto le risposte desiderate da parte del Rucellai, dopo molta insistenza ottenne udienza personale da Gian Gastone, ormai moribondo. Alla sua richiesta al Duca di garantire, così come avrebbe fatto il Santo Padre, l’intervento del Braccio Secolare contro la società dei frammassoni, n’ebbe, suo malgrado, netto rifiuto, ed anzi l’assicurazione che, nel corso di quelle riunioni, nulla di male vi fosse perpetrato[lxii].

 

Antonio Zobi nel suo Storia Civile della Toscana[lxiii] inserisce il seguente passaggio a proposito dell’Inquisitore Paolo Antonio Ambrogi, ed io ne faccio riferimento più che altro per la relativa tempistica piuttosto che quale indicazione delle determinazione con cui egli si adoperava per i propri scopi dopo la morte di Gian Gastone, allorquando Francesco di Lorena prese possesso del Ducato:

 

“Un motivo più segreto ne influenzava (ad Ambrogi) lo spirito inquieto, la sua intenzione di scoprire i segreti della frammassoneria. Egli approfittò dell’arrivo del Duca per accusare tutti i Ministri, con la sola eccezione del Segretario di Stato, di avere scarso rispetto per la Chiesa, e supplicò l’arresto di tre persone. Il Dottor Tommaso Crudeli, poeta e letterato, che l’Inquisitore odiava da lunga data, fu la prima vittima designata … e venne tradotto alle prigioni dell’Inquisizione nel famoso Convento di Santa Croce. Fu solo una coincidenza se anche Giuseppe Cerretesi non venne arrestato, poiché il Conte di Richecourt, stizzito per il destino del Crudeli, si oppose a quel nuovo arresto con le unghie e coi denti. Il nome della terza vittima potenziale non venne mai rivelato, anche se il probabile candidato al sacrificio era l’Abate Ottaviano Buonaccorsi, che venne risparmiato a causa del proprio pessimo stato di salute.”

 

Tutto ciò, naturalmente, avvenne un anno dopo, ma è qui importante il rammentare che mesi prima dell’apparire della famosa Bolla In Eminenti contro i frammassoni, la società era già divenuta molto sospetta agli occhi della Chiesa Cattolica Romana.

 

E non fu solamente tra il clero e i devoti che la Loggia appariva sospetta: molti tra gli uomini di stato, infatti, si sentivano messi a disagio dalle nuove idee di governo, allora aliene all’istituzioni italiane, che quella avrebbe potuto propagandare. Il Diodati infatti, inviato della Repubblica Lucchese a Firenze, scrisse, in quello stesso anno del 1737 diverse lettere al proprio governo in relazione agli accadimenti della Loggia e dei suoi membri.

 

Il colloquio tra l’Inquisitore e Gian Gastone dette la stura a numerose chiacchiere ed illazioni, alle quali il Diodati tentò di dar forma e senso in una lettera del 16 giugno ai suoi capi, lettera che è per noi importante per le informazioni in quella contenute sulla Loggia ed i suoi appartenenti[lxiv]. Eccone un breve resoconto.

 

“A Firenze si è stabilita un’assemblea di frammassoni, ad imitazione di simili società esistenti in Inghilterra, per l’opera di Lord Middlesex, di un altro inglese il cui nome resta sconosciuto, del Barone Stosch di Hannover, e di un Ebreo, anch’esso ignoto. A questi membri originali si sono aggiunti alcuni toscani comprendenti membri della nobiltà e del clero, e semplici cittadini”.

 

L’Inviato aggiungeva che, anche se il governo avesse risolto di dissolvere quella società a Firenze, la cosa non sarebbe certo stata facile a causa del disordine che regnava nell’apparato statale e dell’incerta condizione politica creatasi a conseguenza della condizione morente del Duca.

 

Una delle conseguenze della lettera del Diodati fu che le autorità lucchesi si attivarono subito per prevenire la possibile nascita di una loggia nella loro repubblica, e poiché gli abitanti di Lucca del diciottesimo secolo non erano certo inclini alle novità come invece lo erano stati quelli del sedicesimo, non vi è segno, allora ed in seguito fino agli ultimi giorni della repubblica, dell’esistenza dei frammassoni in quel piccolo stato italiano.

 

DISSOLUZIONE DELLA LOGGIA A FIRENZE

 

A Roma, dopo lunga deliberazione venne emessa da Clemente XII, il 28 aprile 1738 la Bolla In Eminenti. Del documento ne sono disponibili molte traduzioni, sarà quindi sufficiente il ricordare che in questo decreto il Papato attribuisce alla fratellanza carattere sovversivo a causa del segreto che veniva osservato nel corso dei nostri lavori usando queste parole: nisi enim male agerent, tanto nequaquam odio lucem haberent. In una parola, la Chiesa condannava la Massoneria in quanto pericolosa per l’anima, proibiva ai cattolici di unirsi all’Ordine, ed ordinava a Vescovi ed Inquisitori di considerare eretici i membri di quell’associazione e perseguirli come tali.

 

Al Consiglio di Reggenza fiorentino, così come ai frammassoni stessi, la Bolla non fece certo piacere: non venne in ogni modo concesso di applicarla in Toscana, poiché il governo del Duca Francesco, considerando la massoneria una società civile e non una religione, si oppose a quest’interferenza nel potere dello stato.

 

L’effetto però sull’uomo della strada fu grande ed immediato ed i fiorentini che erano stati ammessi all’Ordine, una volta venuti a conoscenza del veto papale, vuoi per scrupolo religioso, vuoi per tema del Sant’Uffizio, cessarono di praticare le riunioni della Loggia.

Anche il Signor Collins, nella cui casa i massoni si riunivano, si spaventò e dopo essersi consultato con Crudeli, che all’epoca fungeva da segretario, i due si risolsero a parlarne con Charles Fane, il Residente inglese.

 

Tutto ciò si spiega facilmente con il fatto che essendo stato Middlesex sostituito alla guida della Loggia da Lord Raymond, uno scriteriato giovinastro, vi era motivo di ritenere che questi non sarebbe stato in grado di evitare lo scandalo.

 

Con l’assistenza delle virtù diplomatiche del Fane, che deve aver ben realizzato la delicatezza della situazione nella quale i frammassoni inglesi si ritrovavano in seguito all’emissione della Bolla papale, si riuscì a persuadere Lord Raymond a dissolvere la Loggia. Da quel momento sappiamo che né inglesi né fiorentini ebbero più a riunirsi come riunione massonica coperta (in assemblea ordinata).

 

Se mai si possa provar soddisfazione alla chiusura di una loggia massonica, pure in questo caso possiamo forse indulgere in tale sentimento, poiché l’intero incidente rimane un tributo al buonsenso che ha spesso distinto la frammassoneria inglese.

 

Quando infatti i fratelli scoprirono che la pianticella che essi avevano trapiantato su suolo italiano non era adatta a quel clima, piuttosto che permettere che degenerasse dall’originale radice generosa in qualcosa di più simile ad una pianta tossica, essi saggiamente preferirono d’estirparla.

 

Nel far calare il sipario su quest’episodio vorrei far notare di come si tratti dell’unico caso del quale io sia a conoscenza della frammassoneria che possa aver causato disturbo ad una qualsivoglia Cancelleria europea poiché, come vedremo, il guaio fatto non ebbe a dissiparsi interamente con la dissoluzione della loggia.

 

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PARTE 2.

 

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L’INQUISIZIONE

 

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L’ULTIMO DEI MEDICI

 

Il 9 luglio 1737 Gian Gastone, ultimo Gran Duca della famiglia dei Medici moriva a Firenze. La sua morte dette al partito clericale nuove speranze di ottenere più poteri nello stato di quanti già n’avesse al momento della sua incoronazione nel 1723.

 

Tale speranza si basava in massima parte sull’influenza che si sapeva esistere da parte dell’Elettrice Palatina in tutto ciò che riguardava il nuovo regno, poiché il Granduca Francesco di Lorena n’aveva ammirazione a punto tale che ebbe a offrirle in due occasioni la Reggenza di Toscana, e anche dopo che ella ebbe rifiutato, si notò nondimeno che il Principe di Craon, capo del nuovo governo reggente, fu sempre pronto nel mostrarle la più gran deferenza dal primo momento del suo arrivo in Toscana.

 

Questa devota signora, Anna Maria, figlia di Cosimo III e sorella di Gian Gastone al quale fu sempre tuttavia estranea, era la vedova di Giovanni Guglielmo, Elettore Palatino.

Estremamente ricca, si dedicò a patrocinare ogni forma d’arte, essendo essa stessa pittrice di qualche talento, sebbene il grosso delle ricchezze ed energie essa dedicasse ad opere di bene.

 

Al momento della sua morte, il 18 febbraio 1743 si stimò che ella spendesse 1000 corone alla settimana per la costruzione della cappella di San Lorenzo, mentre per molti anni in precedenza aveva dedicato almeno 1000 zecchini al mese alle opere caritatevoli.

Il di lei senno, tatto, e gentilezza di cuore sono perfino evidenti nel testamento, così come Mann ebbe a scrivere a Walpole riguardo a quel particolare documento:

 

“Si dice in città che v’è una donazione per il re d’Angheterra (in italiano nel testo), ma ho paura[lxv] si tratti di qualcuno che essa chiama così a Roma …tutto ciò io m’aspettavo, sebbene sia da notarsi la delicatezza e la circospezione del dono – un anello – per il Principe, figlio di Re Giacomo II d’Inghilterra”.

 

Se un simile personaggio si fosse dedicato alla politica, allora sì che il clero avrebbe potuto ben cullare più alte speranze di incrementare la propria influenza, vieppiù che confidente e confessore di questa “Eroina del suo secolo” era padre Ignazio Giacomini, della Società dei Gesuiti.

 

LA SITUAZIONE A FIRENZE DAL 1737

 

Perfino dopo che i frammassoni ebbero cessato di riunirsi a Firenze, si continuò a sospettare che essi avessero potuto introdurre nuove e pericolose idee sulla religione e sul governo nella società; si capirà facilmente quindi di come, nel periodo degli ultimi mesi di vita della loggia fiorentina, ecclesiastici della vecchia scuola rimanessero molto interessati a scoprire quanto possibile dei segreti massonici.

 

Secondo lo Sbigoli, l’Arcivescovo di Firenze ed il Nunzio papale, assieme con l’Arcivescovo di Corinto Stoppani erano da annoverarsi tra coloro che più perseguivano tale fine mentre l’Inquisitore Ambrogi, che ebbe non secondaria parte nell’applicazione della Bolla papale, si adoperava attivamente in cerca d’ogni segnale di possibile informazione.

 

Per quello che riguarda gli eventi successivi, non è facile essere precisi con le date relative ad ogni specifica occorrenza. Degli accadimenti che si susseguirono noi sappiamo da documenti giurati, mentre troppo spesso l’anno ed il mese, per non dire il giorno è lasciato alla congettura, conferendo al tutto un’aura di vaghezza, che nessuno deplora più di me medesimo, la quale offusca ed affievolisce le manovre messe in atto dai cani da guardia dell’Inquisizione.

 

E’ in ogni modo certo che alcuni tra il clero minore, forse più loquaci che discreti, categoria nella quale ho tema debbano annoverarsi i nostri frati irlandesi, furono condotti alla prigione di Santa Croce in quanto sospettati di essere a conoscenza di fatti inerenti alla misteriosa fratellanza dei frammassoni; il 9 giugno 1738 un prete di nome Bernini venne a lungo interrogato dall’Inquisizione sui suoi contatti coi visitatori inglesi e sottoposto alla solita pressione fatta di minacce e lusinghe per indurlo a rivelare quanto sapesse.

 

Alcune delle domande che gli furono rivolte mostrano chiaramente cosa ci si aspettava che questi rivelasse, poiché gli si chiese se Tommaso Crudeli, gli Abati Franceschi e Buondelmonti ed il dottor Luca Corsi erano dei frammassoni. Il Bernini in ogni caso, anche se sapeva qualcosa, cosa sicuramente incerta, non disse alcunché, ma quest’incidente rimase ad indicare le linee d’azione lungo le quali ci si muoveva.

 

Nel frattempo si preparavano in segreto, contro certi fiorentini, le accuse che poi sarebbero state rese pubbliche al momento opportuno, cioè quando il governo avesse finalmente concesso il permesso per il loro arresto.

 

Ciò che però l’Inquisizione aveva più di tutto a cuore era l’ottenere un decreto di bando da Firenze d’alcuni stranieri, in primo luogo inglesi.  All’inizio della lista, quale capo dei criminali, eravi il Barone Filippo von Stosch poiché quest’antiquario e tessitore d’intrighi era odiato e temuto assieme, e riuscire ad espellerlo avrebbe significato, secondo l’Inquisizione, recidere alla radice la cospirazione, naturalmente senza prendere in considerazione ciò che il Residente Inglese avesse avuto da dire sulla vicenda.

 

In pratica, l’infido Barone Prussiano era al servizio del governo inglese, anche se malvisto dagli inglesi residenti in città, cosa che gli assicurava un certo grado di protezione; tale status fece sì che la sua espulsione, dopo essere stata decretata, fosse differita inizialmente di qualche tempo alfine di acquietare le proteste di Sir Horace Mann, e poi posposta sub silenzio alle calende greche[lxvi].

 

La difesa di Mann del Barone non cadde su orecchie sorde poiché il Consiglio della Reggenza era composto da uomini poco inclini ad inginocchiarsi ai voleri ed alle interferenze clericali negli affari secolari.

Il lorenese Conte Emanuele di Richecourt, Primo Ministro virtuale ed il fiorentino Giulio Rucellai, Segretario del Regio Diritto, dipartimento che si occupava delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato, erano ambedue aperti opponenti dell’usurpazione clericale[lxvii]; ed anzi si mormorava trattarsi di frammassoni.

 

Erano invero valenti e risoluti uomini di stato, degni di ricoprire incarichi ben maggiori di quelli offerti dal piccolo Granducato di Toscana.

 

Mentre la tempesta ancora si addensava sul capo dei frammassoni, il governo reggente, nell’agosto del 1738 già incrociava le spade con il Sant’Uffizio per uno scandalo causato dal comportamento di un indegno prete di Siena, ed iniziava un’inchiesta sulle procedure adottate dal Sant’Uffizio stesso in Toscana alfine di preparare un rapporto per in nuovo Granduca, che non aveva ancora avuto alcun’opportunità di essere messo a parte di quei metodi nella sua nativa Lorena, ove il Sant’Uffizio non fu mai operativo; queste frizioni tendevano a diminuire ulteriormente il poco affetto esistente tra la Reggenza e l’Inquisizione a Firenze.

 

Francesco fece la sua prima apparizione nel Granducato, assieme con sua moglie Maria Teresa il 19 gennaio 1739 ricevendone un caloroso benvenuto dalla popolazione, che fu felice di conoscere il nuovo sovrano e sperò che egli rimanesse a Firenze se solo gli avessero dimostrato lealtà. In ogni modo, burle in versi dell’epoca mostrano di come la dinastia dei Lorena e i lorenesi in genere i quali formavano il governo non fossero popolari con coloro che ricordavano il passato regime mediceo:

 

“Lotto, lusso, lussuria e lorenesi,

Quattro L c' han rovinato i miei paesi”

 

Ed anche

 

“Co’ Medici un quattrin facea per sedici;

Dacché abbiamo la Lorena, non si desina né si cena”.

 

Le osservazioni del viaggiatore francese Carlo de Brosses, che visitò Firenze nell’ottobre del 1739, serviranno a commentare codeste rime popolari[lxviii]:

 

“Invero la Toscana ha sofferto gran perdita con la fine dei Medici. I fiorentini essendo così convinti di ciò che non vi è alcuno che volentieri non darebbe un terzo dei propri averi per vederli risorgere dai morti, ed un altro terzo per liberarsi dai Lorenesi. Niente può eguagliare il dispregio con il quale questi ultimi son visti a Firenze, se non l’odio mostrato dai milanesi ai piemontesi … così che, a Firenze, noi francesi siamo ben visti ovunque, ed i lorenesi in alcun luogo … E’ vero che i lorenesi li hanno maltrattati, e ciò che è peggio, disprezzati. Il Signor de Richecourt di Lorena, quale plenipotenziario del Maestro suo, è uomo di risorse e di talento, come ognuno sa, ma mi si dice che egli non abbia avuto molto tatto nel gestire un governo fatto da stranieri. Si direbbe che i lorenesi guardino alla Toscana come ad una terra di soggiorno temporaneo, ove si debba prendere tutto ciò che si può senza curarsi del futuro.”

 

A parte lo scarso successo del suo governo, Francesco era uomo d’idee liberali che sperava poter fare del suo meglio per i nuovi sudditi, a patto non fosse costretto a viverci assieme.

Nei fatti di religione si mostrava molto tollerante, ma come re intendeva essere padrone in casa propria, male accettando le pretese dell’Inquisizione di ergersi a legge in se stessa.

 

Non vi è dubbio che esistesse un reale timore del Sant’Uffizio, e di come questo timore fosse ancora più forte nel caso di stranieri, così come dimostrato dal comportamento del famoso archeologo Valentino Jamaray Duval[lxix], amico e protégé di Francesco, che lo accompagnò a Firenze, ed avendo udito di come l’Inquisizione permeava la vita d’ogni giorno della società toscana fu spaventato a tal punto che chiese permesso di far ritorno a Nancy all’istante, né si calmò alla solenne promessa fattagli dal Granduca di proteggerlo in ogni caso dal Sant’Uffizio. Il Duval obbiettando, infatti, che per quanto gli fosse dato sapere, ogni protezione sarebbe stata insufficiente; al che Francesco si risolse a adoperarsi per far terminare un simile stato di cose.

 

Parole coraggiose, sebbene il Duca non fosse, in effetti, libero di fare come avrebbe voluto, com’ebbe presto a scoprire. Vi era, infatti, un naturale timore d’offendere la Chiesa, ferendola nella propria stretta ortodossia, cosa che egli sempre rispettò. Il Granduca dovette inoltre considerare la noia che dimostravano toscani ad esser assoggettati ai loro padroni stranieri: essi non avrebbero accettato alla leggera cambiamenti d’antiche usanze, non importa quanto fastidiose; sono fattori come questi che probabilmente fecero scaturire dei dubbi nella mente del sovrano ed incertezze nella sua politica.

 

PUPILIANI E L’INQUISIZIONE

 

La curiosità, così almeno ci assicurano i bene informati, è sempre stata un tratto caratteristico del temperamento dei fiorentini; così che, dissolta la loggia inglese, l’interesse venne ora a concentrarsi sulla biblioteca di Stosch, dove alcuni dei vecchi membri continuarono ad incontrarsi a porte chiuse. Molti curiosi si sforzavano di scoprire che cosa mai accadesse nel corso di questi incontri, poiché essendo Stosch uno straniero ed un protestante, o peggio, un libero pensatore, ed essendo stata la sua condotta morale alquanto riprensibile, egli forniva abbastanza materiale speculativo riguardo a sospetti e supposizioni da poterne interessare una moltitudine.

 

Uno tra i più attivi ricercatori delle conoscenze segrete di questo tipo era un certo Bernardino Pupiliani di Firenze, medico di una certa notorietà e che diverrà in seguito professore presso di una delle scuole mediche della città.

 

Essendo costui buon amico dell’Abate Ottaviano Buonaccorsi fu per il di lui tramite che il nostro addivenne alla conoscenza del Barone Enrico von Stosh, fratello minore dell’archeologo. Il Barone Enrico occupava un’appartamento nel palazzo del fratello e nel fargli visita, in diverse occasioni il Pupiliani si avvide di un certo numero di persone che frequentava quei quartieri ad orari diversi sia del giorno che della notte.

 

Domandatone la ragione al Buonaccorsi, ed in particolare se si trattasse dei frammassoni, ne ebbe come risposta che costoro si ritrovavano negli appartamenti del Barone Filippo per discutere questioni di teologia e filosofia quali: se la terra si muovesse, se l’animo fosse immortale, se il mondo fosse governato da Dio o dal caso, dell’esistenza del purgatorio e via di seguito. Ma se in quella casa si svolgessero lavori massonici veri e propri, però, il Buonaccorsi non seppe dire.

 

Il Pupiliani si diede a ripetere in giro quanto aveva saputo, abbellendolo vieppiù con conoscenze più o meno personali riguardo alla massoneria, così da far intendere che egli stesso fosse parte della confraternita. Simili peccatucci di vanagloria, sebbene non passassero inosservati, avrebbero anche potuto non dare adito a serie conseguenze non fosse stato per un’affare di sottane, che portò infine il Pupiliani all’esilio e peggio.

 

La Dalida di Pupiliani si chiamava Caterina Giardi, e quando essa si accorse che il focoso amante andava via via raffreddandosi, e che anzi non aveva alcuna intenzione di menarla in isposa, trovò un modo migliore per trattate con quel villano che non limitarsi all’altero silenzio e lo denunciò quindi al tribunale per averla sedotta.

 

D’un tratto il Pupiliani si trovò a confrontarsi con una serie d’alternative, tutte alquanto fastidiose: sposare la donzella o dotarla di una dote, oppure ancora essere bandito dalla città o imprigionato, poiché tali erano le condanne civili che pendevano siccome spada di Damocle sui Casanova fiorentini dell’epoca.

 

Come se ciò non bastasse, il caso aveva attirato anche l’attenzione del Sant’Uffizio sul nostro giovane, cosa che procurava al bravo dottore non pochi grattacapi.

Egli era in tale palude impantanato quando, per la ricorrenza della domenica di Pasqua, il 29 marzo 1739 il Pupiliani, in omaggio all’uso di confessarsi invalso per quell’occasione anche tra coloro che usualmente ne facevano a meno, decise di recarsi da un suo amico, il Canonico Guadagni, per la confessione pasquale.

 

Il Canonico offrì il proprio religioso conforto all’amico consigliandolo quindi, prima di procedere alla confessione vera e propria, di passare un breve periodo di riflessione in una certa casa che i gesuiti mantenevano a quei fini. Colà egli si fece confessare da Padre Pagani il quale, sentendo dal suo penitente che si poteva trattare di fatti in qualche modo inerenti la fede, dichiarò di non possedere, in quel caso, potere d’assoluzione, ed anzi Pupiliani avrebbe dovuto autodenunciarsi all’Inquisizione.

 

Il dottore, però, era di tutto fuorché contento di dover andare a sfrucugliare in una tana di leoni e prese tempo, fintantoché le insistenze dei gesuiti e del Guadagni non lo convinsero a confessarsi con un giovane Frate del Sant’Uffizio fatto arrivare apposta per la bisogna.

 

L’inquisitore gli domandò se egli non avesse mai discusso di certe dottrine con persone quali il Crudeli, Buondelmonti, Franceschi, Buonaccorsi e Rucellai, che si pensava fossero massoni, e quando non riuscì ad ottenere nulla d’importante a questo proposito, passò a chiedere delle conventicole che si tenevano in casa di Stosch, domandando se le persone suddette fossero frequentatori del luogo. In particolare si chiedeva se Pupiliani non avesse mai udito il Crudeli offendere la religione, ed avendone ancora ricevuta risposta negativa, se il Pupiliani lo considerasse essere un buon cattolico, al che la risposta fu: “Beh, così e così!”.

 

Dopo aver scritto tutte le risposte, l’Inquisitore impose al Pupiliani l’obbligo di segretezza e gli amministrò l’assoluzione, congedandosi dal proprio penitente.

Dopo alcuni giorni Pupiliani, su consiglio del Canonico Guadagni lasciò Firenze per Livorno per qualche tempo, mettendosi in salvo dalla signorina Giardi ed evitando di attirarsi nuove attenzioni da parte del Sant’Uffizio.

 

In questo modo si ottenne materiale prezioso per l’accusa a Stosch, Crudeli e agli altri nei libri neri dell’inquisizione, cominciando a montare il caso secondo cui il Barone prussiano era un disseminatore d’eresia, mentre gli altri dovevano essere suoi accoliti e sostenitori.

 

In ogni modo, l’Inquisitore Capo Ambrogi non aveva intenzione di perseguire i frammassoni solo per eresia senza allo stesso tempo accusarli di turpitudine morale, così com’era stato fatto prima di loro, per i templari e per le sette eretiche in generale, compresi gli stessi primi cristiani.

 

Ogni bastone è buono per battere un cane, ed ogni prova sufficiente per una condanna, se già si è certi della colpevolezza del reo: così pensava il Padre Inquisitore, e quando la fortuna gli mise tra le mani un certo Sir Andrew Aguecheek, toscano, egli prontamente lo accettò come testimone chiave per il processo.

 

MINERBETTI

 

Andrea d’Orazio Minerbetti era a buon ragione da annoverarsi tra i genuini discendenti di coloro che, in epoca elisabettiana, furono noti con il termine di “Cavalieri Stolti”.

Di nascita considerevolmente migliore del proprio cervello, questo giovane gentiluomo era noto a Firenze, così come appare dalla dichiarazione giurata d’un contemporaneo, per essere uno stolto calzato e vestito, la cui vanità faceva il paio con la di lui dabbenaggine.

 

Avendo appreso, da voci di popolo, di come molte tra le persone più in vista della città fossero divenute membri della Società dei Frammassoni, egli fece del suo meglio pur di ottenere un simile privilegio, spargendo nuova ad ampie mani, e senza riserbo alcuno, del suo desiderio di far parte della società: un metodo questo, di cercar l’iniziazione, che dimostra di come, in effetti, la sua nomea di grullo della città fosse ben meritata.

 

Naturalmente, egli alfine succedette nel trovare ascoltatori più che bendisposti a trattarlo come si meritava; la sua ricerca della vera luce divenne infine la favola della città, disposto com’era a bersi le panzane più sonore al riguardo di ciò che succedeva in una loggia massonica.

 

L’iniziazione in loggia, o l’ammissione alle conventicole che si tenevano in casa Stosch erano per lui la stessa cosa, ed i suoi tormentatori gliele facevano volentieri entrambe balenare d’innanzi come accadimenti fantastici ed elusivi.

 

Tra coloro ai quali il Minerbetti si rivolgeva alla ricerca d’informazioni sull’Ordine Massonico (così come appare dalla suddetta deposizione) vi era un certo nobile e rispettato Protestante, il cui nome non è registrato, il quale riempì la testa del povero giovane d’un mucchio di sudicie ed indecenti scempiaggini su quanto avvenisse nell’abitazione di Stosch.

 

Il Cocchi stesso, nel suo diario (21 settembre 1739), suggerì che l’autore di simili pornografiche sciocchezze altri non fosse che il Barone Stosch medesimo, che egli dipinge come “uomo invero maligno, narratore di fole da egli stesso inventate, che possono aver originato tale supposizione.”[lxx] 

 

In ogni caso, che Stosch o qualche atra testa matta s’inventassero tali panzane per accertarsi della creduloneria del Minerbetti o quale mezzo per smorzarne le aspirazioni, il sempliciotto le accettò come se si trattasse della sacrosanta verità. Le riporterò lo stesso, ad onor del vero, in appendice a questo stesso articolo nell’originale lingua italiana, essendomi perfino ignobile e disgustosa la traduzione letterale.

 

Lo sconosciuto informatore del Minerbetti iniziò dicendo che la gente si riuniva nella magione di Stosch per disquisire liberamente di religione e di scienza, e nel corso di tali discussioni, opinioni blasfeme ed eretiche erano apertamente profferite, mentre ben poco rispetto si teneva al diritto divino del Granduca.

 

Quando un neofita doveva essere ammesso a quella società il  presidente gli ordinava di prostrarsi sul pavimento, e dopo una cerimonia alla quale sarà d’uopo non far altro cenno, gli si richiedeva di sottoscrivere il giuramento fatto alla società con un liquido adatto a tale uso. Dopo aver in siffatto modo trascritto il giuramento, egli avrebbe dovuto ratificarlo stando seduto in una posizione alquanto ridicola.

 

Questa storia oscena ed idiota, che non avrebbe mai potuto passar per vera da parte di alcuno con un po’ di sale in zucca, sembrò al nostro sempliciotto meraviglioso segreto di gran valore, ed egli si diede a riferire ciò che aveva udito a chiunque si fosse degnato d’ascoltarlo, atteggiandosi inoltre come colui il quale abbia avuto modo di personalmente aver veduto, udito e fatto l’intera cerimonia; spargendo così tali falsità al solo scopo di gratificare la propria vanità e di apparire d’una qualche importanza.

 

In un certo qual senso egli vi riuscì in ogni caso, poiché un ascoltatore riferì tali racconti al proprio Confessore l'inquisitore Ambrogi il quale prese nota del soggetto in caso gli potesse tornar utile come testimone contro persone meno stupide ma senz’altro più pericolose.

 

Così come aveva fatto il Pupiliani, verso la fine della quaresima del 1739, Minerbetti si recò in cerca della propria assoluzione annuale, ma il suo Confessore si rifiutò di ascoltarlo, dichiarando che egli avrebbe invece dovuto, a causa di ciò che aveva sentito, autodenunciarsi al Sant’Uffizio per aver commesso gravi crimini. Tale severità venne però temperata dall’assicurazione che egli non avrebbe dovuto aver tema per la propria personale sicurezza. Il prete gli diede quindi una lettera di presentazione per il Capo Inquisitore Ambrogi, che lo ricevette il giorno 4 aprile con tutta la cortesia dovuta ad un visitatore benvenuto.

 

Ambrogi, già al corrente dei fatti per via della lettera di presentazione, chiese al Minerbetti ragione di quanto questi andasse dicendo dei frammassoni, e particolarmente dell’oscenità di quei riti, e l’eresia delle opinioni, e della loro mancanza di rispetto per il capo dello stato.

 

Il Minerbetti, alfine conscio della falsità di quei racconti, iniziò negando ogni conoscenza di tali occorrenze. L’Inquisitore però, già convinto di quanto i frammassoni fossero nemici della Chiesa, non era certo disposto a perdere questa ghiotta occasione per attaccarli, ed esortava il testimone a narrare liberamente e senza tema: egli non avrebbe certo potuto negare, disse l’Ambrogi, di aver udito con le proprie orecchie, molte volte ed in luoghi diversi, tali eresie, ed aver veduto le orge coi propri occhi; molto meglio, allora, rendere confessione piena e completa.

 

Il Minerbetti iniziò quindi a capire in che mare di guai si era cacciato, essendo l’Inquisitore ovviamente ben al corrente dell’intera vicenda. Cominciò allora a temere che, se avesse perseverato nel negare quei fatti, sarebbe stato arrestato e torturato pur di giungere alla confessione. Così dopo lungo tentennare, giurò di aver veduto e udito tutto ciò che egli stesso andava raccontando dei frammassoni.

 

L’Inquisitore allora menzionò una serie di nomi di persone fino a quel momento sconosciute, domandando se questi fossero stati presenti ed avessero assistito alle stesse scene presso l’abitazione di Stosch. Il delatore, mezzo morto di paura, rispose in modo affermativo per ogni nome che gli fosse detto.

 

Gli fu poi chiesto chi lo avesse introdotto a quell’accozzaglia di sporchi malfattori. Egli replicò dando il nome di Giuseppe Cerretesi, uno di coloro che gli avevano imbottito il capo di stupidaggini per prendersi gioco di lui. Ciò che segue è la traduzione di quella deposizione.

 

“ Era novembre o dicembre 1736 che io mi trovava ad essere, un giorno, al Caffè Pannone, vicino Ponte Vecchio assieme con Cerretesi ed alcuni dei suoi amici, quando d’un tratto egli si rivolse ai compagni e fissandoli, principiò ad alzare gli occhi e volgere il corpo in modo alquanto strano. Mi accorsi quindi che si trattava di un Desmason, cioè uno dei frammassoni, e ciò vedendo e udendo quelli tanto discutere della questione, mi risolsi a chiederne di farne parte.

 

Mi diedi allora a convincere il Cerretesi per essere ammesso, ma all’inizio questi si rifiutò, adducendo non poche difficoltà. Finalmente, egli promise di accontentarmi, ed, infatti, mi mandò a chiamare di lì a poco dopo la mezzanotte, e mi ammise alla casa del Barone Stosch in Piazza di Santa Croce, ove fui ricevuto in quell’assemblea con i riti e le cerimonie già a conoscenza di Vostra Paternità Reverendissima.

Ebbi a visitare quell’accademia una dozzina di volte, sempre alla notte; vi erano presenti le persone già mentovate dalla Reverenza Vostra, e sempre il Dottor Crudeli che esprimeva, in latino, dubbi sulla religione, e dopo aver profferito molte eresie ed aver chiamato “somaro” San Giovanni il Battista, ci si recava a giocare e quindi ad una sontuosa cena”.

 

Ad una simile messe di nonsensi e bugie, spesso per compiacere all’inquisitore, e parzialmente per salvarsi la buccia, il Minerbetti giurò, sebbene egli non avesse mai conosciuto Stosch nemmeno di vista, né non n’avesse mai varcato la soglia, com’ebbe in seguito a giurare, ritrattando la prima deposizione.

 

Sebbene le dichiarazioni di una simile persona, specie se ottenute in siffatta maniera potrebbero sembrarci di scarso valore, l’Inquisitore ne fu soddisfatto e si congedò dal delatore in pace, anche se non siamo sicuri si potesse trattare di pace di coscienza.

 

LE MACCHINAZIONI D’AMBROGI

 

Le denunce estorte al Pupiliani e al Minerbetti furono le fondamenta sulle quali si costruì il processo contro Crudeli, Cerretesi e Buonaccorsi, con la speranza che questo potesse essere di terribile monito ai frammassoni in generale. Per qualche ragione, si pensò in ogni caso non essere prudente o fattibile, in quel particolare momento, agire contro l’intera fratellanza.

 

Naturalmente si badò a rastrellare molte altre imputazioni minori contro il Crudeli, così che parole in libera uscita usate dallo stesso in diverse occasioni nei dieci anni precedenti vennero tutte ad arte utilizzate contro il dottore casentinese. Sarebbe inutile qui il descriverne ogni dettaglio, ci basti però sapere che lo stesso fratello del Crudeli, tale Jacopo, reso ostile nei suoi riguardi a causa di certe dispute familiari, lo aveva già denunciato all’Inquisizione nel 1735 per aver letto libri messi all’Indice, e questa denuncia era stata tenuta d’acconto per utilizzarla in future occasioni propizie, tali quali ora si presentavano.

 

Ambrogi ebbe a riconoscere in ogni modo che, a dispetto della documentazione agli atti non era cosa facile il poter mettere le mani su Crudeli, poiché si trattava di domandarne l’arresto da parte dell’Autorità Civile; l’unica possibilità allora essendo quella di convincere direttamente il Granduca, che era uno straniero in Toscana, e quindi non troppo avvezzo agli usi dell’Amministrazione.

 

Il momento per mettere in atto tale finesse era propizio poiché Francesco stava per recarsi a Vienna, dove suo cognato, l’Imperatore Carlo VI, ne richiedeva la presenza per assumere il comando di un’armata da inviare in Ungheria contro i turchi, ed una volta che egli si trovasse fuori dalla Toscana sarebbe stato difficile per Richecourt o per il Rucellai fargli fare marcia indietro, qualora avesse accondisceso alla richiesta dell’Inquisizione.

 

Ci si dovrebbe a questo punto render conto che, rancori personali a parte, l’effettuare l’arresto di Crudeli da parte del Sant’Uffizio era cosa altamente desiderabile da parte dell’Ambrogi, poiché ciò sarebbe stato considerato come un recuperare, per l’Inquisizione, parte del proprio prestigio e dell’autorità che ultimamente si era andata alquanto affievolendo a causa di diversi scandali, nonché a causa della legislazione statale che ne limitava l’efficacia.

Senza alcun dubbio Ambrogi deve aver sperato che anche crudeli, vistosi in gran pericolo, e non più protetto dall’Autorità Civile sarebbe potuto essere indotto, con minacce e promesse, a rivelare i misteri di quella pericolosa Società, della quale si pensava egli fosse segretario ed animatore.

 

Così, non appena l’Inquisitore ebbe nelle proprie mani le deposizioni del Pupiliani e del Minerbetti egli informò dell’intera questione il nipote del Papa, il Cardinale Neri Corsini il quale esercitava immenso potere civile e religioso alla corte papale, a causa del cattivo stato di salute di Papa Clemente XII.[lxxi]

 

In seguito a tale comunicazione, il Corsini scrisse, il 16 aprile 1739, una lettera al Granduca che suonava alla stregua di un ultimatum, sebbene redatta in forma estremamente suadente e rispettosa.[lxxii]

 

LA LETTERA DEL CARDINAL CORSINI SULLA FRAMMASSONERIA

 

La lettera iniziava dicendo di quanto la Religione fosse, a Firenze, in grave pericolo. Il Barone von Stosch, già noto in Olanda e a Roma per la propria empietà e mancanza d’ogni morale, aveva organizzato nella sua casa nella capitale toscana una scuola di Deismo assolutista frequentata da i più corrotti tra i professori ed immorali licenziati dell’Università di Pisa, i quali mescolavano alle loro perfide dottrine, pratiche della peggior turpitudine.

 

Questo Barone ateo, sotto la protezione dell’Inghilterra sebbene odiato da ogni inglese rispettabile, tutto osa pur di addivenire ai propri fini; e alfine di prevenire ogni inchiesta su quanto avviene nella propria dimora, ha chiamato frammassoneria la propria conventicola, una società fondata in Inghilterra  per innocui fini ricreativi, ma che in Italia è tristemente degenerata per divenire scuola contraria alla religione e strumento di perversione morale.

 

La lettere continuava poi pregando il Granduca di udire ciò che l’Inquisitore Ambrogi aveva appreso dalle bocche medesime di membri fuoriusciti dalla setta i quali, presi da rimorso, si erano autodenunciati ed avevano rivelato i nomi dei loro complici; pregandolo vieppiù di mostrare pietà per quei giovani dissennati i quali si erano andati imbevendo d’iniquità come se si trattasse d’acqua fresca; poiché non solamente presso il Barone Stosch, ma anche nei caffè e nei luoghi pubblici di Firenze la fede e la morale erano sotto attacco; la Santa Trinità, l’Immortalità dell’Anima; l’Autorità della Chiesa – tutto apertamente si negava; ed ogni peccato dei sensi, eccezion fatta per la sodomia, si condonava; Così che Sua Altezza ben fatto avrebbe a mostrare attenzione a ciò che il Grand’Inquisitore avrebbe dovuto comunicare al riguardo di tali accadimenti.

 

Il Cardinale continuava ammonendo il Duca ad estirpare tali nefandezze alfine di ottenere la benedizione celeste nella propria prossima campagna contro i turchi. Si domandò poi che sia il Barone von Stosh che Lord Raymond, che aveva reputazione di essere un libero pensatore, fossero banditi dalla Toscana, mentre si sarebbe dovuta dare autorità all’Inquisizione di procedere all’arresto di due o tre tra i peggiori colpevoli alfine di recidere di netto le radici dell’eresia e favorire quindi il pentimento di altri.

 

Seguiva poi il suggerimento di bandire dall’Università di Pisa coloro dei quali l’ortodossia potesse anche solo lontanamente esser messa in dubbio.

 

Infine, il Cardinale si premunì di informare il Granduca che, qualora i consigli non fossero stati accolti, la Santa Sede si sarebbe vista costretta a richiamare il Nunzio Apostolico da Firenze, chiudendo tal elaborato documento diplomatico con l’esortazione a combattere a casa i nemici della Fede con lo stesso zelo col il quale si accingeva a trattare la canea degli infedeli in Ungheria.

 

LA DECISIONE DI FRANCESCO

 

Nessun regnante che avesse sposato la figlia ed erede del Sacro e Romano Imperatore poteva permettersi di ignorare la minaccia del richiamo del Nunzio Papale dai propri domini, e ad Ambrogi fu quindi concessa udienza il 21 aprile, quando egli si adoperò a dettagliare quanto il Cardinale aveva espresso solo in linee generali; e sebbene il Duca dapprincipio si esitasse nel mettere in pratica quanto richiesto, avendo subita ulteriore pressione clericale, egli si vide infine costretto a bandire Stosch ed autorizzare l’arresto di Crudeli e Buonaccorsi sulla base, almeno per quest’ultimo, delle deposizioni del Pupiliani.

 

Per quanto invece attenne al Crudeli, il suo arresto fu motivato dal fatto che lo stesso si fosse lamentato e rivoltato al Principe per l’eccessiva tassazione.

 

Esiste anche la possibilità che il Granduca pensasse che, liquidando Stosch e arrestando gli altri avrebbe forse potuto spegnere i riflettori da quella società della quale si diceva egli stesso fosse membro, essendo stato il nome suo talvolta associato al gruppo equivoco dello Stosch; dopo tutto, la deposizione del Minerbetti richiedeva che si agisse in modo fermo e deciso.

 

Ad ogni modo, il 27 aprile Francesco ordinò al Ministro Tornaquinci di eseguire gli arresti così come Ambrogi avrebbe istruito, dando nel frattempo mandato al Generale Braitwitz, comandante delle truppe austriache in Toscana, di ordinare al Barone von Stosch di lasciar la Toscana entro tre giorni; avendo in tal modo atteso agli affari italiani, Francesco se ne partì da Firenze lo stesso giorno 27 aprile 1739.[lxxiii]

 

STOSCH RESISTE

 

La campagna dell’Ambrogi non si svolse lo stesso secondo i piani. Egli, infatti, era stato troppo ambizioso nel voler aggiungere il nome di un’inglese (poiché tale il Barone von Stosch risultava) alla lista dei proscritti.

 

Profondamente scosso dall’improvviso quanto inaspettato ordine d’espulsione il Barone, il quale trovava la vita fiorentina adatta ai propri gusti, così come ingenti erano i profitti che gli derivavano dalla professione d’antiquario, si precipitò da Horace Mann per chiederne l’intervento immediato.

 

Il Mann, all’epoca facente funzioni del Residente Inglese a Firenze Charles Fane, al quale avrebbe poi dovuto, ancora giovane, succedere, era tutto fuorché contento al pensiero di doversi privare degli utili servigi d’un ribaldo ben istruito nelle arti dello spionaggio e di simili sporche incombenze alle quali certo non era opportuno dedicarsi personalmente; cosicché egli immediatamente richiese ed ottenne dal Granduca una sospensione dell’ordine d'espulsione, all’inizio per una settimana, ed in seguito per tutto il periodo necessario a ricevere risposta dal Re Giorgio II ad una lettera spedita da Francesco per giustificare la propria azione.[lxxiv]

 

Spesso, in questi casi, ottenere tempo è ottenere tutto: la grazia d’una settimana fu estesa indefinitamente permettendo a Stosch di continuare a vivere indisturbato a Firenze e di attendervi alle proprie arti e mestieri fino all’anno della propria morte nel 1757, quando lasciò al proprio erede la collezione di rare opere d’arte, ed al mondo intero la propria reputazione, non proprio completamente senza macchia.

 

Naturalmente fu una delusione per l’Inquisitore che il Barone tedesco sfuggisse dalla rete, dovendosi però accontentare degli altri pesci ivi rimasti imprigionati.

 

ASRRESTO DI CRUDELI E CONSEGUENZE DELLO STESSO

 

Sabato 9 maggio 1739 il Crudeli ritornando nottetempo a casa da una riunione, fu arrestato da un gruppo di sbirri, la polizia di stato dalla fama di ruffianeria, e condotto prima alle comuni galere e quindi tradotto alle prigioni dell’Inquisizione nel Convento di Santa Croce.

 

 

Alcuni dei suoi amici, tra i quali lo stesso Mann e Rucellai, furono informati il giorno seguente degli accadimenti notturni, sebbene la notizia non raggiungesse Cocchi che al lunedì successivo, trovandolo dapprima incredulo. La novità divenne tuttavia ben presto pubblica, causando gran rumore.

 

Tutti, compreso l’irreprensibile Dottor Lami, che si era sempre ben guardato dal dichiararsi anticlericale ne furono terrorizzati e si diedero a disertare i caffè e le librerie dove prima erano soliti dispensare a gratis le loro opinioni: ecco che il Sant’Uffizio aveva già immediatamente raggiunto uno dei propri scopi, lasciare che tutti sapessero chi comandava….

 

Si cominciò a sussurrare ad un fil di voce  di come la Chiesa di Roma si fosse decisa a farla finita coi frammassoni: e siccome ognuno sapeva che Crudeli era uno di loro, il suo arresto fu considerato come l’inizio della persecuzione nei riguardi di tutti coloro che fossero in qualche modo connessi con quella setta eretica inglese.

Si disse di tutto: che l’Inquisitore richiedeva l’arresto anche di Buondelmonti, ma essendo questi parente di Rinuccini, uno dei Ministri di Stato, si era per il momento salvato; che nuovi arresti erano da prevedersi, la cui lista già era giunta da Roma. Il risultato fu che tutti i fiorentini che nel passato ebbero il loro nome associato a quello della Loggia ormai demolita ebbero a temere per la loro libertà se non per la vita, e più d’uno si rivolse a Mann per cercarvi protezione.

 

Ambrogi amplificava ad arte la portata del timore collettivo facendo espresso riferimento, in ogni suo discorso pubblico, al gran trionfo ottenuto, e come risultato di tale comportamento ogni fiorentino che aveva l’abitudine di frequentare ospiti inglesi si sentì in pericolo di essere fatto oggetto delle attenzioni del Sant’Uffizio.

 

“Gli inglesi sono gente pericolosa” divenne la frase più usata del periodo.

 

La stampa straniera, così come ci si poteva attendere, non fece nulla per alleggerire la tensione, anzi pubblicò diverse esagerazioni su cosa stesse accadendo in Toscana; così la Gazzetta di Berna[lxxv] del 19 maggio 1739 ebbe a dire in una corrispondenza da Firenze che Crudeli era stato imprigionato per essere un tempo stato massone, e tutti i suoi scritti banditi mentre il Granduca aveva garantito, in base ad una precisa richiesta papale, pieni poteri ad Ambrogi di procedere contro tutti i sospetti di aver avuto qualsivoglia connessione con la frammassoneria.[lxxvi]

 

Queste dicerie raggiunsero l’orecchio di Horace Mann il quale, nell’apprendere che la causa della prigionia di Crudeli potesse essere rintracciata nella di lui appartenenza ad un’associazione inglese, ed avendo avuto diversi colloqui al riguardo con visitatori inglesi, chiese udienza al Conte di Richecourt, col quale non era certo in rapporti amichevoli, facendogli presente che ciò che accadeva era un affronto pei suoi compatrioti e per la nazione, chiedendo la liberazione di Crudeli, e domandando che per il futuro ci si astenesse da simili insulti alla Gran Bretagna.

 

Egli terminò la propria protesta aggiungendo che l’ordine di bandire Stosch sarebbe stato profondamente deplorato a Londra da Re Giorgio II se questi avesse saputo, così come sembrava acclarato dagli eventi recenti, che il Governo fiorentino nel fare ciò agiva agli ordini della Curia Papale, un’istituzione alla quale il suo Re mai e poi mai avrebbe piegato il capo in quanto amica degli Stuart e nemica mortale della Chiesa d’Inghilterra.

 

Il Richecourt, che probabilmente era disturbato così come il Mann dalla piega che gli accadimenti andavano prendendo, rispose in modo conciliatorio, e sebbene si professasse incapace di ordinare il rilascio del Crudeli, promise di fare ciò che fosse stato possibile.

L’intervento di Mann, però, servì più che altro alla causa del Barone Filippo von Stosch, che si vide l’espulsione differita sine die, il massimo che il Residente Inglese probabilmente potesse sperare d’ottenere.

 

Gli effetti della protesta di Mann, in ogni modo, non si fermarono qui poiché le ulteriori richieste dell’Inquisitore, quali l’arresto di Cerretesi e la perquisizione della dimora del Dottor Giuseppe Attias, studioso ebreo livornese alla ricerca di libri proibiti, non autorizzati dal Governo, mentre s’ingiunse ad Ambrogi, e questi accettò, di trattare il Crudeli con ogni possibile clemenza nel periodo della sua prigionia.

 

LA PRIGIONIA DEL CRUDELI

 

Essendo il Crudeli sofferente d’asma cronica, ne informò l’Inquisitore al momento dell’internamento nel carcere di Santa Croce, chiedendo che se ne tenesse conto. Fu risposto che si sarebbe provveduto ad assicurare trattamento umano ed una stanza arieggiata.

Egli fu invece confinato in un freddo abbaino, con una piccola finestrella per la luce ed aperture per la ventilazione che davano sul corridoio; si trattava di una cella infestata da parassiti con servizi igienici primitivi. Ciò gli provocò un attacco del suo vecchio male che lo pose in pericolo di vita.

 

Quando i suoi amici seppero di tale stato di cose si rivolsero insistentemente ai Rucellai, il quale inviò all’Inquisitore un ammonimento ad essere caritatevole col prigioniero. Cinque settimane dovettero però passare prima che il Crudeli fosse trasferito ad una stanza migliore, sebbene anche questa avesse la finestra oscurata e non permettesse il passaggio dell’aria.

 

Al prigioniero non erano concessi libri, materiale per scrivere, né gli si permettevano visite da parte di parenti o amici, ivi incluso un suo fratello minore, ecclesiastico ed in buoni rapporti con il Sant’Uffizio.

 

Il Rucellai, uomo d’indole fiera, avrebbe voluto che il Granduca approfittasse di tali severità come scusa per abolire l’Inquisizione nei propri domini, ma i tempi non erano maturi per simili cambiamenti; la Curia aveva, infatti, grande influenza alla corte di Vienna, influenza che certo non ometteva di utilizzare al meglio, mentre Francesco, sapendo di quanto il suo governo in Toscana fosse impopolare essendo amministrato da stranieri, esitava ad aumentare quella impopolarità immischiandosi in argomenti ritenuti di natura religiosa. Alla fine, l’unica cosa che si fece contro l’inquisizione fu di proibire l’arresto di Cerretesi e del Buonaccorsi.

 

Crudeli nel frattempo si spegneva lentamente in prigione senza essere interrogato, e dopo due mesi la sua salute era ridotta talmente male da comprometterne i polmoni.

A questo punto il Richecourt, commosso da una petizione scritta dai vecchi genitori del Crudeli, la fece pervenire al Granduca assieme con una lettera personale da parte di Rucellai.

 

Quest’ultimo documento, in sostanza, suggeriva di come il Granduca fosse stato indotto a prestarsi ad una vendetta della Chiesa nei confronti dei frammassoni, il vero scopo del Sant’Uffizio essendo l’usurpazione delle funzioni del braccio secolare. Il Ministro quindi consigliava a Francesco di proporre alla Curia la presenza di un Commissario secolare nei tribunali dell’Inquisizione; qualora il Papa avesse dovuto rifiutarsi di consentirlo, cosa probabile, allora si sarebbe dovuto negare l’aiuto del braccio secolare nell’autorizzare arresti. Tale lettera non ebbe però alcun seguito.

 

I nostri resoconti massonici mostrano di come gli amici del Crudeli in Inghilterra non si dimenticassero di lui e ne disponessero l’aiuto finanziario.

 

“La Supplica del Fratello Tommaso Crudeli, prigioniero dell’Inquisizione a Firenze a causa della Massoneria, cui si faceva riferimento nel corso dell’ultimo Comitato per la Carità è stata letta e discussa da parte di molti Fratelli e particolarmente raccomandata dal G.M.

Si ordina al Tesoriere di pagare la somma di ventun sterline all’Illustrissimo e Venerabilissimo GM da essere utilizzate a conforto del postulante.” (Minute della Gran Loggia d’Inghilterra, 12 dicembre, 1739).

 

INIZIA IL PROCESSO

 

All’iniziarsi delle procedure processuali amici e particolarmente nemici di Crudeli furono chiamati a deporre ed a rispondere a domande riguardanti la sua condotta ed il suo modo di vivere. Alcuni si espressero in termini essenzialmente generali, mentre altri si mostrarono ben contenti di poterne aggravare la posizione, mutando ora in accuse ciò che fino a quel momento era stato detto solamente per celia, sebbene di pessimo gusto.

 

Ecco che un padre deluso di non aver potuto maritare sua figlia col Crudeli testimoniò di averlo udito esecrare una madonna le cui reliquie erano oggetto di pellegrinaggio, mentre un certo Fantacci, suo nemico giurato, depose di averlo udito mentre questi affermava che San Giovanni Evangelista era un asino.

 

Diversi nullafacenti dei vari caffè della città testimoniarono di aver udito lui ed altri frammassoni usare linguaggio sovversivo nei riguardi del Papa per aver egli proibito i loro incontri.

 

Questo era il materiale, per quanto insignificante, sul quale poter sorreggere le traballanti deposizioni del Pupiliani e del Minerbetti, poiché si volle insinuare che tali deplorevoli espressioni delle quali si accusava Crudeli fossero in realtà saldi e vitali principi della Società della quale egli era stato membro.

 

La maggior parte di quelle denunce altro non erano che voce di popolo, fatto questo ripugnante alle nostre idee inglesi di ciò che possa essere ammesso quale prova inconfutabile, ma invero accettabili in alcuni paesi latini; non ne farò in ogni modo in questa sede altra menzione, per non offendere ulteriormente con simili sciocchezze la pazienza dei miei lettori.

Vi era però una difficoltà oggettiva dell’Accusa alla quale devesi far riferimento.

 

La Reggenza non aveva autorizzato l’applicazione della Bolla In Eminenti in Toscana, con la giustificazione che la Frammassoneria fosse una società secolare non sottoposta in modo alcuno al controllo clericale. Ecco che allora l’Inquisizione non avrebbe potuto procedere direttamente contro Crudeli per il solo fatto di essere stato massone senza inimicarsi ulteriormente il Governo Toscano e causarne ritorsioni a scapito del proprio potere.

Inoltre, la Bolla stessa non prevedeva condanna per quei frammassoni che, avendone obbedito i dettami, si fossero ritirati da quella Società, così come, in effetti, i fiorentini avevano fatto.

 

L’Inquisitore avrebbe allora dovuto avere una deposizione diretta da parte di un noto massone con argomenti “esecrabili” da portarsi contro l’Ordine Massonico stesso, dando quindi l’occasione inoppugnabile di sopprimerlo per motivi di religione e di morale.

 

Ora, tutti sapevano che Crudeli fosse indubbiamente stato massone, e che quello era ovviamente il vero motivo del suo arresto, ma siccome questo semplice motivo non doveva apparire ufficialmente nell’accusa, l’Inquisitore non poteva rivolgere quindi al Crudeli accuse dirette e specifiche riguardo alla frammassoneria in se stessa.

 

Si scelse allora di assalire l’imputato con tutta una serie di domande sulla massoneria e di redigerne le risposte come se si trattasse di una deposizione spontanea: se vi fossero state delle critiche a tali deposizioni facilmente si sarebbe potuto rispondere che il Sant’Uffizio non aveva espressamente richiesto tale tipo d’informazione, ma non avrebbe neanche, d’altra parte, potuto esimersi di porla agli atti qualora resa spontaneamente dall’accusato.

 

Finalmente, dopo tre mesi di prigionia, Crudeli fu condotto, il 10 agosto 1739 alla cappella del Sant’Uffizio ed interrogato dall’Inquisitore Capo Ambrogi e dal suo Cancelliere, il Frate Antonio Maria Montefiori.

 

Gli si chiese dapprima se egli conoscesse il motivo del proprio arresto e quando lui rispose di non conoscerne la ragione, ad un’ulteriore più ferma richiesta, affermò che forse avrebbe potuto essere per quella volta che aveva mangiato carne in un giorno di digiuno, aggiungendo però di avere una dispensa che lo autorizzava a nutrirsi a causa della propria salute cagionevole. A tale proposito egli disse inoltre:

 

“Almeno, io così pensava nei miei primi giorni in prigione, ma più tardi, dopo averci ben riflettuto, credetti di essere stato arrestato poiché appartenni alla Loggia dei Frammassoni sebbene avessi obbedito alla Bolla, ed anzi avessi più volte insistito col Ministro Inglese di porre fine a quegli incontri,[lxxvii] ed infatti essi terminarono; così mi sembrerebbe di non meritare la prigionia per quel fatto.”

 

In quella deposizione il Crudeli segnò punti a proprio favore per essere stato strumentale nel dissolvimento della loggia, e ciò è probabilmente vero poiché indubbiamente i suoi amici inglesi avrebbero preso in seria considerazione il consiglio di un fratello che certamente meglio di loro sapeva cosa accadesse a Firenze in quei giorni, mentre l’aver tirato in ballo il Ministro Inglese a quel riguardo getta nuova luce sul perché a quel punto, un gruppo d’inglesi non più appoggiati dal loro Ministro avrebbero comunque scelto di tener aperta la loro loggia contro i voleri del Papa e senza il favore dell’opinione pubblica.

 

Per quanto candida e giustificabile, la deposizione del Crudeli dette però all’Inquisitore l’occasione che questi aspettava per chiedere che cosa accadesse nel corso di quelle riunioni.

Crudeli rispose che non vi accadeva nulla se non un banchetto e “bagattelle da ridere” – probabilmente una descrizione accurata di quanto accadeva in una Loggia “alla moda” del periodo.

 

Vi furono poi alcune obbiezioni al diritto dell’Inquisitore di esaminare il prigioniero a questo riguardo, ma egli insistette a porre al Crudeli almeno quarantacinque domande a proposito della massoneria,[lxxviii] alla quali il Crudeli rispose o adducendo perdita di memoria o confessando molte cose delle quali già il Sant’Uffizio era a conoscenza, ma senza mai fare nomi di alcuno a parte quelli di pubblico dominio, anch’essi naturalmente noti all’Inquisizione.

 

In generale il Fratello Crudeli mantenne in quel frangente la propria linea, attenendosi ai consigli dei propri amici.

 

Un’ulteriore alterco avvenne quando al Crudeli fu chiesto di firmare il verbale come se si trattasse di deposizione spontanea, cosa che alla fine egli fece, anche se protestando; a guisa di scherno finale, la corte gli fece giurare la segretezza “di quella vera, e non di quella cui erano usi i frammassoni nei loro giuramenti.”

 

Quattro giorni dopo, il 14 agosto il Crudeli fu sottoposto ad un nuovo interrogatorio sulle stesse questioni. Nel frattempo però egli era riuscito a trasmettere una lettera al proprio amico Corsi informandolo di quanto era accaduto, informazioni che furono tosto passate al Rucellai, il quale immediatamente avvertì il Primo Ministro della Reggenza che un suddito del Granduca era trattenuto prigioniero a causa del suo essere frammassone.

 

Intanto anche il Corsi, il Residente Inglese e lo stesso fratello del prigioniero facevano appello per conto di Crudeli alla medesima Autorità, tutti suggerendo la fuga dello stesso ed il successivo suo arresto e detenzione in una prigione di stato finché egli non avrebbe provveduto a dimostrare la propria innocenza pei crimini che gli fossero stati imputati.

 

Il Conte di Richecourt non era sfavorevole ad una simile linea di condotta, ma prima di garantire la propria connivenza alla fuga pensò fosse proprio dovere informarne il Granduca a Vienna e chiederne consiglio. Egli inviò quindi un lungo ed esauriente messaggio cifrato nel quale si spronava Francesco a dare il proprio assenso al piano proposto dagli amici del Crudeli.

 

Anche l’Inquisitore aveva però già scritto al Nunzio Papale di Vienna raccomandandogli di usare ogni influenza possibile per ottenere dal Duca l’autorizzazione all’arresto di Buonaccorsi, del Cerretesi e di chiunque altro si fosse reso necessario tra i membri di quella società fuorilegge.

 

Il Duca si trovò quindi tra due fuochi, simile alla posizione della polizia a Belfast nei brutti giorni degli scontri tra gli orangisti e i verdi.

 

Mentre a Vienna si intrigava, Ambrogi continuava senza sosta ad interrogare il Crudeli su questioni della massoneria esortandolo a fare i nomi non solo dei membri della loggia, ma anche di tutti coloro che proteggevano quella società, ivi compresi, se del caso, Principi stessi, assicurandolo che il Sant’Uffizio mai avrebbe rivelato una singola sillaba di quanto avesse saputo sotto il sigillo della segretezza, ma, a parte le proprie professioni d’innocenza, il F.llo Crudeli continuava a tenere un basso profilo.

 

Metterei ora a dura prova la vostra pazienza nell’elencarvi la lunga sequela di domande circa i motteggi irriverenti che gli erano stati attribuiti ed i libri proibiti che aveva letto; passiamo quindi a descrivere che cosa egli ebbe a dire per risposta alle accuse che erano mosse nelle deposizioni giurate di Pupiliani e Minerbetti, naturalmente il vero motivo di quel processo.

 

Quando gli fu chiesto se egli conoscesse ove fosse la residenza di Stosch e che tipo d’incontri vi si svolgessero di notte, Crudeli fece presente di quanto il Barone fosse detestato dai visitatori inglesi a Firenze a causa della propria furfanteria e del cattivo sangue che esisteva tra questi ed il Residente Inglese Charles Fane. Il Crudeli però non negava di essere stato spesso a casa di Stosch, ma sempre di giorno, per accompagnarvi gentiluomini inglesi desiderosi d’ispezionarne il museo ed acquistare gioielli ed ornamenti. Probabilmente Crudeli era utilizzato come interprete.

 

“L’ultima volta che entrai in quella casa, la quale è vicino Santa Croce, fu pochi giorni avanti all’arrivo del Granduca, e mi recai colà con Lord Charles Fitzroy (figlio del Re) il quale voleva acquistare il “Meleager” una gemma incastonata, ed aveva il timore di essere raggirato essendo egli figlio del Duca di Grafton. Così io lo accompagnai, ed avendo chiesto di quella gemma in particolare, Stosch riferì di non essere intenzionato alla vendita, e che lo avrebbe fatto solamente se non avesse avuto altro mezzo per procurarsi il cibo.”

 

Crudeli continuò dicendo di non saper nulla delle riunioni notturne che avvenivano da Stosch, e quando gli fu chiesto se ai partecipanti a quelle conventicole fosse richiesto un giuramento egli rispose:

 

“Si tratterebbe allora di Frimesson, ma io non sono a conoscenza che i frammassoni si siano mai ritrovati a casa di Stosch.”

 

E quando gli si richiedeva delle cerimonie disgustose che si pensava avessero colà avuto luogo, indignato il Crudeli rispose:

 

“E’ la prima volta ch’io odo di simili infamie!”

 

L’Inquisitore gli chiese allora dei metodi ridicoli ed indecenti pei quali si diceva fosse amministrato il giuramento. “Anche tutto ciò mi è nuovo” fu la risposta, ed anzi egli aggiunse che sebbene la moralità dello Stosch fosse quanto di peggio fosse possibile, egli non lo riteneva capace di simili degradanti bassezze.

 

E quando nuovamente l’Inquisitore ritornò su cosa si diceva avvenisse a quei convegni da Stosch, il Crudeli rispose:

 

“Bisognerebbe domandare simili questioni a quelli che vi hanno preso parte e sono amici di Stosch, non miei, poiché io non frequento la sua casa e mi vanto di non essergli amico.”

 

E alla domanda su chi fossero i protettori e i difensori della conventicola in questione egli profferì similmente:

 

“Lo dico ancora una volta, che io non so se quelle riunioni vi fossero fatte, e conseguentemente non ne conosco i protettori.”

 

Tutto ciò non soddisfece l’Inquisitore, che insisteva a che il Crudeli rendesse completa confessione, ma quello non aveva nulla da dire.

Egli fu allora ricondotto alla sua cella, ed essendo malato, sembrava che la morte lo avrebbe presto liberato da quei ripetuti tentativi di estorcergli conferma della storia del Minerbetti, ma né le promesse d’un immediato rilascio, né le minacce della prigionia perpetua potettero scuotere la sua fermezza.

 

L’unica sua consolazione durante quel periodo, resa possibile dalla venalità d’uno dei famigli posti di guardia, era la possibilità di scrivere agli amici; e quando Fra Giovanni Boni pur continuando ad intascare i denari, smise di recapitare le lettere, si studiò un nuovo metodo, e le lettere erano calate con una cordicella nel chiostro dove attendeva, ad orari prefissati, il fratello più giovane e devoto di Crudeli.

 

Settimane e mesi passarono durante i quali i Cardinali della Congregazione a Roma attendevano a quel caso, e le opinioni rimanevano divise; alcuni membri propendevano per comminare una leggera condanna e poi liberare il reo, mentre altri, capeggiati da Monsignor Feroni, Segretario del Sant’Uffizio ed autore della Bolla In Eminenti insistevano  per una prosecuzione del processo: furono infine questi ultimi ad avere la maggioranza.

 

Tutto ciò era equivalente a condannare il Crudeli al carcere perpetuo, poiché i lavori si sarebbero potuti ritardare ed estendere ad infinitum secondo i voleri del tribunale, e sembrava in effetti improbabile che l’Ambrogi si volesse comportare diversamente.

 

GLI INTERVENTI

 

Fortunatamente per la giustizia, le manovre utilizzate dal Sant’Uffizio per estorcere le deposizioni dal Pupiliani e dal Minerbetti arrivarono all’attenzione del De Richecourt.

 

Il Pupiliani era stato appena arrestato a Livorno per essere processato a causa dei suoi trascorsi malaugurati affari di cuore. Venendo a conoscenza dell’arresto, il Richecourt lo fece interrogare al riguardo di tutto ciò che era accaduto prima della sua partenza da Firenze, nominando Commissari incaricati dell’interrogatorio il Vicario del Sant’Uffizio a Livorno ed il Generale Braitwitz, comandante della guarnigione austriaca in quella città.

 

Quando fu scoperto l’intrigo clericale che era stato posto in essere nel caso del Pupiliani il Primo Ministro andò su tutte le furie, ed egli inviò immediatamente copia degli ultimi interrogatori e delle rivelazioni colà contenute al Granduca.

 

Un’altra persona importante intervenne nella questione con efficacia. Il Duca di Newcastle, divenuto Segretario agli Esteri nel governo Walpole, scrisse al Residente Inglese a Firenze perché questi si informasse di come stesse procedendo il processo nel quale si temeva vi fosse rischio per la reputazione di diversi gentiluomini inglesi di rango, oltre che per la libertà di Crudeli.

A Mann fu allora richiesto di informare il Richecourt che il governo di Sua Maestà considerava un affronto alla dignità dell’Inghilterra la detenzione dello sfortunato prigioniero per il solo fatto di essere stato frammassone ed amico degli inglesi.

 

Mann tosto consegnò quel messaggio, e Richecourt lo assicurò, sub rosa, di star facendo quanto in suo potere per quell’amico degli inglesi; si trattava, ciò non di meno, di un suddito toscano, e non poteva quindi egli esimersi dal meravigliarsi di questo intervento inglese a suo sostegno.

 

Con frasi melliflue e luoghi comuni, Mann parlò allora della cordiale amicizia esistente tra le due corti esprimendo augurio che Sua Grazia il Granduca certamente volesse nutrire e rinfocolare quei sentimenti di stima e dignità per l’Inghilterra avvertibili nei suoi domini.

 

Poi, abbandonando la diplomazia fece chiaramente intendere di essere a conoscenza, così come il Richecourt medesimo, di cosa in realtà si trattasse; e cioè che si intendeva trovare un pretesto per espellere Stosch dalla Toscana; il Barone era però riuscito a convincere il governo inglese d’essere vittima di una macchinazione ordita oltretevere, e di conseguenza questi godeva ora di molta stima e favore coi Reali, che ultimamente gli avevano perfino aumentato l’appannaggio per certi scopi non specificati, alias servizi segreti, termine questo usualmente non utilizzato nelle conversazioni diplomatiche.

 

In breve, il Mann riuscì ad appiccicare un che di serio ed internazionale all’intera vicenda, cosicché il Richecourt promise d’informarne immediatamente il Granduca, cosa che invero fece, scrivendo una lettera nell’ottobre del 1739.

 

Francesco certo non aveva l’intenzione di offendere Re Giorgio, anche perché la gran parte delle tasse esigibili dallo stato erano a carico dei mercanti inglesi residenti a Livorno e in altre città toscane; allo stesso tempo, naturalmente, intendeva guardarsi bene dal recare offesa al Papa.

 

Pensò allora di giungere ad un compromesso, e scrisse autorizzando la Reggenza alla connivenza per un’eventuale fuga di Crudeli dalle carceri dell’Inquisizione.[lxxix]

Come uomo, egli aspirava alla giustizia, come sovrano, non intendeva inimicarsi altre corti, mentre come marito d’una cattolica devota egli intendeva mantenere buoni rapporti con Roma.

 

Non mi intratterrò a lungo sul piano concepito per attuare la fuga del Crudeli prevista per il mese di dicembre del 1739 poiché questi lo respinse, scrivendo a suo fratello: “Non intendo perdere la mia patria e vivere come uomo che abbia gabbato la giustizia.”

Ecco che tanto sentimento ci parla di un cuore che nessuna difficoltà potrà mai privare di patriottismo o di coraggio, sebbene il fratello non si lasciasse convincere dal Crudeli e continuasse attivamente a pianificarne la fuga, ed alla fine, a causa della sua poca discrezione, il confino del Crudeli finì per divenire ancor più gravoso.

 

LA DIFESA

 

Finalmente venne il tempo per Crudeli di organizzare la propria difesa. Le regole consentite per la difesa, in un tribunale dell’Inquisizione erano severe ed ingiuste ai nostri occhi se paragonate alla procedura adottata in Inghilterra pei casi criminali.

 

Il prigioniero non era libero di scegliersi un avvocato, ma doveva utilizzarne tra quelli approvati dall’Inquisitore per operare in quel tipo di Tribunale. Poi, dopo essere stato scelto ed istruito, il collegio di difesa aveva l’obbligo di non rivelare i nomi dei denuncianti e dei testimoni, né di mostrare ad alcuno gli atti processuali, mentre alla fine del processo tutto il materiale sarebbe dovuto essere restituito al Sant’Uffizio.

 

Inoltre, il difensore avrebbe dovuto giurare che, qualora si fosse convinto della colpevolezza  del proprio cliente, egli immediatamente avrebbe abbandonato la difesa, e rivelato i nomi degli eventuali complici che potesse aver scoperto durante lo svolgimento del caso.

Vi erano anche altre restrizioni, ma non vi ci soffermeremo oltre.

 

Il processo iniziò il 28 marzo 1740 con quattro tra i denuncianti chiamati a ripetere, dopo molte discussioni, la loro testimonianza. Tra questi eravi Pupiliani e Minerbetti sulle cui parole si basava l’accusa che Crudeli avesse frequentato la conventicola di Stosch.

 

Ometterò, in ogni modo, di riportare le testimonianze di coloro che accusarono il Crudeli di comportamento irreligioso e generalmente riprovevole.

 

Pupiliani, che nella propria prima deposizione ebbe ad affermare di come il Crudeli avesse espresso dubbi riguardo alla religione negli incontri a casa Stosch, ora, il 15 aprile 1740 si rimangiò tutto, giurando di non aver mai udito il prigioniero parlare contro la fede, e che anzi si trattava solo di congetture personali sia nel caso di Crudeli che per tutti coloro che aveva precedentemente citato come frammassoni, non avendo egli alcuna conoscenza personale della vicenda.

Confessò comunque che, secondo il proprio modesto giudizio, il Crudeli non era certo un buon cattolico – affermazione, quest’ultima, sicuramente difficile da confutare anche per noi.

 

Quando poi venne il turno del Minerbetti egli si diede ad affermare, negare, e non ricordare a casaccio, contraddicendo quindi la sua precedente deposizione ed esonerando il prigioniero.

 

No, non lo aveva mai udito parlare contro il Santo Padre e l’autorità della Bolla; mai lo aveva veduto a casa di Stosch; nulla sapeva delle cerimonie e dei giuramenti osceni alla conventicola del Barone; e non aveva mai assistito a fatti di tale sorta.

 

A questo punto l’Inquisitore, pazzo di collera coi testimoni chiave, principiò a trattare il Minerbetti in modo ostile. Minacciato di tortura il Minerbetti, che aveva ritrattato per tema degli amici di  Crudeli, cedette alla minaccia più reale ed imminente ritrattando la sua ultima ritrattazione con le parole che ancora gli uscivano dalle labbra, giurando nuovamente che tutto quanto riportato nella sua prima deposizione era più vero del Vangelo.

 

E quando gli fu chiesta ragione di quest’iniziale ritrattare, egli addusse motivi di scarsa memoria, non offrendo peraltro spiegazione alcuna sul come mai i ricordi fossero invece subitaneamente ricomparsi. Che incubo sarebbe stato per un giovane avvocato alla sua prima arringa in pubblico!

Ma tra tutte quelle contraddizioni ed equivoci del Minerbetti e degli altri, ancora Ambrogi non voleva convincersi dell’innocenza di Crudeli ed il 29 aprile nuovamente lo interrogava sul cosa accadesse presso la residenza di Stosch.

 

Questa fu la risposta: “L’intera verità essendo ch’io non sono amico di Stosch, non ne frequento la casa, né mai vi fui nottetempo, non ho mai udito alcunché sulle riunioni, né colà né in altro luogo, e le deposizioni sono piene di menzogne, ed io ne proverò la falsità così come la mia innocenza.”

Tutto ciò non impressionò certo l’Ambrogi, che già da tempo aveva deciso che si sarebbe potuto tranquillamente sacrificare il Crudeli.

 

L’avvocato della difesa si accinse tosto all’opera sua, ma impedito com’era dalle restrizioni e dai lacciuoli di cui abbiamo riferito si risolse a percorrere l’unica strada che non gli fosse stata preclusa e cioè si diede a chiamare quanti più testimoni possibile che potessero affermare di come, a cominciare dalla giovinezza più tenera il prigioniero sempre si fosse dimostrato esemplare nell’attendere ai suoi doveri religiosi e morali, naturalmente per quanto questi ne sapessero.

 

Non è mai difficile ottenere stuoli di testimoni pronti a parlar bene di un uomo in difficoltà e così se ne presentarono talmente tanti che la sola stesura delle deposizioni minacciò di mandare avanti indefinitamente la questione.

 

IL MINERBETTI RITRATTA ANCORA

 

In quel tempo il vecchio Marchese Luca Casimirro degli Albrizzi, ex Maestro di Camera del Principe Ferdinando,[lxxx] ex ambasciatore in Baviera, ed ex Maggiordomo della Principessa Violante, ritiratosi molti anni prima da ogni incarico di corte, viveva nei palazzi di quella via chiamata col nome della sua famiglia, compiacendosi di patrocinare e proteggere i dolci interpreti della musica italica, attività la quale, nel corso di una lunga vita, lo aveva condotto a dilapidare un’ingente patrimonio.

 

Il 21 Aprile 1740 il vecchio gentiluomo ricevette la turbolenta ed inaspettata visita di suo cugino Andrea d’Orazio Minerbetti il quale, cadendo a terra in violenta crisi nervosa, esclamò tra pianti e singhiozzi: “Son morto, son dannato!”[lxxxi]

 

Il Marchese, ben a conoscenza del fatto che il cugino non fosse particolarmente dotato di sagacia, pensò dapprima che questi avesse completamente perduta la ragione, cercando di scoprire, con pazienza e persuasione, i motivi di siffatto comportamento.

 

Il Minerbetti era stato colpito da rimorso e l’idea dello spergiuro commesso non voleva saperne di lasciarlo tranquillo: egli era quindi giunto dal Marchese per ottenerne la protezione e qualche buon consiglio.

 

Si dice che la fortuna favorisca gli stolti, ad ogni buon conto in questo saggio uomo di mondo il povero Minerbetti ebbe a trovare un competente medico per la propria mente disturbata.

 

Dopo aver calmato il meschino, Albrizzi promise che avrebbe aggiustato la cosa così che lo spergiuro non avesse a pagar gabella, trasportando quindi il giovine alla propria villa di campagna ove avrebbe potuto calmarsi appropriatamente.

 

Il Marchese poi si rivolse ai suoi compari e tutti assieme decisero che la cosa migliore sarebbe stata per il Minerbetti di rivelare le sue malefatte nel segreto del confessionale, comportandosi poi così come il prete avrebbe prescritto.

All’uopo egli scelse Padre Niccolò da Scansano, allora professore all’Università di Pisa e poi Vescovo di Sovana il quale, dopo aver ascoltato la confessione gli ordinò di far ammenda per lo spergiuro ritrattando nuovamente, presso l’Inquisizione, tutto ciò che vi aveva giurato in precedenza.

 

Sebbene sempliciotto, il Minerbetti aveva però ben sviluppato un forte senso d’autoconservazione, ed immediatamente si rifiutò di porre nuovamente piede al portone del Sant’Uffizio.

 

Dopo ulteriore considerazione quindi, i suoi consiglieri decisero che egli avrebbe preparato una ritrattazione scritta, che sarebbe dovuta essere trasmessa all’Autorità Pontificie a Roma da persona fidata, poiché nessuno tra i consiglieri del povero malcapitato aveva alcuna speranza che la cosa fosse d’efficacia nel far cambiare l’opinione preconcetta di colpa del Crudeli da parte di Ambrogi.

 

L’INTERVENTO DEL NUNZIO

 

Ecco che ora mi compiaccio non poco nell’annotare che la persona che si fece carico di consegnare la dichiarazione giurata del Minerbetti alla Corte d’Appello del Sant’Uffizio di Roma fu nientemeno che il nuovo Nunzio Apostolico di Firenze, il prelato milanese Alberigo Archinto, Vescovo d’Apamea, poi Segretario di Stato di Papa Benedetto XIV.

 

La sua condotta in questo frangente mostra di come si trattasse di persona di elevate doti morali e grandezza d’animo per l’alto uffizio al quale egli era stato consacrato e gli importanti incarichi che ebbe nella Chiesa.[lxxxii]

 

I francesi hanno, a questo proposito, l’espressione coup de théàtre per descrivere un inaspettato corso degli eventi che confonde i calcoli degli statisti così come i pronostici dei saggi; ed infatti vi fu sorpresa teatrale per l’Inquisitore Ambrogi, che intanto si preparava a estendere la durata del processo fino al giorno del giudizio, infischiandosene dell’inquietudine del Granduca, l’opposizione dei suoi ministri, la seccatura causata a Re Giorgio d’Inghilterra, le proteste del Signor Horace Mann, le suppliche degli amici del prigioniero e le maledizioni, profonde ma biascicate sottotono, di chiunque avesse rancori nei confronti del Sant’Uffizio; avrebbe probabilmente portato a compimento il proprio disegno, e Crudeli sarebbe morto in prigione a processo ancora aperto se il Nunzio fosse stato meno Cristiano e più politicante.

 

In ogni modo, egli inaspettatamente intervenne in difesa della giustizia, e come conseguenza di quell’intervento, anche se la giustizia non venne mai completamente restaurata, Crudeli fu alfine rimesso in libertà.

 

Anzi, di più: quando fu in possesso dei fatti, l’intercessione personale di Archinto assicurò che al prigioniero venissero migliorate le condizioni di vita, il fratello venne autorizzato a visitarlo nel corso d’una grave emorragia, ed in maggio 1970 il Crudeli fu finalmente trasferito in una stanza meglio arieggiata e sottoposto a adeguata attenzione medica.

Tali miglioramenti erano il risultato di ordini diretti dati da Archinto ad Ambrogi che quest’ultimo, seppur a malincuore, non poteva rifiutarsi d’obbedire.

 

Faremo bene a non dimenticare che il primo frammassone perseguitato per esser membro dell’Arte ebbe a trovare il suo più abile difensore in un prelato di quella stessa Chiesa che aveva bandito l’Ordine; curioso paradosso della storia che ci ricorda, per dirla con Sir Roger de Coverley, di come, nel contendere, molto possa esser detto delle due parti in causa.

 

INTERLUDIO

 

Ora, anche a rischio d’esser definito advocatus diaboli, debbo indulgere al mio desiderio di giustizia suggerendo che, anche se massone, Crudeli non era certo un santo, mentre Ambrogi, sebbene Inquisitore del Sant’Uffizio, non era poi completamente diabolico.

 

Gli erano state addotte prove che un certo membro del suo gregge non soltanto esprimeva concetti blasfemi, ma per soprammercato indulgeva in riti osceni, ed era attivamente impegnato nel seminare eresia nello stato.

 

Essendo egli responsabile per la morale e l’ortodossia in quello stesso stato sicuramente era proprio dovere l’investigare quelle accuse, facendo uso di tutti i mezzi a propria disposizione, o tutto ciò che egli avrebbe potuto procurarsi o estorcere; sebbene quindi egli possa sembrarci un nemico, altro non faceva che il proprio dovere, così come prescritto dalla Chiesa.

 

Lasciamo allora le cose così come si trovano, astenendoci da ogni dibattito sull’etica del caso, poiché così facendo ci ritroveremmo facilmente a discussioni su faccende inaccettabili in una loggia inglese.

 

D’una cosa non dobbiamo dimenticarci: né l’Italia dell’epoca, né tantomeno il mondo cattolico in generale trovava nulla a che ridire con il Sant’Uffizio. Anzi, in alcuni casi il segreto del quale tale tribunale si circondava poteva anche esser giudicato un bene.

 

Leggete la nota che segue d’un viaggiatore francese contemporaneo quale indicazione di come spirasse il vento:

 

“La libertà di pensiero, e talvolta di parola su materie afferenti alla religione è a Roma pari se non superiore a quella di qualsiasi altra città ch’io conosca. Non si deve infatti dare per scontato che l’Inquisizione sia quella bestia nera che tutti dipingono; non ho udito di alcuno che abbia sofferto per essere stato arrestato o trattato con rigore.

 

Il Sant’Uffizio è situato vicino a San Pietro, ma la Congregazione si tiene alla Minerva. Questa è composta da 12 Cardinali ed un Cardinale Segretario; il Gran Penitenziario presiede su quel tribunale; suo dovere essendo quello di riferire al Papa in tutti i casi nei quali si voglia ascoltarne l’oracolo.

Così come i Cardinali altri prelati sono membri del tribunale, assieme con un Commissario, un Assessore e diversi Teologi tra i quali invariabilmente vi è un francescano e tre domenicani.

I Teologi assieme col Commissario e l’Assessore presentano i fatti ai Cardinali; questi ultimi … decidono sul caso, se non reputano che debba essere inviato al Papa nel giorno successivo; essi però lo informano del risultato del voto e ne chiedono di confermare l’editto.

Ogni tipo di interferenza è proibita in questo tribunale, e se a un giudice vengono fatte pressioni, egli ne deve informare la Congregazione facendo il nome della persona che lo ha avvicinato.

Si dice che nessuno possa essere imprigionato prima che se ne sia provata la colpevolezza, e i delinquenti che si autodenunciano se ne vanno sempre assolti. Il segreto è inviolabilmente osservato, e per questo motivo i casi vengono portati a quella corte solo quando vi si desidera segretezza, anche per cause che nulla hanno a che vedere in materia di fede.”[lxxxiii]

 

Tali osservazioni, scaturite dalla penna d’un attento viaggiatore che certo non potrà essere biasimato d’eccessiva indulgenza nei confronti del potere ecclesiastico, ci fanno riflettere, anche nei confronti di scrittori più “romantici”, come ad esempio Edgar Allan Poe, che sicuramente avrà certo avuto meno occasioni del suddetto viaggiatore di sincerarsi di persona di come veniva svolta l’opera dell’Inquisizione.

 

FINE DEL PROCESSO

 

Papa Clemente XII, della famiglia dei Corsini e nativo di Firenze morì il 6 febbraio 1740 dopo dieci anni di pontificato. Lo Zobi[lxxxiv] così scrive del di lui successore al Soglio di Pietro:

 

“Dopo lungo e tempestoso Conclave protrattosi per quasi sei mesi tra i favorevoli all’esaltazione del Cardinale Aldovrandi, finalmente venne eletto Papa Prospero Lambertini di Bologna il giorno 7 agosto.

L’intera cristianità mostrava impazienza per quelle tattiche dilatorie e brontolava avverso al Collegio Cardinalizio … Botta, nel suo Storia d’Italia, così scrisse del nuovo Papa: - Egli scoprì che, nel voler perseguire giuste cause, il modo migliore è quello di non irritare gli avversari. I tempi avevano proprio bisogno d’un Papa di tal fatta. Da allora le controversie con Roma non furono più battaglie, ma discussioni; e l’ateismo, allora rampante nel mondo, venne prevenuto dall’avvento d’un Papa così amabile e spirituale. –“

 

Crudeli dovette la sua scarcerazione finale dall’Inquisizione nell’aprile del 1741 principalmente ai buoni uffici del Nunzio, ed in secondo luogo alla sagacia di Papa Lambertini, Benedetto XIV.

 

All’estero correva notizia che il nuovo Papa fosse appartenuto all’Ordine massonico, ma tali voci sono probabilmente dovute a malizia, poiché si diceva anche che fosse un giansenista; ad ogni modo egli rinnovò la scomunica alla massoneria fulminata dal predecessore, ed in nessun modo si può affermare che abbia favorito quella Società[lxxxv].

 

I dissapori tra il Nunzio e l’Inquisitore continuarono per qualche tempo, il primo a insistere che si giungesse ad una conclusione del processo, l’altro a ritardarne i lavori. La morte di Clemente XII, rigido sostenitore del potere ecclesiastico e nemico dei frammassoni, aiutò il Nunzio, poiché nel lungo periodo di interregno prima dell’elezione di Prospero Lambertini, e cioè quasi sei mesi, l’establishment clericale fu maggiormente soggetto a più miti consigli.

 

Il 9 giugno il Nunzio riuscì a far trasferire Crudeli dalle prigioni dell’Inquisizione al Castello di San Giovanni battista, per attendere il verdetto finale in custodia secolare.

Sebbene le pene del Crudeli non cessarono con l’essere trasferito in una prigione di stato, egli aveva comunque fatto passi da gigante sulla strada della propria libertà, ed il resto della sua storia può essere velocemente sintetizzata senza indulgere in dettaglio.

 

Il 20 agosto 1740 Crudeli venne condotto alla chiesa di San Piero Scheraggio, dove fece abiura privata delle eresie che gli erano state imputate. Si trattò di un affare trattato a porte chiuse ove non vennero ripetute le accuse né lette le deposizioni dal Minerbetti, così da non gettare discredito né ai massoni né tantomeno al Granduca.. a causa di tale riservatezza, l’udienza non era composta che da sette persone.

 

Una volta ottenuta l’abiura si lesse il verdetto, che lo faceva colpevole di diverse espressioni eretiche, ordinandone l’esilio a Poppi nella propria dimora ed ingiungendogli inoltre di versare un’obbligazione di 1000 scudi, che avrebbe perduto qualora si fosse allontanato da quel luogo senza permesso.

 

Vi fu poi un duro scambio di frasi risentite tra lui e l’Inquisitore, dopodiché egli giurò di sottomettersi ed osservare la sentenza, e venne alfine rilasciato.

 

Il confino alla propria casa di Poppi era comunque una forma di prigionia, poiché il Crudeli era obbligato a restare a casa tranne che per sentir messa, e anche a casa egli rimaneva soggetto a visite giornaliere dell’inquisitore locale Padre Cochini, il quale costantemente lo spronava a rimettere l’obbligazione di cui abbiamo detto, con il Crudeli che invece adottava ogni possibile mezzo per ritardarne il pagamento, cosa che egli faceva su consiglio del Richecourt, ancora irritato per aver dovuto cedere all’Inquisizione.

 

A Poppi, però, “Ogni vento che scende dall’Appennino è una minaccia” per le malattie polmonari, sì che costantemente s’aggravava l’asma cronica del poeta. Per questo motivo egli inviò un memoriale al Sant’Uffizio richiedendo di potersi trasferire a Pisa, ma settembre passò senza alcuna risposta.

 

Gli amici, e tra questi particolarmente Antonio Niccolini, fecero quanto possibile. Richecourt sarebbe stato incline a farlo trasferire e sopportarne le conseguenze, ma avendo il Crudeli giurato di sottomettersi alla sentenza, quest’ultimo conservava scrupoli e remore ad agire senza autorizzazione, e così passò anche novembre.

 

Infine, egli fu convocato a Firenze per informarlo dell’autorizzazione al trasferimento a Pontedera, paese con un clima senz’altro migliore, anche se privo di attrattive per un uomo come Crudeli. Così, non appena arrivato alla sua nuova residenza, ecco che gli amici ancora una volta si mossero per ottenerne il passaggio a Pisa.

 

E’ senz’altro possibile che l’interesse di Richecourt nell’intera vicenda fosso dovuto, più che al Crudeli di per sé, all’ostilità che lo animava nei riguardi dell’Inquisizione, ostilità da quelli contraccambiata per interposta persona, che ne faceva le spese.

 

Infine, si riuscì ad ottenere un permesso che autorizzava Crudeli a stabilirsi ovunque egli volesse in Toscana, con la sola esclusione delle città di Firenze, Siena, Pisa e Livorno: alla fine egli decise di rimanere a Pontedera, almeno per quell’inverno.

 

Il buon Vescovo Archinto non aveva però dimenticato quel pietoso caso e tanto intercedette con Benedetto XIV, che alla fine, nell’aprile del 1741, ottenne la libertà completa per Crudeli.

 

Egli allora fece immediatamente ritorno a Firenze ai suoi amici di sempre, ai ricevimenti di Sir Horace Mann e al dolce far niente nei caffè, nei giardini e nelle biblioteche della città.

 

MORTE DI CRUDELI

 

Uno dei suoi migliori amici, il Dottor Cocchi, si accorse subito di aver di fronte un uomo morente ed alla fine, tra alti e bassi, il Crudeli si spense nella sua casa di Poppi il 27 gennaio 1745.

 

“L’amore e l’odio che egli aveva suscitano negli altri, però, non svanirono quando smise di respirare”, narra il suo biografo, infatti: “Amici e nemici, frammassoni e bigotti, continuarono a tesserne le lodi e ad esecrarne la memoria.”[lxxxvi]

 

Il tempo ha inghiottito tutto ciò che ne dicevano i detrattori, ma gli amici si possono ancora udire che parlano in suo favore, in un volume di versi pubblicato postumo, dedicato a Horace Mann ed illustrato da un bel ritratto. Il poeta però non potrà sapere se tali versi incontreranno il favore del pubblico o meno.

 

Autant en emporte le vent.”

 

Secondo la tradizione, egli spirò con una rima tra le labbra mentre parlava con Padre Doni, vallombrosano, che gli offriva conforto spirituale nell’ora della morte:

 

Padre Doni, Padre Doni,

Preghi Dio che ci perdoni.”

 

La forma di quest’ultima frase, così tipica dell’uomo, può darsi abbia meravigliato coloro che la udirono in quel triste momento, ma non dobbiamo aver tema di comprenderne lo spirito ed il sentimento vero; noi tutti invochiamo la pietà, così come il pubblicano della parabola, poiché davvero non esiste, all’orecchio, miglior parola di passo di quella Pietà che è Eterna.

 

SOPPRESSIONE DELL’INQUISIZIONE IN TOSCANA

 

La storia che abbiamo narrato ci rivela quanta frizione esistesse tra le autorità civili e religiose in Toscana; tutto ciò ebbe finalmente a cessare.

 

Una confisca illegale di libri da parte dell’Inquisizione convinse alfine il governo della Reggenza ad abolire la censura della stampa, amministrata fino ad allora dal Sant’Uffizio con più zelo che tatto.

Nulla si fece fino al 1743, quando fu promulgata una legge preparata dal Rucellai per l’abolizione della censura da parte dell’Inquisizione. Alle proteste del Nunzio si rispose che la nuova legge non usurpava alcun diritto della Chiesa.

 

La Congrega Universale del Sant’Uffizio, allora, emise una Bolla di condanna di quella legge tanto detestabile mentre Benedetto XIV fu indotto, si dice contro il proprio volere, a lagnarsene in una lettera apostolica indirizzata al Granduca.

 

In questa lettera si affermava che i ministri toscani, ed il Rucellai in particolare, continuamente s’intromettevano nei diritti della Chiesa, e non solamente nella questione della stampa, aprendo così vecchie ferite mai del tutto rimarginate. I caratteri accesi degli uomini fecero il resto e Francesco replicò al Pontefice richiedendo l’abrogazione di quella Bolla di condanna la quale, a suo dire, s’intrometteva nei suoi diritti temporali di sovrano.

 

Le autorità ecclesiastiche romane si rifiutarono di cambiare anche una singola parola del testo.

Il Duca ordinò di sospendere ogni tipo d’attività d’ogni tribunale del Sant’Uffizio in Toscana, stato questo di cose che si protrasse poi per undici anni.[lxxxvii]

 

Non era stata ancora abolita l’Inquisizione in Toscana che già i frammassoni tornarono a far capolino a Firenze sebbene, per quanto ne sappiamo, non ancora organizzati in una Loggia, dandosi a pubblicizzare le loro azioni, anche se avrebbero potuto tranquillamente farne a meno.

 

“Nella notte del 13 febbraio 1747 si è tenuto un gran ballo in via della Pergola, al quale ballo molti degli Inglesi si diedero a rappresentare la Frammassoneria. Gli abiti erano eleganti e Denis, il primo ballerino, che è un Maestro Muratore, compose una danza per l’occasione che ebbe molto successo. Agli italiani la danza piacque e la presero per una mascherata, poiché tal essa sembrava, danzandola due volte con grandi applausi.

 

Alla terza volta la danza fu interrotta e quelli se ne ritennero offesi. Gli animi ne furono riscaldati, ma la calma fu ristabilita dal Generale Salvi. Ho udito che gli Impresari ne rimasero oltraggiati (io non mi ero trattenuto sino a quella tarda ora) e Lord March[lxxxviii] si arrabbiò talmente con loro che propose che ciascuno dei nove frammassoni avrebbe dovuto battersi con uno degli impresari. Essi avrebbero voluto presentarsi con quegli stessi abiti al ballo di giovedì notte, ma il trambusto provocato fece loro cambiare idea.”[lxxxix]

 

Quest’incidente può essere citato in relazione alla saggezza dei nostri precursori della Gran Loggia d’Inghilterra che due secoli or sono proibirono l’uso in pubblico di paramenti massonici, una legge ben salutare.

 

Il 5 giugno 1753 il Vaticano revocò la Bolla emessa 10 anni prima dal Sant’Uffizio che aveva portato a bandire l’Inquisizione in Toscana. Lo Zobi concede alto credito a Benedetto XIV per quest’atto di sfida agli estremisti di corte.

 

Essendo così venuti meno i motivi del dissidio tra il Papa e l’Imperatore, l’Inquisizione venne di nuovo autorizzata in Toscana, nel settembre del 1754, ma solo nella forma permessa nella Repubblica di Venezia, formando cioè collegi giudicanti misti, ove sedevano assieme giudici dello stato e giudici religiosi. Le vecchie prigioni del Sant’Uffizio furono chiuse e gli accusati trasferiti alle ordinarie galere di stato.

 

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APPENDICE I

 

I GIACOBITI IN ITALIA

 

Alcuni tra i visitatori inglesi in Italia procurarono diverse noie al loro stesso governo. Il Mann scrive in una lettera a Walpole del 18 gennaio 1745 che alcuni leali sudditi inglesi avevano abbandonato Roma al disgusto causato dalla deferenza d’alcuni loro compatrioti al Vecchio Pretendente il quale aveva la propria corte in quella città.

 

Bisognerebbe però notare che a quel tempo la rivolta non era ancora sopita, e la questione rimaneva irrisolta.

 

Scrivono così quei sudditi: “Bouverie, Phelps, Holt e Monroe rimangono in gran favore a corte poiché pubblicamente tributano onore al sovrano da burletta, col quale essi hanno cenato. Il primo era un valente discepolo di Holdsworth[xc], il secondo è un’importante studioso d’Oxford: egli non ha nulla da perdere e viaggia alle spese di Bouverie, ma poiché ha le idee giuste, è trattato come un gran cavaliere. Holt invece proviene da Suffolk e dicono che abbia estesi possedimenti. Monroe[xci] è il figlio del medico dei pazzi, ed è medico anch’egli.

 

Costoro sono persuasi che le cose andranno nel modo in cui essi stessi si augurano poiché, ti dico, frequentano pubblicamente il Pretendente e la sua gente. Quando vorrà il governo rendersi conto di tutto ciò?”

(Citato da Doran in Mann and Manners alla Corte di Firenze, vol. i, p. 229.)

 

APPENDICE II

 

Documenti di stato italiani dove si fa riferimento alla frammassoneria a Firenze

 

(Trascritto dagli archivi di Lucca e Firenze da Ferdinando Sbigoli, ora tradotto in inglese per la prima volta. Si noti che la trascrittura dello Sbigoli riproduce integralmente modi di dire ed errori degli originali, che non erano pochi, così che la traduzione apparirà più letterale che elegante).

(1)

 

Lettera di Diodati, Ministro Residente della Repubblica di Lucca a Firenze al proprio Governo

 

                                                                        Firenze, 12 giugno 1737

 

All’Illustrissimo Signor Giuseppe Niccolini

 

Ebbi recentemente ad annunciare alla Signoria Vostra che un corriere speciale fu consegnato a Roma dall’ufficio del Segretario di Stato qui a Firenze senza che io ne intendessi il motivo e non fu che più tardi che n’ebbi a sospettare la causa.

 

Da qualche tempo il Governo Spirituale è in allarme a causa di diverse massime che troppo audacemente sfidano la nostra santa religione, correntemente discusse tra i letterati di qui e derivate in massima parte dalle scuole di Pisa, ivi propugnate da alcuni virtuosi sul modello di quelli che si dicono frammassoni, che provarono a stabilirsi in Francia, e furono soppressi perché simili a quelli che esistono in Inghilterra, nelle cui riunioni, si dice, sia amministrato un giuramento che copre tutto quanto sia colà fatto o detto.

 

La Corte di Roma ha deciso di inviare a Firenze due Delegati Apostolici o Delegati dell’Inquisizione per studiare la questione, ed altri messaggeri, si dice, sono stati inviati con notizie a quel riguardo, non sappiamo ancora a quale scopo, se per intralciare il lavoro di quelli o per spronarli a strappare la mala pianta sul nascere, poiché se questa si espandesse fatali conseguenze ne deriverebbero.

 

Per quanto ho potuto verificare Sua Altezza Serenissima l’Elettrice stessa n’è grandemente disturbata, ed essendone a lei obbligato, al momento, il Consiglio di Stato, è possibile che la Corte di Roma sia qui aiutata, a patto che non si attacchino diversi notabili locali i quali hanno gran credito e supporto in questo stato; il tempo ci aiuterà a scoprire la verità e specialmente quanto sia vero che il richiamo del Generale Wachtendon[xcii] ieri da parte di Sua Altezza il Granduca abbia questo obiettivo particolare, e con tutti i rispetti rimango servo obbediente e devoto di Vostra Grazia

 

                                                                                                Lorenzo Diodati[xciii]

 

 

 

(2)

 

Diodati a Niccolini

 

                                                                                                            Firenze, 16 giugno 1737

 

Al Signor Niccolini di Lucca

 

In risposta alla gentile lettera di Vostra Grazia del 14 vi dirò di come la congregazione dei frammassoni fu istituita, secondo quanto si sa, da un certo Milord Mildesses (Middlesex) con un altro inglese di cui ignoro il nome, un certo Barone Stoches di Hannover ed un ebreo; a tale società molti fiorentini si aggiunsero, della nobiltà, del clero, e della borghesia, e particolarmente coloro che dicono essere uomini di lettere.

 

In ogni modo, siccome normalmente le cose, in Firenze, sono molto esagerate nel corso della conversazione, sono sicuro che quell’influsso non è così forte, a dispetto di ciò che se ne decanta e dello scrivere. Ad oggi non è chiaro quali siano le dottrine di tale convocazione, poiché quelli si legano per mezzo di un giuramento solenne e si dice anche, sebbene cosa incredibile in se, che coloro si danno licenza l’un l’altro di assassinare quelli tra loro che debbano divulgare il segreto.

 

Ho udito però che quando si provò a fare quella società a Torino, si scoprì che si basava sui seguenti tre detestabili principi, e cioè la conoscenza carnale di donna non è peccato; la Confessione non è necessaria, essendo il pentimento sufficiente a restituire lo stato di grazia; e che la carne può essere mangiata anche di venerdì e di sabato.

 

Se queste persone abbiano tali opinioni non è noto, è però vero che se ne parla in giro, e ripetutamente, da parte di coloro che potrebbero essere membri segreti di quella società, e quindi si può immaginare che queste idee siano reali, anche perché è professato senza esitazione o riserva, che i letterati non dovrebbero avere pregiudizi, e solo gli idioti dovrebbero avere fede cieca, così che un buon cattolico è visto da molti di loro come un’ignorante.

 

Vedremo se i due domenicani giunti segretamente ieri da Roma da parte dell’Inquisizione scopriranno alcunché di definito.

 

Sia il Nunzio che l’Arcivescovo si adoperano per la dissoluzione di quella compagnia, o almeno d’esiliarne i capi; ma ad oggi non è stata presa decisione alcuna, ed il momento è, in effetti, brutto, data l’attuale situazione del governo.

 

L’attenzione mostrata da Vostra Grazia per la vicenda è lodevole, poiché credo che la gente stia tentando di spargere questo veleno per tutte le città italiane, ed essi avranno successo nell’arruolare membri in gran segreto, anche se le Logge potranno non apparire in alcuna città, con il pretesto che tutti i membri formano un corpo unico con la prima Loggia formata in Inghilterra … sarà mio pensiero costante il rimanere in guardia per tenervi informato su quanto sia portato a mia conoscenza, nel desiderio d’aiutare a distogliere questo gran male dal nostro paese; e nel frattempo resto obbedientemente, ecc….

                                                                                                Lorenzo Diodati

 

I più importanti fiorentini che si dice siano associati, non potrei dire se a ragione o torto sono: l’Abate Niccolini, l’Abate Buondelmonti, impiegato all’Ufficio del Segretario di Stato e nipote del Signor M. Rinuccini; l’Abate Franceschi; il Senatore Rucellai, Segretario di Stato; il Dottor Giannetti, Professore a Pisa; alcuni Canonici della Cattedrale, diversi Dottori in Legge e in Medicina, ed altri del clero.

 

(3)

 

Consiglio Generale di Lucca. Archivi Segreti

 

                                                                                    18 giugno 1737

 

Vista una lettera del 16 giugno da Diodati al Cancelliere riguardo i piani contro la religione Cattolica diffusi a Firenze, e specialmente da parte di una convocazione di privati cittadini. Vista una lista d’alcuni individui che si dice siano infettati da tali opinioni, si decide che la suddetta informazione sia tenuta segreta …. E si ordina che la somma di 500 scudi sia utilizzata … per lo scopo di tenere la città e lo stato liberi da dottrine contrarie alla nostra Santa Religione …

 

(4)

 

Diodati a Niccolini

                                                                                                            Firenze, 29 giugno 1737

 

Non ho disturbato Vostra Grazia ultimamente con la faccenda dei frammassoni poiché nulla è successo da portare all’attenzione vostra, ma siate sicuro che se dovessi udirne ne riferirò senza fallo. Sono sicuro che molti individui scriveranno un’infinità di cose, molte delle quali lontane dalla realtà, questi gentiluomini seguono i modi del paese aumentando a dismisura ogni cosa, e talvolta anche inventando.

 

Cosa si sa di certo è che quell’adunanza esiste a Firenze, sebbene io ancora creda che il numero dei membri non sia grande come si dice, essendo quella ristretta ad alcuni letterati contro i quali non sarà presa alcun’azione, a causa dello sfascio del governo attuale.

 

Epperò tutti gli stranieri autori di questa fondazione rimangono in piena libertà e nessun letterato è minacciato, mentre solo alcuni frati di minor conto sono stati carcerati dall’Inquisizione, i quali forse mai sono appartenuti a quella lega, a dispetto di ciò che è stato detto o scritto che gran numero di persone di riguardo, persino signore, sia stato arrestato; E i miei Signori il Nunzio e l’Arcivescovo molto si adoperano per dissolvere la società e proibirne gli incontri, ma invano.

 

E’ una vera sfortuna che la cosa sia venuta alla luce in questo particolare frangente, poiché se non si applicano all’inizio i rimedi necessari il veleno può spargersi e rendere incurabile il male, e finché la nazioni eretiche siano ricondotte a credere che tutto ciò possa aver effetto pregiudizievole se non sulla religione che quelli professano, almeno sul buon governo, e molti di quelli hanno scritto avverso a tali incontri.

Nel darvi ricevuta delle vostre due ultime missive, ecc.

 

(5)

 

Diodati a Niccolini

                                                                                                            Firenze 2 luglio 1737

 

Milord di Mildesses, che paga ogni spesa dell’Opera magnifica che si dà questa stagione al Teatro di Via della Pergola, mi ha informato di esser disposto ad inviare la stessa compagnia a Lucca verso la fine di Agosto per recitare colà a proprie spese.

 

Ma poiché non intende apparirvi di persona, egli vorrebbe che io gli facessi la gentilezza di trovare qualche gentiluomo di rango per agire come suo deputato ed organizzare tutto quanto attiene alla produzione, mentre la perdita o il profitto rimarrebbero affar suo; ed egli mi richiede di avvicinare, come primo nome, il Cavalier Bernardini, ma prima ch’io faccia il passo credo opportuno informare Vostra Grazia, poiché questo gentiluomo, si dice, sia dei frammassoni.

 

A parte questa considerazione, è certo che la proposta beneficerebbe il nostro stato, poiché senza alcuna spesa pei cittadini Lucca offrirebbe intrattenimento capace d’attrarre stranieri, che spesso lasciano alquanto denaro addietro; tanto più che il Generale Vachtendonck nel lasciare Livorno mi disse che gli sarebbe piaciuto assistere a tale opera in settembre, ed egli ne avrebbe approfittato per visitare la città e stabilire rapporti con la nobiltà.

 

Non mi parrebbe esservi alcun pericolo in tutto ciò, poiché Milord non è mente da far gran raggiri, ed il vero intrigante qui è il famoso Barone Stoches, e al massimo si tratterebbe solo di alcuni giorni, durante i quali egli sempre sarebbe accompagnato da un astuto cittadino, che lo seguirebbe con il pretesto d’aiutarlo nell’Opera, come potrebbe essere il Cavalier Bernardini o altri al posto suo.

 

Ciò detto, Vostra Grazia agirà nel modo reputato più opportuno e prudente, avendo io pensato essere mio dovere adoperarmi per informazione e guida, e così se vi vogliate compiacere d’istruirmi alla mia risposta, rimango, nel frattempo, ecc.

 

(6)

 

Archivi Segreti di Lucca

 

                                                                                                                        5 luglio 1737

 

Avendo letto una missiva del Signor Diodati del 2 luglio al Gran Cancelliere ove si informa che un Milord inglese gradirebbe far arrivare in città una compagnia di comici per un’opera teatrale.

Si dispone … di istruire il Ministro a che egli si adoperi per sviare il suddetto disegno, così che non possa aver luogo.

 

 

 

 

 

 

(7)

 

Lettera non firmata, ma evidentemente da Diodati a Niccolini

 

                                                                                                                        16 luglio 1737

 

Non è provato che l’Imperatore abbia conferito con il Marchese Bartolomei riguardo alle novità delle quali si parla a Firenze, e molti dei messaggeri inviati da quella Corte a Roma avevano a che fare col Vescovado di Pescia, il quale è stato affidato in spregio alle procedure usuali di Sua Santità, la quale innovazione riguarda il Duca di Lorena, che appartiene, assieme con altri patrizi di quel luogo alla società dei frammassoni d’Inghilterra, la quale è molto antica, e si dice che, a parte lo stretto segreto osservato dai membri, non abbia altre caratteristiche di rilievo.

 

Potrebbe anche darsi che ciò fosse vero, poiché essi ammettono ogni genere di persona senza distinzione di rango o di nazione, e si pensa che il segreto, in verità, non sia nulla, e i loro incontri senza alcuna importanza. Se però a Firenze la cosa ha prodotto conseguenze più grandi di tutto ciò, allora si dovrà certamente fare attenzione per salvarne la nostra nazione.[xciv]

 

(8)

 

Archivio di Stato di Firenze.

Estratti da una lettera scritta da Sua Eminenza il Cardinale Neri Corsini a S.A.R. Francesco di Lorena, Gran Duca di Toscana.[xcv]

 

                                                                                                            16 aprile 1739

 

Egli (Il Cardinale) significa che si ritiene lusingato per il rispetto e l’attenzione che S.A.R. ha dimostrato da quando divenne Granduca, e che S.A.R. riceverà benignamente la rappresentazione che si intende fargli, con la speranza di non essere sospettati di poca sincerità o motivi ulteriori.

 

E che tutti i suoi concittadini potrebbero testimoniare a S.A.R. del modo con il quale egli ebbe a servire gli ultimi Granduca, suoi predecessori, e dell’amore che egli ha per il suo paese, amore che condivide con Sua Santità, che sempre è stata suo protettore, e agli ordini del quale egli presentemente si arrischia a scrivere a S.A.R. che la religione è ora in pericolo nel suo paese, dove il male si allarga rapidamente.

 

Pietà e saggio governo potrebbero arrestarne il corso, e si assicura che non si tratta di visioni o infondati timori da parte dello scrivente, né allarmismo causato da un male ancora lungi da venire, e se ne dimostreranno i fatti a S.A.R.

 

S.A.R. deve essere informata che il Barone Stock, il quale egli conosce da lungo tempo sia in Olanda che a Roma per essere uomo senza morali o religione tiene alla sua dimora scuola di puro deismo assieme ad alcuni tra i più corrotti professori dell’Università di Pisa, e gli studenti più perversi provenienti da quella stessa Università hanno sposato quei principi con la dissolutezza più assoluta.

 

Stock si crede salvo, sotto la protezione di quella Corte[xcvi] che oggi regna in Inghilterra, (sebbene egli sia odiato dalla gente onesta di quel paese). E perché non si chieda cosa accade in quella società egli l’ha chiamata dei frammassoni, e così se ne coprono le malefatte per quelli che credono che questa società sia stata formata come innocuo passatempo in Inghilterra, ma non sanno come si sia degenerata in Italia e divenuta scuola di empietà.

 

Invero in Inghilterra, ove quella si originò, non vi è bisogno di pretesto o copertura, e tutte le sette vi sono tollerate, sebbene non così sia in Italia. E ciò che è accaduto sarà esposto in modo certo a S.A.R. se ella si compiacerà di ascoltare le deposizioni fatte all’Inquisizione da persone toccate dal rimorso delle loro coscienze, che vennero a denunciarsi e a fare i nomi dei loro complici.

 

Egli vorrebbe pensare che non tutti coloro sono perduti, anche se ve ne è il grande pericolo, particolarmente pei giovani, poiché essi potrebbero senza saperlo ingurgitare iniquità come se si trattasse d’acqua fresca.

 

Le denunce ricevute dall’Inquisizione recitano che presso la casa del Barone Stoch, così come in altri caffè e negozi pubblici siano sparse dottrine contrarie alla fede e alla purezza della morale.

 

E si nega la trinità e l’immortalità dell’anima e l’autorità della Chiesa, e per quanto riguarda la morale, si asserisce che non esiste peccato dei sensi se non la sodomia, così come S.A.R. potrà chiedere in più dettaglio al Padre Inquisitore, se si degnasse di convocarlo ed ascoltarlo …

 

(Il documento prosegue facendo riferimento all’incombente campagna di Francesco contro i turchi, suggerendo ch’egli debba prima far ordine in casa propria, in modo da meritarsi i favori del Cielo contro gli infedeli.)

 

L’unico rimedio essendo per questo male, così che si possa mantenere la purezza della religione e della morale nel paese, cosa che ogni principe dovrebbe fare, di espellere immediatamente dai propri territori il Barone Stoch e Milord Raymond,[xcvii] e permettere all’Inquisitore di arrestare due o tre tra i principali colpevoli così da poter strappare le radici della setta ed indurre gli altri alla penitenza.

 

(Il Cardinale suggerisce poi di ripulire dall’eresia l’Università di Pisa. La lettera termina, infine, facendo cenno agli svantaggi che sorgerebbero qualora il Papa si dovesse vedere costretto a richiamare il Nunzio di Firenze, tacitamente alludendo al fatto che tale sarebbe la conseguenza, se il Granduca dovesse permettere all’eresia di prosperare indisturbata nei propri domini.)

 

(9)

 

Archivi Fiorentini

Dal Granduca di Toscana al Duca di Newcastle.[xcviii]

Autorizzato: espulsione del Barone Stock dallo Stato di Toscana.

 

                                                                                                            Firenze, 26 aprile 1739

 

Il bene del mio ufficio e dei miei sudditi avendomi obbligato ad ordinare il dì 22 di questo mese al Barone Stock, che qui dimorava da alcuni anni, a lasciare i miei territori entro tre giorni; essendo il Signor Mann venuto a rimostrare su tale decisione si è deciso di allungare il termine agli otto giorni, ed avendo egli nuovamente fatto presente di come si trattasse di persona sotto la protezione particolare del Re suo maestro, non si è esitato a sospendere l’esecuzione dei miei ordini, a dispetto degli urgenti motivi che mi hanno indotto ad impartirli, a causa dell’affetto che provo per Sua Maestà.

 

Vi prego quindi, signore, di rappresentare a Sua Maestà la deferenza ch’io ho per i suoi desideri, ch’io spero egli voglia, dal suo senso di giustizia, considerare che io soltanto ebbi ad impartirli per buoni motivi, e cioè per il bene del mio ufficio e dei miei sudditi, e che non me ne voglia se gli ordini saranno eseguiti, cosa ch’io comunque non farò sino a che non otterrò risposta vostra.

 

Faccio conto sull’amicizia vostra, signore, per rendermi questo gran servigio, poiché io molto desidero di conservare i favori e l’amicizia preziosa del Re, nel mentre svolgo i doveri richiesti ad un sovrano da parte del suo popolo. Essendo ecc.

 

(10)

 

Archivi Fiorentini

Dal Granduca di Toscana al Cardinal Corsini.[xcix]

Autorizzato: sulle diverse vedute a riguardo dell’Inquisizione con la Corte Papale.

 

                                                                                                            Firenze, 27 aprile 1739

 

Non posso a sufficienza testimoniare all’Eminenza Vostra come io sia sensibile a tutto ciò che dite nella vostra del 16 mese corrente. Prego che riterrete questi stessi sentimenti per quanto mi concerne, e per ciò che riguarda me medesimo, il mio stato ed i sudditi siate sicuro della mia gratitudine.

 

L’Inquisitore informerà l’Eminenza Vostra di quanto io abbia fatto; la mia partenza mi impedisce, al momento, di adoperarmi ulteriormente, ma ho preso e prenderò ulteriori misure per prevenire ciò che Vostra Eminenza giustamente teme.

 

Ciò che il Nunzio comunicherà a Vostra Eminenza dimostrerà, io spero, di quanto io desideri, dalla mia parte, rimuovere ogni ostacolo e trattenere qui un Ministro del suo rango. Non ho dubbi che la Corte di Roma dal canto suo impiegherà mezzi eguali; e sempre mi avvarrò di ogni occasione per mostrare l’attaccamento profondo che mi lega all’Eminenza Vostra, ecc.

 

(11)

 

Estratto da una missiva[c] del Granduca di Toscana al suo Primo Ministro il Conte di Richecourt a Firenze.

Non vi è indirizzo. Probabilmente scritta da Vienna.

                                                                                                                        24 ottobre 1739

 

Il resto della vostra comunicazione si riferisce al caso di Crudeli, il quale sembra vi stia molto a cuore; Anche se non la vediamo esattamente come voi, alfine di farla finita e non udirne più, ammesso che ciò sia possibile, siamo d’accordo nel permettergli la fuga, ma alla condizione che egli lasci i Nostri territori; egli potrà allora inviarci un memoriale col quale protestare la propria innocenza e fornire ogni prova che riterrà opportuna, e richiedendo che gli sia concesso di far ritorno a Firenze; allora emetteremo un decreto redatto in forma tale da non comprometterci con Roma; Considerate tutto ciò ben in anticipo ed esprimete dunque il vostro parere; non dovrà sembrare che la fuga sia stata tollerata ed ancor meno insinuata, cosa che non potrebbe avvenire se egli rimanesse nei Nostri territori.

 

(12)

 

Archivi Fiorentini.

Estratti da un documento vergato da Giulio Rucellai, Segretario di Stato

 

                                                                                                            21 luglio 1739

 

Rapporto fornito dal Senatore Rucellai al Conte di Richecourt sui diversi motivi per i quali, a suo parere, egli consideri la carcerazione di Crudeli esser contraria alla legge ed un abuso di potere.

 

Lettera scritta al Conte di Richecourt dalle mie stesse mani ch’io chiusi il giorno medesimo in un dispaccio per Sua Altezza Reale.[ci]

 

Gli ospiti inglesi, i quali a causa delle ingenti somme che spendono sono qui molto popolari, si lagnano poiché vedono aumentarsi la loro paura e lo scontento a causa di alcune frasi lasciate cadere dall’Inquisitore presso le magioni di alcuni dei più in vista tra loro (a casa Vitelli egli disse che, sebbene non sia riuscito a far bandire Stosch, riuscì comunque ad avere il Crudeli arrestato);

 

Queste sue affermazioni hanno portato a credere che uno dei maggiori crimini del Crudeli sia stato quello di essere nella società degli inglesi, dai quali egli ne traeva il pane insegnando loro il nostro linguaggio; e dal comportamento dell’Inquisitore e dal modo nel quale parlava, era evidente ch’egli sarebbe stato ben felice se la gente pensasse che i diversi effetti contemporanei tutti fossero prodotti dalla medesima causa.

 

Tali sospetti hanno continuato ad aumentarsi, poiché era noto non solamente che egli cercasse di spiare su quanto era detto ed avveniva nelle case di alcuni tra i più rispettati inglesi di Firenze, ma anche che si controllavano i passi di altri a Siena, così che egli ebbe quasi successo nel proibire ad un certo Dottor Valentini, che insegna italiano in quella città, di frequentare quella società, dicendo che questi inglesi son molto pericolosi, ed aggiungendovi altre osservazioni equivoche.

 

Così ognuno che si è accompagnato con gli inglesi è sospetto, mentre è fuor di dubbio che alcuni dei nostri concittadini hanno detto agli inglesi che non li posson più frequentare in sicurezza, cosa che ha allarmato questi ultimi e dato la stura a varie supposizioni.

 

Di tali supposizioni la più plausibile essendo che il vero crimine di Crudeli sia stato l’esser uno dei frammassoni. Io dico sia la più plausibile perché, in primo luogo: perfino durante il regno di Gian Gastone, nell’anticamera del Duca il medesimo Inquisitore ebbe a parlarmi con molta foga di questa società, che egli chiamava setta, in modo ch’io mi accorsi che evidentemente egli doveva aver ricevuto ordini precisi sulla faccenda; e quando io seppi tutto ciò credetti fosse mio dovere, al momento dell’emissione della famosa Bolla, informarne il Consiglio di Reggenza, il quale deliberò che la detta Bolla non era né da stamparsi né da offrire in vendita al pubblico a Firenze.

 

In secondo luogo il 9 giugno 1738 un prete di nome Bernini fu interrogato dall’attuale Inquisitore espressamente su questi frammassoni, chiedendogli se Crudeli fosse uno di loro, così come l’Abate Franceschi, l’Abate Buondelmonti, e il Dottor Corsi.

 

Il Dottor Pupiliani fu interrogato a riguardo dei frammassoni, e della persona di Stosch e tenuto cinque giorni in prigione senza che il Governo nulla sapesse.

 

In terzo luogo poiché alcune lettere da Roma dicono, al di là d’ogni dubbio, che questo è il vero motivo.

 

Ed infine perché per mezzo dell’ultima corrispondenza ricevuta da Roma ho saputo per certo che due privilegi usualmente garantiti in via ordinaria sono stati rifiutati a due gentiluomini: all’Abate Giulio Buondelmonti è stata rifiutata la dispensa a dire messa, ed il Cardinal Corsini disse il motivo essendo che questi era frammassone.[cii]

 

Al Canonico Maggi fu rifiutata dispensa di accedere ai Santi Ordini, ed io ho veduto il rescritto eseguito dal Cardinal Corsini e più tardi cancellato, che gli fu inviato per il tramite del Cardinal Riviera.

 

L’unica scusa data essendo che uno di quelli appartenne ai frammassoni, e l’altro invece vi era associato ed anzi ne raccomandò il Crudeli, e la dispensa fu rifiutata al secondo dopo che il relativo mandato era già stato approvato.

 

 

 

 

(13)

 

Archivi Fiorentini.

Estratti da una lettera dal Granduca di Toscana al Conte di Richecourt.[ciii]

Autorizzato; tener d’occhio il comportamento del Barone Stosch.

 

                                                                                                Vienna, 21 novembre 1739

 

Essendo voi stato informato delle ragioni che hanno determinato la Nostra decisione al riguardo di Stosch, che solo fu ritardata dalla lettera giunta dall’Inghilterra, della quale avete copia, sarà nostro dovere d’informarsi se quest’uomo si dedichi a discorsi o abbia discussioni contrarie alla Nostra Religione, il che il Re d’Inghilterra non permetterebbe, e come a voi non sfuggirà, dobbiamo esser sicuri dei fatti ed aver prova convincente per fare ciò che le circostanze richiedono; per ciò vi ordiniamo di fare quanto pensate sia necessario a questo fine, cosa che forse non sarà ardua, poiché l’affare sembra di essere di pubblico dominio.[civ]

 

(14)

 

Archivi di Stato, Firenze.

Estratto dell’interrogatorio amministrato dal Vicario del Sant’Uffizio a Bernardino Pupiliani.

 

Il mio nome è Bernardino Pupiliani, Dottore in Medicina, di anni 28, nato a Firenze, dove ho genitori e fratelli ... Occasionalmente sono stato alla dimora del Barone Henry Stosch.

Come avete fatto a divenire visitatore della casa del suddetto Stosch?

Vi fui presentato dall’Abate Buonaccorsi.

Mentre visitavate il Barone Stosch, siete mai stato colà in compagnia di suo fratello?

Mai, né io mai ne entrai gli appartamenti in quella casa.

Chi faceva visita al Barone Stosch, fratello del suddetto barone Henry, a che ora, e tutti assieme o alla spicciolata?

Molte persone vi andavano le quali io non conosco, mi capitò di vedere però, mentre ero dal Barone Henry, uscire dalle stanze del fratello l’Abate Buonaccorsi, i due fratelli Marcantelli, Cerusico e Martini, andarvi a trovare il fratello. Ho anche sentito dire, che l’Abate Vanneschi, l’Abate Buonducci, il Cancelliere Pomi, il Crudeli ed il Corsi, oltre ad altri il cui nome non mi sovviene, tutti questi visitavano quel luogo.

Sapete cosa tali persone facessero a tali conversazioni nella casa di Stosch?

Non lo so, poiché infatti io non vi fui mai, ma suppongo essi parlassero o leggessero, mentre alcuni come l’Abate Buonaccorsi e i due Marcantelli vi si trattenevano talvolta a cena.

Sapete cosa avvenisse a quelle conversazioni e di cosa si discutesse?

Non essendovi stato lo ignoro con precisione, ma ho sentito dire vi si discutesse questioni quali se la terra si muova, se l’anima sia mortale o immortale, se il mondo sia comandato da Dio o dal caso, se esista o no il Purgatorio, l’autorità del Papa, l’esistenza di Dio, di come la religione altri non sia che vivere come essere civilizzato, ed altre simili tesi ch’io non ricordo: tutto ciò mi è stato detto dall’Abate Buonaccorsi ieri sera.

Sapete se in quelle conversazioni vi sia alcuna assemblea formale e che tipo di riti particolari questa abbia?

Io non lo so, solo credevo che queste persone potessero essere frammassoni.

A proposito di frammassoneria, sapete se in alcuna di quelle conversazioni si discutesse della Bolla che scomunica la frammassoneria?

Non lo so, ma se ne discusse alla casa dell’Abate Buonaccorsi, ed egli mi disse di aver consigliato Sua Eccellenza il Principe di Craon di non permetterne la pubblicazione qui, poiché si trattava d’una follia.

Sapete in qual modo è arredata la stanza dove si tengono quelle conversazioni?

Non l’ho mai veduta, ma l’Abate Buonaccorsi mi disse trattarsi d’una biblioteca con alcuni tavoli da lettura, ecc.....

Avete mai parlato con alcuno di queste conversazioni da Stosch, e se si, con chi e cosa fu detto?

Poiché tutta Firenze diceva che i frammassoni si riunivano a quelle conversazioni, oserei dire che anch’io mi unii a quelle chiacchiere con gente che non ricordo, poiché anch’io credevo che i frammassoni si riunissero in quel luogo; e si diceva, e si credeva ch’io pure fossi frammassone, e mi si diceva che quelli discutevano questioni di religione, ed erano atei e peggio, cose ch’io talvolta contraddicevo.

Vi hanno mai chiesto se sapevate cosa accadesse alla casa di Stosch?

Diverse persone mi dissero, come vi ho detto, che si trattava di incontri di frammassoni, ed erano sicuri ch’io vi partecipassi, ma nessuno mi domandò nulla di specifico ... e quando io mi confessai a Fra Giovanni del Sant’Uffizio egli mi domando se avessi mai udito dire da alcuno ... che la Religione è un’invenzione dei preti, che Dio diede autorità a San Pietro solamente, e che il Papa non ne ha alcuna, e la Bolla contro i frammassoni non debba essere accettata ed è un inganno; e poi mi domandò ... se fossi frammassone, cosa ch’io negai.   

 

(15)

 

Archivi di Stato di Firenze.

Accusa di Crudeli da parte del Sant’Uffizio[cv]

 

Articulos infrascriptos dat, exibet, atque producit Dominus Oratius Bassi Procurator Fiscalis Sanctae Inquisitionis Civitatis Florentiae in Causa, quem habet contra et adversus Doctorem Thomam Crudeli Careratum in Carceribus dictae S. Inquisitionis ex adverso principalem, quos ad probandum recipi, et admiti juxta stilum Sanctii Officii, et super illis infrascriptos testes diligenter examinari petiit, et instat, ad superfluam tamen probationem nullatenus se adstringens, de quo solemniter et expresse protextat: omni meliori modo ecc.

 

In primis dictus Procurator Fiscalis, quo supra nomine hoc loco articulorum repetit, et reproducit omnia, et singula in processu, causa hac tenus deducta praesertim confessiones dicti Inquisiti in parte tamen, et partibus in favorem Fisci, et contra dictum Doctorem Thomam Crudeli facientibus et non alias, nec alio modo, de quo expresse protextatur omni meliori modo.

 

Ex quibus sic repetitis clarissime constare dicit de bono Jure Fisci, et malo Jure dicti Thomae Crudeli, et quatenus non plane constaret praefatus Dominus Fiscalis, et probere vult, et intendit. Primo qualiter praedictus Thomas Crudeli male sentiens de Sacra Theologia Scolastica, de Sacramento Confessionis, et de S. Officio locis, temporibus et occasionibus prout in Actis asseruit.

 

Si tratta di Filosofia Scolastica inutile, superflua, chimerica e contenente falsità. Che gli Angeli Custodi stiano al finestrino ad osservare i moti del cuore allorquando la Teologia Scolastica sia in discussione.[cvi]

Che egli avrebbe voluto confessarsi per far fare al confessore la figura del sempliciotto, e dopo la confessione dirgli: “Sei un somaro”.

Che il Sant’Uffizio sia ingiusto, accettando le accuse e non permettendo gli accusati di difendersi, ed esaltando la Francia, ove non vi è Sant’Uffizio.

 

Secundo Item qualiter praedictus Thomas Crudeli animo prorsus hereticali dixit, et affirmavit occasione discursus, che una persona abbia in animo di recarsi in pellegrinaggio alla Madonna dell’Impruneta al solo scopo di buggerarla.

 

Tertio Item qualiter praeductus Thomas Crudeli intervenit in una casa ove eravi molti libri rari, e dove si conversava di Filosofia e di Religione, e la discussione prese una piega agnostica e spregevole a dimostrazione del fatto che egli fosse ateo.

 

Quarto Item qualiter dictus Thomas Crudeli prese parte ad una riunione in una casa di Firenze alla quale, quando tutti vennero accettati, qualcuno al suo primo ingresso avrebbe detto, abbracciandolo: “Benvenuto amico, per grazia di Dio e della brava gente avete abbracciato questo Rito”, dopodiché il nuovo membro si sarebbe prostrato a terra e qualcun altro mannejando ad esso il membro virile usque ad seminis effusionem col detto seme scriveva poi in certa carta così: io, così e così, giuro alla presenza degli associati che mi manterrò fedele in fare tutto quanto gli altri facciano, e se fallissi prometto di sottomettermi ad ogni possibile mortificazione del corpo.

 

Che il detto nuovo membro poi prendeva posto in una sedia senza braccioli, ed alzata una gamba in aria, ratificava il giuramento.

 

Le discussioni che colà hanno luogo parlano di Filosofia e di Teologia, ma con molti errori contro alla nostra Santa Fede come, per esempio, che nessun atto carnale sia peccaminoso ad eccezione della sodomia.

Che non vi è Purgatorio né indulgenze, ecc.

Che il papa non ha potere poiché Gesù Cristo lo diede a San Pietro e non ai suoi successori. Che le tre Persone Divine siano tre Deità.

Che nel Sacramento dell’Eucarestia non vi sia presente il vero corpo di Gesù Cristo.

Che Dio sia l’autore del male, poiché ne permette l’esistenza. Che Dio non sia verità. Che la vera regola di fede sia di credere ciò che sia mostrato reale dalla ragione. Che San Giovanni l’Evangelista fosse un asino.

Che sia stato normale il non andare a messa, eccetto di volta in volta per salvar le apparenze, ed inginocchiarsi talvolta al Santo Sacramento, e per la stessa ragione saltuariamente confessarsi.

Che tutto possa essere legale ciò che tale appare ad un uomo civile, ed illegale ciò che non gli aggrada.

Che sia legittimo il ribellarsi contro il Re se questi impone gravi fardelli.

Che allorquando la Bolla di Clemente XII nella quale la società dei frammassoni veniva condannata era pubblicato, al Papa venne imputato d’aver bandito qualcosa senza aver alcuna conoscenza dei suoi principi fondamentali, e che gli estensori di quel documento fossero dissennati, stupidi ed avventati ecc.

 

Quinto Item qualiter supra dicta omnia et singula fuerunt, et sunt vera, publica, notoria et manifesta. Hoc autem ecc. salvo jure ecc. non se abstringens etc. protextat, ecc. omni meliori, ecc.

 

(16)

 

Archivi di Stato di Firenze

Estratti dalla ritrattazione di Andrea Minerbetti. Giurato 4 luglio 1740

 

Giuro e dichiaro che avendo qualche tempo addietro udito molto parlare della Compagnia dei Frammassoni altrimenti detta dei Frimmessons, e volendo esservi ammesso, ed a quello scopo aver interpellato diverse persone ch’io credea potessero aiutarmi al mio obbiettivo, essi mi fecero capire e m’imposero molte cose a riguardo della detta compagnia, dimodoché per qualche tempo, cosa ben nota in città, ne rimasi abbagliato, ed avendone alfine chiesto ad un personaggio di nascita e di rango, Protestante, all’epoca residente in città, anch’egli mi raccontò molti dettagli immaginari della detta compagnia.

 

E poiché, non ostante ciò, non riuscii mai ad ottenere quello che desideravo, e volendo almeno apparire come se ne facessi parte, anche se così non era, ed essendomi stato detto tra le altre cose che quelli si riunivano alla casa del Barone von Stosch, che molte oscenità vi venivano commesse, ed opinioni eretiche ed atee espresse, ed il rispetto dovuto al Sovrano ne era attaccato; ecco che ai miei soli scopi, ovunque io fossi, parlavo di tali supposizioni come se vi fossi stato presente di persona per vedere, udire e praticarle. Allora queste mie affermazioni debbono essere state riportate al padre Inquisitore.

 

Egli iniziò domandandomi delle cose ch’io aveva detto riguardo ai frammassoni ed in particolare dei loro riti osceni, dottrine atee ed eretiche, e frasi sovversive contro al Sovrano.

 

Sapendo io che non era vero ch’io fossi stato personalmente presente a vedere, udire o praticare tali cose, dapprima negai, ma quando il padre Inquisitore insistette ch’io le aveva invero dette, e sapendo io stesso d’averle dette ebbi paura d’essere arrestato se le avessi negate, ed allora decisi di ripetere al processo le mie invenzioni, così come avevo fatto in precedenza a Firenze; ed anzi, udendo il Padre Inquisitore pronunciare il nome di molte persone che sarebbero state coinvolte in tali cose, ed avendo ormai raccontato una storia che era falsa dall’inizio alla fine, e basata solo su ciò che mi era stato detto, mi decisi a confermarne i nomi, che certamente mai prima avevo menzionato, come se fossero in effetti stati implicati .... poi venni al momento congedato.

 

APPENDICE III

 

Traduzione d’un passaggio dal GRUNDLICHE NACHRICHT

 

 Dopo che quest’articolo è stato scritto e pubblicato ho avuto la fortuna d’ottenere, per la biblioteca di Gran Loggia, la copia di un libro raro nella sua seconda ed ampliata edizione. Il titolo è, in tedesco, sua lingua originale: Grundliche Nachricht von den Frey-Maurern nebst beygefugter historischen Schutz-Schrift. Zweyte vermehrte Auflage. Franckfurt am Main / In der Andreaischen Buchandlung. MDCCXL.

 

La pagina iniziale riporta inoltre una riproduzione della medaglia di Sackville.

La parte più interessante delle “Notizie dei Frammassoni” sono le informazioni che il compilatore ebbe a mettere assieme sulle fortune dell’Arte nell’Europa di quei giorni; ne riporterò una traduzione di quella parte che si riferisce all’Italia. (Capitolo x, pp. 135 e seg.)

 

Poiché nei precedenti capitoli abbiamo narrato dei fatti dell’Ordine Massonico in Inghilterra, Olanda e Francia, dovremmo ora brevemente menzionare il fatto che, secondo alcune notizie recenti, non molto tempo addietro è sorta in Italia una società denominata La Cucchiara, parola che significa cazzuola da muratore.

 

Si dice inoltre che la Congregazione del Sant’Uffizio abbia scoperta la società a Roma e n’abbia arrestati i membri appartenenti a quelle famiglie che avevano contatti con la suddetta società per impararne gli scopi, ma le inchieste non dettero frutti.

 

Similmente si sa che a Firenze Lord Charles Sackville, Duca di Middlesex, figlio del Duca di Dorset, abbia colà fondato una Loggia e la fratellanza dei frammassoni, avendone fatto incidere una medaglia per l’occasione. Su un lato campeggia il suo busto in stile romano con l’iscrizione: CAROLUS SACKVILLE, MAGISTER FLORENTINUS. Sull’altro vi si mostra Arpocrate, dio pagano del silenzio in forma di nudo maschile, con un fiore sul capo, un dito della mano destra posato sulle labbra ed una cornucopia dell’abbondanza nella mano sinistra riempita di fiori e frutta. vicino, al suo lato, sono tutti gli strumenti del muratore, mentre all’altro si nota la gabbia segreta col serpente.

 

Poco prima della morte dell’ultimo granduca della casa medicea fu espletato un determinato tentativo di aprire un’inchiesta diretta ai frammassoni, dopodiché non si seppe più nulla della vicenda fino all’anno 1737 quando giunsero, dall’Italia, le notizie che seguono:

 

“Nel Granducato di Toscana, sia nella capitale Firenze sia a Livorno i frammassoni tornano ad aumentare dopo esser stati proibiti dall’ultimo Granduca. Ma essi fecero appena in tempo a riaprir le Logge che quella novità giunse a Roma.

 

il 25 giugno 1737 secondo una risoluzione del Sant’Uffizio, il Papa tenne una conferenza speciale sulla questione coi Cardinali Ottoboni, Spinola e Zondedari, ed il Capo Inquisitore n’ebbe ad uscir da Roma come conseguenza: l’Inquisizione supponeva che a Firenze si nascondesse una setta segreta di molinisti o quietisti, mentre a Roma prevaleva l’opinione che, siccome la setta sembrava prendere le distanze dalle opinioni della gente comune, potesse trattarsi d’una forma dissimulata d’epicureismo e come, tale, passibile d’essere colpita con il massimo del rigore.

 

Assieme al segreto più stretto osservato da costoro, li si accusava di far proseliti da ogni classe della società senza distinzioni di religione, inclusi i maomettani. Nel frattempo s’iniziava un procedimento criminale contro questi fratelli e varie persone furono arrestate.

Presto però il fuoco della persecuzione si spense, le Logge furono riaperte e l’Inquisizione non fu più temuta. Si disse in giro che ciò fu a causa di un gran principe che faceva parte della società, un principe dotato di tanta saggezza e virtù che certo non sarebbe potuto appartenere ad una società che non mostrava riguardo alla religione, alla proprietà privata ed alla buona morale.”

 

Il perpetuarsi però di questa cosiddetta setta sembrò grandemente pericoloso alla Curia Papale, vieppiù poiché ora aveva trovato protezione dal nuovo governo fiorentino. Così, dopo profonde ponderazioni, si decise a Roma di schiacciare la crescita del male con quanta più enfasi possibile, e fu promulgata la seguente Bolla di scomunica contro i frammassoni.

(Segue il testo della Bolla, in lingua originale)

 

Dopo che il governo fiorentino ebbe ricevuta la Bolla papale da Roma, si ritenne consigliabile inviarla a Vienna al Duca di Toscana, ora colà regnante, per averne il parere: come ci si sarebbe dovuti comportare?

 

Gli ordini che ne seguirono non sono mai stati divulgati, ma immediatamente dopo si ricevette da Firenze la seguente comunicazione:

 

“Sebbene i frammassoni, che qui possono essere incontrati in gran numero, facciano affidamento di ricevere più sicurezza e libertà in questo Stato che non a Roma, poiché hanno l’onore d’avere diversi gran principi nei loro ranghi, ciò non ostante essi sono improvvisamente in allarme perché l’Inquisizione di questa città li ha fieramente attaccati.

 

Il Dottor Crudeli, su cui era il sospetto d’esser membro di quella società ammantata di vago e di misterioso, fu arrestato l’altra settimana e gettato nella prigione del Sant’Uffizio a causa d’un ordine di questo terribile tribunale. Poco dopo, il Vicario Generale di quel tribunale si recò alla di lui casa per perquisirla alla ricerca di qualsiasi cosa si potesse utilizzare come prova al processo.

 

Per fortuna un uomo di rango, avvertito di ciò che stava per avvenire, precedette il Vicario e mise in salvo certi documenti i quali, se trovati, potrebbero aver perduto il prigioniero.

Tutti gli amici di questo dottore sono in disperazione: essi sono molti e si ritengono frammassoni fra di loro.

 

Si afferma da fonte certa che la Curia Papale, per mezzo del Nunzio Residente è riuscita ad influenzare il Granduca fino a riceverne un editto che permette all’Inquisitore, per tutta la sua giurisdizione, di procedere penalmente contro tutti i frammassoni, o tutti coloro sospettati di esserlo.”

 

Così recita la comunicazione, e se il pericolo è così grande come si dice debba essere, allora i bravi frammassoni sono davvero in una brutta situazione. Anzi, dal tempo della pubblicazione della suddetta Bolla la Corte Papale ha grandemente incrementato il proprio zelo nella caccia ai frammassoni.

 

Si offrono 100 scudi di ricompensa a chi possa scoprire i membri della setta o il luogo dove si ritrovano; e anche se l’informatore è un frammassone, se egli tradisce i compagni può ben sperare nel perdono e nell’assoluzione.



[i] P. 92 et sqq., dalle quali si riporta. i lettori potranno far riferimento a A. Q. C., xii, 204, xxxii, 31; ed in particolare all’articolo del Crawley in xiii, 149, relativo al graduale accumularsi di prove dell’esistenza della medaglia e della Loggia. Il Gould nel suo History, III, 300, non riporta l’esistenza né dell’una né dell’altra. Crowley cita un brano da Freemasonry Farther Dissected per assumere l’esistenza di una Loggia a Firenze a partire dal 1730, basandosi sulla data del “18 luglio 1730” contenuta in una lettera proveniente da Roma. Io suggerisco invece si trattasse piuttosto di un’errore di battitura, dove 1730 appare in luogo del 1737 e che pertanto quelle conclusioni non abbiano valore alcuno. Il lettore in ogni modo potrà formarsi la sua propria opinione dalle nuove prove che presenterò nel corso del presente saggio.

[ii] L’autore di questa importante lettera non poté essere identificato nel 1924. Oggi non avrei esitazioni nell’affermare che potesse trattarsi del Barone Philip von Stosch, sul quale il lettore verrà adeguatamente edotto.

[iii] Milano, 1884. Attraverso questo saggio mi sono accontentato di proporre, arrangiandola, la narrativa dello Sbigoli senza annotarne la pagina nell’originale; in alcuni rari casi, non potendo far riferimento ad alcune sue affermazioni nel documenti originali, ho badato a riportarle tra virgolette. Credo però che lo Sbigoli sia, in effetti, fonte veritiera d’informazione. Ho provveduto poi a tradurre la gran parte della sua documentazione originale, che ho riportato nel presente saggio all’Appendice II.

[iv] Vedasi alla Appendice II.

[v] Giovanni Gastone, più conosciuto come Gian Gastone, ultimo dei Granduca dei Medici nacque nel 1671 e successe alla guida del Granducato nel 1723. Suo padre e predecessore Cosimo III era sottoposto a forti influenze della Chiesa, che vennero a scemare al momento della sua morte.Gian Gastone sposò, nel 1697 Anna Maria di Sassonia-Lauenberg che lasciò dopo un anno; da allora gli scandali che riguardarono la sua vita privata non furono mai associati a nessuna altra donna. Dal momento della morte di sua cognata la Principessa Violante nel 1731 egli lasciò che il Granducato cadesse sotto l’influenza del suo valletto Giuliano Dami, noto così come odiato dalla popolazione. Essendo Gian Gastone ultimo della sua linea e senza eredi diretti, le grandi potenze europee procedettero a sistemare le questioni toscane senza ascoltare la Principessa, prima proponendo la guida del Granducato a Don Carlos, figlio del Re di Spagna, poi, per mezzo dell’Arciduchessa Maria Teresa, figlia dell’Imperatore Carlo, convincendo, dopo molta diplomazia, Francesco di Lorena a rinunciare, in cambio della Toscana, ai propri diritti ereditari sulla Lorena a favore di Luigi XV di Francia il quale la diede in appannaggio a suo suocero, l’ex Re di Polonia.

[vi] Sbigoli suggerisce, op. cit., p. 62, che si potesse trattare di Henry Fox, poi divenuto Lord Holland, padre del famoso Charles James Fox, sebbene tale congettura debba essere considerata per ciò che è fino a che non vi siano a disposizione prove più sostanziali.

[vii] Forse Foulkes?

[viii] Sappiamo, per esempio che Thomas Mathew, ultimo Gran Maestro degli “Antichi” faceva uso di simili patenti irlandesi nel corso dei suoi viaggi giovanili nel Continente.

[ix] Lettere, edit. 1743

[x] Henry Seymour Conway, che divenne poi feldmaresciallo dell’esercito inglese.

[xi] Si dice che l’Abate Vanneschi sia stato membro della Loggia di Firenze.

[xii] La società dei Dilettanti fu fondata nel 1734.

[xiii] Si disse che il Principe di Galles fosse un ammiratore di Lady Middlesex.

[xiv] Vedasi John Doran, London in Jacobite Times, Londra 1877. Vol. ii, p. 63 et. Sqq.

[xv] Non ho dubbi che brutali esibizioni di tale sorta, specialmente se si considerava degna di lode l’azione di provocare gli avversari in pubblico abbia poi portato alla regola salutare che vieta ai frammassoni le discussioni di natura politica o religiosa nelle loro Logge. Tale saggia regola, ancora strettamente osservata in questo paese, ha preservato la nostra Fratellanza dal divenire una di quelle società politiche segrete che soltanto portano confusione e per le quali non vi dovrebbe essere necessità in uno stato libero.

[xvi] Horace Walpole, History of George II, 1846, vol. i, p. 97.

[xvii] E ancora lo sono, per fortuna della letteratura inglese.

[xviii] Orrery Papers, vol. ii, p. 181.

[xix] Vedasi Sbigoli, op. cit. pp. 63-4. Il museo di Stosch a Firenze venne descritto dal famoso Winkelmann:”Description des pierres gravées du feu Baron de Stosch, dediée à son éminence monseigneur le cardinal Alézandre Albani, par M. l’abbé Winckelmann, Bibliothécaire de son éminence. A Florence MDCCLX. Chez André Bonducci.” Il libro contiene una dedica al Cardinale di Filippo von Stosch, nato Muzell, nipote ed erede del Barone Filippo il vecchio, con un ritratto di quest’ultimo in forma d’un busto romano con su scritto: IMAGO PHILIPPI DE STOSCH. LIB. BARONIS RERUM ANTIQUARUM STUDIOSI AB EDMUNDO BOUCHARDON GALLO E MARMORE EXCULPTA. ROMAE MDCCXXVII.

[xx] Lettres d’Italie (Edit. Dijon 1927, vol. i, p. 213). Questo stesso viaggiatore, scrivendo da Firenze nell’ottobre del 1739 così riporta: “Ce Stock vient d’etre chassé de Rome comme espion du Prétendant; il s’est réfugié ici, où l’on voulait lui faire le meme traitement, si le roi d’Angleterre n’eut déclaré qu’il y maintiendrait par toutes les voies imaginables, cela n’a pas servi à diminuer les soupcons qu’on avait.”

[xxi] Jacques Hardouin (1686-1766), storico e studioso. Tutore delle figlie di Re Luigi XV di Francia.

[xxii] Una celebrità di Firenze, del quale parleremo più avanti.“Stosch è veramente un uomo perverso”, scrisse Cocchi nel suo Effemeridi, alla data del 21 settembre 1739.

[xxiii] Letters, Cunningham edit., 1877, vol. i, p. 149.

[xxiv] Idem, vol. i, p. 73.

[xxv] Idem, vol. ii, p. 17.

[xxvi] Recte prussiano.

[xxvii] Si compari questa affermazione con quanto riportato da Crudeli nel corso del suo processo, che invece si fece vanto del fatto di non esser mai stato suo amico.

[xxviii] Recte, Barone tedesco.

[xxix] I.e., spiare il Pretendente.

[xxx] Citato dal Doran in: Man and Manners at the Court of Florence, vol. ii, p.6.

[xxxi] Questa sezione è riportata quasi per intero dallo Sbigoli, p. 69 e segg. Egli ebbe evidentemente accesso a molta documentazione dell’epoca per procurarsi i nomi di molti stimati frammassoni italiani. Non avendo egli però palesato tali fonti, ciò che dice dovrà essere accettato con riserva. Mi limiterò ad una relazione generale sui membri di Loggia, seguita di biografie più complete per uno o due tra i più famosi.

[xxxii] Questo giovane prelato, figlio del Principe di Craon che più tardi divenne Reggente a Firenze sotto il Granduca Francesco era famoso per i suoi vizi e per la propria intelligenza. In ciò Walpole lo comparava con il Primate Stone di Armagh, noto come la “Bellezza della Santità”, aggiungendo che l’Abate ricercava il vizio per il piacere che ne traeva, mentre quest’ultimo ne approfittava come sollievo al tedio della vita in Irlanda – un vero tocco Oraziano! Il Primate di Lorena morì di vaiolo a Parigi nel 1742, e Walpole ne parla quasi con affetto in una delle sue lettere, sebbene in altro luogo egli ebbe a scrivere: “Ho udito l’altro giorno che il Primate di Lorena è morto di Vaiolo. Sareste così gentile da portare le mie condoglianze? Sebbene oserei dire che essi non ne saranno molto afflitti: si trattava d’una creatura inutile i cui vizi non saranno certo loro di molto conforto per le brutalità alle quali egli era prono.” (Walpole a Mann, 24 giugno 1742). Vedasi Doran, op. cit. vol. i. p. 75, ed anche Lettere a Sir Horace Mann di Walpole.

[xxxiii] Il Principe de Craon proveniva dalla nobile famiglia dei Beauvau di Angevin in Lorena. Suo padre fu un fidato servitore del Duca Leopoldo, predecessore di Francesco. Il giovane Beauvau sposò una delle favorite di Leopoldo e divenne tutore di Francesco il quale lo fece Principe del Sacro Romano Impero. La Principessa, ex favorita del Duca era di umili origini e divenne nota in Toscana come la Vice-Regina. Il Principe sembra essere stato un brav’uomo, se l’onestà si può desumere dall’essere spesso a corto di denari pur esercitando la Reggenza di Firenze. Nel gennaio del 1743 per esempio, Mann scrisse di aver prestato al Principe 200 zecchini per un bisogno urgente, e per ciò fare ebbe a prendere a prestito la somma in questione da un amico inglese. (Vedasi il Doran, Vol. i, p. 9.).Carlo di Brosses (op. cit. vol. i, p. 202.) scrive della sua consorte: “La Principessa de Craon si occupa anche di tenere un albergo, molto conveniente per i gentiluomini di passaggio. E’ una donna di buone maniere, e sebbene sia nonna da diversi anni, credo in verità che potrei tranquillamente prendere il posto del Duca di Lorena. Suo marito ha qui una buona reputazione, così come il marchese di Chatelet, governatore della città. Essi non sono odiati dai nazionalisti così come i loro compatrioti. Tale odio è diretto contro coloro che si occupano di governo, nel quale gli italiani, a dispetto della loro nascita o posizione, non hanno quasi parte.”

[xxxiv] Sbigoli, p. 73. Nelle sue lettere Horace Mann fa spesso riferimento all’eccessivo amore per il vino dimostrato da molti visitatori inglesi in occasione del loro soggiorno a Firenze.

[xxxv] Sbigoli, p. 78.

[xxxvi] Op. cit. vol. i, p. 202.

[xxxvii] Niccolini Antonio: alcune lettere a Giovanni Bottari, edito da Girolamo Anati, Bologna, 1867.

[xxxviii] Secondo lo Sbigoli alcune delle sue vedute sulla religione erano così liberali da essere sorprendenti in chi non solo era un membro del clero ma anche parente dello stesso Papa.

[xxxix] Letters, vol. ii, p. 70.

[xl] Idem, vol. ii, p. 73.

[xli] Idem, vol. ii, p. 94.

[xlii] Vedasi i documenti originali in appendice.

[xliii] Lettere, vol. i, p. 60.

[xliv] Diario, 1734.

[xlv] Letters, vol. i, p. 60.

[xlvi] Lettera del maggio 1741 a Mann, citata in Mann and Manners del Doran, vol. i, p. 15.

[xlvii] Letters, vol. ii, p. 187.

[xlviii] Idem, vol. iii, p. 104.

[xlix] Orrery Papers, vol. i, p. 104.

[l] Vedasi: Lettere di Walpole, vol. i, p. 191.

[li] Lettere, vol. i, p. 71.

[lii] Citato da Doran, Mann and Manners, vol. i, p. 32.

[liii] Cocchi era suo amico e medico, ed annotò nel proprio diario d’aver ricevuto un prosciutto casereccio del Casentino, dono del suo grato paziente.

[liv] Op. cit., p. 67.

[lv] Sembrerebbe quindi che lo Sbigoli avesse avuto accesso a non meglio identificati documenti di riferimento.

[lvi] i nomi originali avrebbero potuto essere Denehy and Flood. E’ curioso ritrovare qui uomini i quali, in Irlanda, ebbero a soffrire a causa delle leggi penali amministrate proprio dal quel Lord Luogotenente il cui figlio presiedeva sulla Società fiorentina.

[lvii] Nome familiare dato ai Chierici della Madre di Dio, altro ordine che contendeva ai gesuiti l’educazione dei giovani.

[lviii] Per questo e ciò che segue vedasi Sbigoli, p. 58 e seg.

[lix] Non ho ancora avuto l’opportunità di esaminare questo lavoro.

[lx] In Inghilterra, allora come oggi, alcuni prominenti massoni ponevano attenzione ai problemi che riguardavano l’ordine all’estero. Il 19 luglio 1737 il Duca di Richmond, ex Gran maestro d’Inghilterra, scrivendo ad un altro duca, anch’egli affiliato e non espressamente nominato, che potrebbe essere stato sia Norfolk che Montague, vi aggiunse un interessante poscritto nei termini che seguono: “Sarà capace nostro fratello il Granduca quietamente prendere possesso dei suoi domini? Ho paura che il Papa non approverà di un frammassone così vicino alla Santa Sede. Se ne dovesse scaturire alcuna disputa, noi tutti della Fratellanza dobbiamo partecipare alla guerra santa.” Si noti che ciò era scritto immediatamente dopo che Francesco di Lorena successe al Granducato, mesi prima che Papa Clemente promulgasse la bolla contro la frammassoneria. Questo importante documento potrà essere trovato nel volume iii della Bradley Collection, in Biblioteca di Gran Loggia.

[lxi] Vedasi, a tale proposito, le sue note di tale incontro in appendice II.

[lxii] “Non conosco la ragione per la quale Cantù e Findel (vol. i, p. 425) affermino che il Duca ebbe ad emettere un editto contro ai frammassoni, quando invece sappiamo dagli storici Settimanni, Galluzzi e Zobi che egli invece si rifiutò di far intervenire il Braccio Secolare e dichiarò che non vi fosse nulla di male in quest’istituzione.” Nota dello Sbigoli, p. 55. Degli scrittori italiani da lui menzionati ho consultato lo Zobi solamente.

[lxiii] Firenze, 1850, vol. i, p. 198.

[lxiv] Vedasi all’Appendice II per una traduzione dei documenti originali.

[lxv] Così riferendosi al Cavaliere di San Giorgio, o Vecchio Pretendente, secondo i gusti.

[lxvi] Vedasi la traduzione dei documenti originali in Appendice II.

[lxvii] Essi furono i responsabili della nuova legislazione la quale, nell’agosto 1737, obbligava gli ecclesiastici a contribuire ad un prestito forzato per il pagamento del debito nazionale, mentre nel gennaio del 1738 si proibiva il Sant’Uffizio di armare i propri famigli con armi letali durante lo svolgimento del loro compito.

Il Senatore Giulio Rucellai fu professore di Legge Civile a Pisa dal 1727 al 1730, anno in cui fu nominato Vice Auditore-Segretario nel governo, succedendo poi in quell’incarico nel 1733. Avvocato profondo ed erudito, la sua cultura e fermezza di carattere ne fecero un amministratore di successo. Rese un buon servizio allo stato contribuendo a mantenere in ogni occasione la supremazia dello stesso verso i tentativi delle autorità ecclesiastiche di intervenire in faccende secolari”. Zobi, Storia della Toscana, vol. i, p. 274.

[lxviii] Op. cit., vol. i, p. 225.

[lxix] Nato a Artonay nello Champagne nel 1695 e morto a Vienna nel 1775.

[lxx] Appunto redatto in lingua inglese nel diario, dal chiaro significato, anche se mal costruito.

[lxxi] Carlo di Brosses (Op. Cit. vol. ii, p. 60) al quale fu concessa udienza con Clemente nel 1739 così racconta: “Sono ormai molti anni che egli non combina più nulla, essendo divenuto cieco subito dopo la sua elezione a Papa (1730). Tutto governa suo nipote Neri Corsini, un uomo ben al di sotto della media.” E nuovamente 8p. 115): “Il Cardinal Corsini non ha reputazione se non quella di bonhomme; sebbene tutti gli affari di governo siano nelle sue mani, ciò non significa che egli ne abbia la capacità richiesta; così che le faccende rimangono mal amministrate. La considerazione della quale al momento gode, certo non permarrà oltre la vita dello zio.” Clemente aveva allora 88 anni. Nel suo tratteggio del Collegio Cardinalizio il nostro autore è ancora più severo col Corsini (p. 291): “Corsini, impiegato in tonsura, fiorentino, nipote del Papa attuale, poco talento, ancor meno giudizio, nessuna capacità, corteggiato a causa della sua posizione e del gran numero di nomine effettuate dallo zio nel Collegio Cardinalizio. Il Conclave mostrerà di cosa sia in effetti egli capace. Il governo è nelle sue deboli mani; egli ha ridotto le finanze in stato deplorevole.” 

[lxxii] Vedasi la lettera in Appendice II.

[lxxiii] Egli fu poi eletto Imperatore di Germania nell’ottobre del 1745. Non ho potuto ottenere prova che possa aver mai rimesso piede in Toscana nel frattempo.

[lxxiv] Vedasi l’originale della lettere in Appendice II.

[lxxv] Citata dallo Sbigoli, p. 179.

[lxxvi] Simili  fole sono state prese per l’assoluta verità anche da alcuni storici massonici. Il Rebold falsamente scrive di come Gian Gastone proibisse ogni attività massonica nel 1737, mentre dopo la sua morte i frammassoni tornassero a riunirsi, dimodoché il Papa ebbe ad inviare l’Inquisizione per arrestarli tutti a Livorno ed a Firenze, ma essi furono alfine liberati da Francesco di Lorena. Anche il Findel prende degli abbagli a questo riguardo: Secondo lui, il Crudeli fu arrestato nella propria casa, mentre i suoi scritti furono messi in salvo da un massone di alto rango, aggiungendo che altri membri della loggia furono imprigionati e torturati per estorcere loro i segreti della frammassoneria. In questo caso l’immaginazione del Findel ha fatto faville, seguendo l’odore immaginario proprio del romanzo. Sebbene infatti l’Ambrogi fosse animato da pregiudizio contro il Crudeli, e sebbene si possa affermare che il trattamento inflitto a quest’ultimo potesse esser duro ed inumano, non vi è prova alcuna che possa suggerire che questi abbia voluto infliggere la tortura al prigioniero.

[lxxvii] Una simile reazione ai dettami della Bolla da parte di un italiano non particolarmente devoto mi sembra, in effetti, cosa importante.

[lxxviii] Mi dispiace non essere, al momento, nella posizione di poter citare tali domande.

[lxxix] Per questa lettera vedasi all’Appendice II.

[lxxx] Ferdinando (1663-1713) era il figlio maggiore di Cosimo III. Sposò nel 1688 Violante Beatrice di Baviera, non avendone figli. Quando Gian Gastone divenne Granduca nel 1723 sua cognata, la vedova Principessa Violante divenne la forza dominatrice a corte. Amata da tutti, perfino Papa Benedetto XIII ne onorò le virtù concedendole la Rosa d’Oro. Alla morte di lei nel 1731 Gian Gastone si diede al vizio abbandonando ogni interesse alle sorti dello stato.

[lxxxi] In italiano nel testo (n.d.t.).

[lxxxii] Fu questo stesso Vescovo Archinto che, Nunzio a Dresda nel 1754, convertì Winckelmann alla religione cattolica e lo condusse a Roma per quelle opere che lo avrebbero reso famoso nel mondo.

[lxxxiii] Charles de Brosses, op. cit., vol. ii, pp. 108-9.

[lxxxiv] Op. cit., vol. i, p. 213.

[lxxxv] Charles de Brosses ha sempre avuto una buona parola per Lambertini. Ecco come il Papa poteva apparire ad un contemporaneo: “Conosco solo due Cardinali non affetti da arroganza, Lambertini e Passionei … e raramente si ritrova un cardinale colto, con l’eccezione di Quirini e Lambertini” (II, 64). Poi, nelle note del Collegio Cardinalizio (II, 293): “Lambertini, bolognese, Arcivescovo di Bologna, bonhomme, accomodante, amichevole, non arrogante, cosa rara nella sua posizione; esempio di virtù nel suo comportamento … particolarmente istruito in Diritto Canonico; si dice abbia tendenze gianseniste; stimato ed amato nell’opera sua, libero da ogni arroganza, cosa di molto eccezionale.”

[lxxxvi] Sbigoli, p. 290.

[lxxxvii] Zobi, Storia civile della Toscana, vol. I, p. 241.

[lxxxviii] Lord March (1724-1810) divenne Duca di Queensberry nel 1778, il famoso “Old Q” nell’originale Marchese di Steyne del Thackeray.

[lxxxix] Lettera di Mann a Walpole, 14 febbraio 1747. Citata in Doran, Mann and Manners , vol. i, p. 253.

[xc] Edward Holdisworth (1688-1747) letterato.

[xci] John Monro (1715-91) successe a suo padre come medico al Betlehem Hospital nel 1752.

[xcii] Il Generale Wachtendonck comandava l’esercito dei Lorena a Livorno. Morì nell’agosto del 1741.

[xciii] Questo Diodati appartenne probabilmente alla stessa famiglia di Giovanni Diodati di Lucca, il quale nel 17° secolo fece una traduzione della Santa Bibbia ancora in uso, divenendo noto per il suo cattivo italiano così come il Vescovo Burnett per l’Inglese. Giudicando dalla lettera di cui sopra, parrebbe che il diplomatico scrivesse considerevolmente meglio del prelato.

[xciv] Sebbene Diodati fosse un diligente ascoltatore delle voci popolari, sarebbe sbagliato dare troppa importanza a quei rapporti, sebbene possa apparire curioso, nell’ultima sua frase, il suggerimento che nella città di Firenze i massoni possano aver travalicato i limiti originali della loro società.

[xcv] Il documento è in lingua francese e potrebbe essere una traduzione dell’originale italiano fatta da uno dei Ministri di Francesco per il Re, che non conosceva bene la lingua.

[xcvi] A quel tempo gli Stuarts in esilio erano protetti dal Vaticano.

[xcvii] Probabilmente Lord Raymond aveva già lasciato Firenze, poiché il 3 maggio 1739 egli fu istallato Gran maestro d’Inghilterra alla taverna di Braundshead, New Bond Street.

[xcviii] Missiva vergata in lingua francese.

[xcix] ibid.

[c] ibid.

[ci] Il Granduca Francesco.

[cii] Il Rucellai usa stavolta il termine frimasson invece di Libero Muratore come in ogni altra parte del documento. Penso che quel termine debba essere preso in senso derogatorio, e che egli abbia voluto riportare le parole esatte del Corsini.

[ciii] Lettera redatta in lingua francese.

[civ] Credo che il significato di questa oscura lettera sia quello di tenere Stosch sotto osservazione ed espellerlo al primo fallo se possibile, sebbene l’astuto Barone non abbia poi dato al governo alcuna chance.

[cv] Il latino rimane non tradotto, l’inglese è tradotto in italiano.

[cvi] Non è chiaro il senso della frase, né che implicazioni eretiche ciò possa avere.



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